venerdì 18 agosto 2017

Henrik Ibsen, vita dalle lettere: "Tutta la parata delle generazioni mi ricorda un giovane calzolaio che butta gli stivali per darsi al teatro"

Riletture di classici o quasi classi (dentro o fuori catalogo) #36
Quote #17


"To repeat or copy the words of another, usually with acknowledgment of the source." Questo il verbo "to quote". Ma in italiano "quote" è il plurale di quota, parola che mi interessa soprattutto nel senso della misura di un'altezza o di un lato. Citando e contestualizzando minimamente passi importanti, cerco un modo assai svelto di dar notizia di libri significativi, possibilmente brevi. Stando breve, pure io.



Tra gli epistolari che a spizzichi e bocconi mi è capitato di leggere negli ultimi tempi, ho trovato particolarmente vivido quello di Henrik Ibsen. Si può leggere in un libro ormai datato e tuttora in commercio pubblicato da Iperborea nel 1995 e intitolato Vita dalle lettere (pp. 188, euro 12,50, a cura di Franco Perrelli). Per uno scrittore che pensava di non essere a proprio agio nel rapporto epistolare, questa raccolta ha invece un nucleo di temi e moventi sorprendenti. Si presenta ricca di spunti, di traiettorie geografiche, di rimandi continui all'opera e alla sua interpretazione internazionale, ovviamente anche alla sua messa in scena, trattandosi spesso di teatro. Ad esempio, in una lettera del 1891 a Moritz Prozor, traduttore francese di Casa di bambola, parla dell'idea strampalata di Luigi Capuana, traduttore dal francese del noto dramma di Nora, della volontà di cambiare la scena finale per i teatri italiani. Ora, chi ha letto il testo, ha assistito a una messa in scena o ha anche solo sentito parlare di Casa di bambola, sa come tutta quest'opera assai dibattuta e quasi proverbiale trovi sostanza a partire dalla scena finale. E questo è anche quanto Ibsen ribadisce a Morotz, lamentandosi dell'idea di Capuana, fortunatamente sventata da chi doveva finire sul palco a recitare. Fu infatti Eleonora Duse, prima interprete del dramma al teatro Filodrammatico di Milano il 9 febbraio 1891, che convinse Capuana a mantenere il finale originale dell'opera. Va considerato anche il dato temporale poiché il dramma ibseniano comparve nel 1879 ed erano quindi già trascorsi un bel po' di anni quando Capuana si preoccupava della reazione del pubblico italiano davanti al finale originale: la nomea di Casa di bambola aveva già fatto il giro d'Europa. Ma questo è solo uno dei tanti aspetti interessanti che questo libro conserva. Tra i vari filoni di corrispondenza, quello più avvincente e nutrito mi è parso lo scambio con Georg Brandes. Ed è proprio una delle lettere a Brandes che riporto di seguito.



A GEORG BRANDES 
Dresda, 24 settembre 1871 
Caro Brandes,
[...] Ciò che vorrei soprattutto augurarle è un perfetto puro egoismo, che la spinga per un po' di tempo a considerare la sua attività come la sola cosa che abbia valore e significato, e tutto il resto come insussistente. Non reputi ciò indice di un tratto brutale della mia natura! Lei non può fare bene alla società in miglior modo che coniando il metallo che ha dentro. Io non ho mai posseduto un forte sentimento di solidarietà; in fondo l'ho soltanto recepito come un dogma tradizionale - e se si avesse il coraggio di non tenerne conto ci si sbarazzerebbe di quella zavorra che più grava sulla personalità. - In generale, a volte, tutta la storia universale mi appare come un grande naufragio; altro non resta che salvare se stessi.Non mi aspetto niente di riforme particolari. La specie umana tutta è sulla strada sbagliata, sì. O c'è qualcosa di difendibile nella situazione attuale? con i suoi inattingibili ideali ecc.? Tutta la parata delle generazioni mi ricorda un giovane calzolaio che butta gli stivali per darsi al teatro. Noi abbiamo fatto fiasco tanto nel ruolo di amante quanto in quello di eroe; l'unico nel quale abbiamo dimostrato una briciola di talento è il comico-naîf; ma con la nostra autocoscienza più sviluppata neanche lì faremo strada. Non credo che vada meglio altrove che in patria; le masse non hanno cognizione alcuna delle cose supreme, all'estero come da noi.[...] Durante la preparazione di Giuliano l'Apostata sono divenuto in un certo senso fatalista; ma questo dramma diventerà una specie di bandiera. Comunque non tema qualche opera di tendenza; io considero i caratteri, i piani incrociati, la storia, e non mi curo della "morale" della vicenda - sempre che lei nella morale della storia non comprenda la sua filosofia; perché va da sé ch'essa affiorerà come verdetto finale sul conflitto e la vittoria. Tanto questo però potrà chiarificarsi solo praticamente.[...] Infine il mio più cordiale ringraziamento per la sua visita a Dresda: ore memorabili per me. Fortuna, coraggio, salute e ogni bene.
Il suo affezionato
Henrik Ibsen

Nota: il primo incontro tra Ibsen e Brandes era infine avvenuto il 14 luglio. Congedandosi Ibsen aveva detto all'amico: «Lei scuota i danesi e io lo farò con i norvegesi».

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