Demotape e ciddì

APRYL - Tela / demotape, 1996

Apryl nacque nel 1995 da un incontro tra me e Andrea Lorenzet nel cortile del liceo Marconi di Conegliano. Ci presentò Luca Lunardelli, amico comune, consapevole di un'anomala passione di entrambi per i REM. Quando incontrai Andrea lui stava canticchiando Moral Kiosk dall'album "Murmur". Presto si unì a noi Giorgio Riondato, che dei REM non era un grande appassionato. Poco importa. In questo demotape intitolato "Tela" e registrato a Porcia da Paolo De Piaggi nell'estate del 1996 il gruppo è quindi così composto: Alberto Cellotto (voce e chitarra), Andrea Lorenzet (batteria), Giorgio Riondato (basso). Suona molto poco REM, forse. [Clicca qui per scaricare le tracce .mp3 e la copertina del demotape]

I brani - LATO A: 1. Piano di assurde danze; 2. Sarà; 3. Intermittenza; 4. Etichettando - LATO B: 5. Riflessi; 6. Stagni; 7. Gocce d'asfalto; 8. Passi.



APRYL - Alorconfusa / CD, Mellow Records, 2002

Apryl è stata un’ensemble attiva dal 1995 al 2003. Nel 2002, quand'è uscito questo album, con me suonavano e cantavano Ermanno Barsè (tastiere), Leandro Di Giovanna (voce), Andrea Lorenzet (batteria) e Giorgio Riondato (basso). [Ascolta su Bandcamp]

Una recensione di Donato Zoppo:
Accolsi “Corollari di figure” (mini cd del 2000) dei trevigiani Apryl, con notevole entusiasmo. La band, nonostante rimaneggiamenti in formazione, ha tenuto duro, sino a pubblicare il debutto “ufficiale” di “Alorconfusa”. Quattro i brani contenuti, due già presenti in “Corollari”: inevitabile porsi dinanzi al nuovo album con curiosità ed attesa verso possibili novità o conferme. Devo dire che ci sono entrambe e la cosa mi rende molto lieto, vista la fiducia che avevo riposto nei ragazzi. Ho di nuovo la piacevole occasione di parlare di “Hesperia” e “Nelle vesti di Adìa”, le ottime tracce che componevano il mini di cui sopra. Ritengo di poter confermare quanto di buono scrissi e quanto di interessante sia in esse depositato: due lunghi discorsi in cui suono e parole si accavallano, lottano e si dipanano tra contrasti, luci ed ombre. Agli amanti delle classificazioni posso dire che si tratta di un’inusuale forma di progressive in cui le tinte sinfoniche restano sullo sfondo, dove avanzano bagliori psichedelici ed aleggia un forte spirito di ricerca, mentre al testo è affidato un ruolo di “rinforzo” immaginifico. Il tutto eseguito con compostezza, con un piacevole senso dell’imprevisto e con una rara qualità, quella di comunicare magia e mistero. E’ un sound sicuramente cerebrale quello dei trevigiani, all’occorrenza liquido e scorrevole, con inediti riflessi jazz rock e piacevoli venature cameristiche: c’è il gusto, elegante e sobrio, per lo smantellamento e la ricostruzione, senza innescare le meccaniche care, ad esempio, ai French TV. Diciamo pure che se ELP e VDGG avessero suonato in un jazz club (oppure i Soft Machine in una signorile accademia…) forse Apryl avrebbe avuto un sicuro predecessore. Naturalmente nei due brani la formazione è schierata a quintetto, con Leandro Di Giovanna (canto) ed Andrea Lorenzet (batteria), entrambi assenti nell’attuale line-up, che risulta dunque un trio. E’ la formazione triangolare (Barsè/Riondato/Cellotto) che concepisce e materializza due nuovi “corpi” sonori. “Concetti”, anzi: questo è il termine che i ragazzi usano per qualificare i loro brani. “Ghe-pardo” è un sofisticato esperimento dalle tinte pinkfloydiane, onirico e rarefatto, non lontano dalla destrutturazione compiuta da nomi come Tortoise, GYBE! o gli stessi Sigur Ros. Parlare di post rock nei termini in cui è stato codificato questo “genere” (non dimenticando speranze ed attese in esso riposte) non si addice molto al sound di Apryl, dall’impostazione più progressiva e dai lontani echi mitteleuropei. Certo i richiami al jazz rock di Metheny e Pastorius e alla psichedelia d’avanguardia dei Velvet Underground, liquami che si fondono con certe plumbee pesantezze del Banco o degli After Crying, rivelano un fascino singolare. “Tarta-ruga” disegna uno scenario ombroso e fosco, dove i contorni sono indefiniti e dove le sfumature grigie prevalgono. Ermanno guida le evoluzioni tra organo, piano e synths, Andrea (batteria) e Giorgio (basso) non svolgono un mero ruolo d’accompagnamento ma innestano fantasiose spirali ritmiche. Il ruolo del testo: affascinanti, decadenti, liberi, suscettibili di molteplici interpretazioni. I due nuovi brani, dunque, non rivelano molto di nuovo, confermano anzi la “vita di frontiera” di Apryl. Come un’altra giovane band esordiente nell’anno in corso, i Trespass, ci troviamo dinanzi ad un suono molto dilatato e privo di “confini”. Se però nel caso del trio israeliano è l’attitudine energica e “festosa” a farla da padrona, con un netto vigore tastieristico, qui regnano incontrastati l’introspezione ed il chiaroscuro, con una partecipazione musicale collettiva ed “itinerante”. Il semplice ma suggestivo artwork è la giusta cornice di un fascinoso viaggio musicale, tra i più interessanti ascoltati negli ultimi tempi. Di sicuro una delle più belle uscite Mellow nello scorcio d’inizio del nuovo millennio. “Il cielo è corso fino a qui. Mi hai detto che temi di perderlo questo sole. Domani a te verranno idee e dubbi, verrà un sonno sospeso e dritto passerà la giornata. In poche nuvole si fissa un tremore d’ala, certo della tua presenza.” Da seguire.


L'IMBROGLIO - Introspettivo / CD, RES, 2005

Qui suono la chitarra in un sol brano intitolato “Frog in Fog”. L’imbroglio è un progetto a geometria variabile del batterista e percussionista Lucio Bonaldo.


Una recensione di Vincenzo Giorgio:
Per l’attento osservatore del panorama alternativo italico, L’Imbroglio (progetto dietro il quale si cela il batterista/compositore trevigiano Lucio Bonaldo) non dovrebbe essere una novità. Due significativi interventi in altrettanti tributi ad aree seminali della musica non convenzionale: Canterbury (The Collapso dei National Health in To Canterbury and Beyond – Mellow Records) e King Crimson (Providence in The Letters – Mellow Records). Illustri precedenti che ci hanno mostrato l’afflato creativo di Bonaldo: l’attrazione per certa commistione rock jazz abbinata ad una dimensione più marcatamente improvvisativa. Anche se quest’ultima pare essere la strada in cui il percussionista di Treviso si sta gradualmente indirizzando, Introspettivo rappresenta un momento di distesa sintesi tra scrittura ed improvvisazione dove la ricerca timbrico-materica ben si sposa con la violenta istintualità di un jazz messo tra virgolette e intelligentemente incrociato con certa elettronica di sapore (anche) minimalista. Musica difficile da raccontare (e questo è già un grandissimo pregio) per il suo inafferrabile zigzagare in un caleidoscopio irrefrenabile di riferimenti che conducono ad “altro”. Sì, mi sento di usare questo oscuro aggettivo ormai desueto e forse dimenticato: “originale”. Credo che questo sarà un lavoro che piacerà innanzitutto a chi ha apprezzato la ricerca degli Anatrofobia o l’endemica inquietudine degli Zu. Due riferimenti ideologici più che compositivi, d’accordo, ma che ben descrivono il viaggio di Bonaldo, ben simboleggiato dall’omonima traccia inaugurale che abbina le liquide cadenze del vibrafono di Luca Carrara con abrasive dissertazioni ritmiche post-strawinskjane. Molto bella anche Mickey Finn, amplesso tra elettronica e violente folate free che rimandano a certe cose di Zorn, così come i due gioiellini: Ottobre e A ruota che vedono un ottimo Francesco Calabrò al basso a conferire una intensa densità musicale che sa addirittura aprire spazi “post-rock”. Interessante anche il “minimalismo prog” di Frog in Fog dove fanno capolino in due Apryl Alberto Cellotto (chitarra) e Giorgio Riondato (basso). Su tutti i dodici musicisti spicca, ovviamente, Bonaldo sia a livello compositivo (i “tredici pensieri sonori” sono tutti a sua firma) che a livello esecutivo: il suo è un drumming creativo, costantemente teso alla “ricerca di un suono”. Non è un caso che, ultimamente, abbia collaborato con un grande ricercatore dello strumento: Roberto Dani. Insomma un gran bel esordio. Uno degli ascolti più interessanti di questo 2005.


L'IMBROGLIO - Dis/integrato / CD, MP & Records, 2010

In quest’altro CD del progetto L’imbroglio di Lucio Bonaldo suono la chitarra nel brano intitolato “Terra viva”.

Una recensione apparsa su "Arlequins":
Sotto lo pseudonimo de L’imbroglio, si cela Lucio Bonaldo. Batterista e compositore veneto, non molto noto, ma con all’attivo alcuni lavori molto personali. L’esordio nel giro progressivo, sempre come L’Imbroglio, è avvenuto con la partecipazione ai tributi della Mellow Records alla musica di Canterbury e ai King Crimson. Dopo due full length, tesi, difficili, vari e, ovviamente, senza successo alcuno: Nel 2005 “Introspettivo” e nel 2007 “Krar Qelt”. Il fatto di puntare coerentemente a proseguire il discorso intrapreso non ci fa che piacere, così possiamo assaporare questo Dis/Integrato, formato da quindici “pensieri sonori” come li definisce lo stesso autore. In effetti la variabilità di durata dai due minuti scarsi della più breve “La Marcia”, ai quasi dodici della più lunga “Chant Noir” rende proprio l’idea di una serie di spezzoni visionari e obliqui talvolta vicini al sogno, talvolta vicini al pensiero sfuggito e volante. All’interno, piccole impressioni musicali vicine all’intimismo minimale, ma anche furibonde sfuriate di free jazz e di improvvisazioni world-etnico-percussivo con forte incidenza della dissonanza e dell’elucubrazione sonora più ardita, ammiccando anche a forme noise di estrazione zorniana, al R.I.O. più beffardo, incostante e meno permissivo e al Canterbury softmachiniano della middle era. Da ciò si può già capire che il lavoro è complesso e merita un ascolto approfondito e cosciente. Nulla è diretto o subisce tentativi di semplificazione, eppure le parti si innestano con semplicità stilistica di grande maestria, tramutando il tutto in una lunga opera senza soluzione di continuità. Oltre al titolare del progetto che oltre alla batteria e percussioni, si spinge anche alla tromba, altri diciassette strumentisti si alternano a creare i contorti e sognanti affreschi. Tra loro spicca il chitarrista Gi Gasparin, corresponsabile anche della scrittura di alcuni brani, come il pianista Federico De Pizzol. Complessivamente sono gli aspetti più tormentati a colpire maggiormente. Sottolineo “Laing Opera” con echi della teatralità avanguardistica francese Wakhevitch, Chene Noir. “Ixzi” dove nonostante una serie di fiati tondeggianti non è permesso il superamento di una traiettoria introspettiva che inevitabilmente ricade su se stessa, arrotolandosi in un cupo e devastante scenario Zorn/Beefheart. La lunga e conclusiva “Chant Noir” dove l’avanguardia viene coperta e scoperta di drappi, presi da minimalismi contemporanei, da sequenze di note che riportano a qualcosa di noto, che tentano di creare un approdo sicuro, ma che in realtà sono parte di un’onda sonora, che può solo allontanarci da zone sicure per riportarci nel più temibile maelstrom. Neppure il mellifluo flauto di Bresolin, ci salverà. Disco cupo, difficile, spesso indigeribile eppure ricco di fascino nascosto e disintegrante. Scelta coraggiosa, per pochi, in effetti.

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