venerdì 20 settembre 2013

da "Canti di un luogo abbandonato" di Azzurra D'Agostino

Una poesia da #22

"Chi lascia solo chi? A cosa somiglia la vita sulla terra?" si chiede Azzurra D'Agostino ad un punto ben preciso di questi Canti di un luogo abbandonato, poesia-progetto, radicale richiamo avvertito da chi scrive nei confronti dei luoghi. Luoghi-dèi, lieux-dieux, come vuole Yves Bonnefoy? "Ma questi piccoli boschi ci sembrano sempre abitati, non fosse che da un'assenza" è una delle epigrafi del volume, presa in prestito da un altro poeta del genius loci o deus loci, Philippe Jaccottet. Una lettura importante, che consiglio senza troppo aggiungere o indugiare. Un percorso in poesia su uno dei verbi più problematici della vicenda umana, quell'abitare e saper abitare che richiama anche Azzurra nelle sue note. Ha proprio ragione quando scrive "Perché affinché un luogo sia disabitato, occorre prima averlo saputo abitare". Di riflesso mi chiedo: se non sappiamo più abitare i luoghi dove viviamo, se abbiamo disimparato a farlo negli ultimi decenni, potranno questi dirsi domani "abbandonati" o "disabitati"? In questi ragionamenti entrano molti fasci di luce e ampie zone d'ombra, non ultima la politica (a tutti i livelli in cui si pratica quest'"arte degenerata"). 

Azzurra D'Agostino non è più una sorpresa. Ricordo una presentazione della rivista "daemon" a Udine, tanti anni fa, al circolo Pabitele. Una serata fredda finita in un'osteria da frico con Pierluigi Cappello e Vincenzo Della Mea; dovevano esserci anche il direttore, Franco Baldasso, e Andrea Breda Minello. Azzurra aveva la febbre e allora fu Cappello a leggere le sue poesie, dopo averne illustrato con occhi fermi la bellezza. Forse non usò nemmeno l'aggettivo participio presente promettente, come si usa in questi casi coi poeti "giovani" (e proprio Azzurra, il 17 settembre, sul Corriere della Sera, ha scritto un intervento efficace attorno all'impiego della parola "giovane" in Italia, con un finale dai toni sabiani). Quella lettura di Cappello fu una fusione tra due delle voci più belle della recente poesia e la ricordo bene tuttora. Ma mi fermo - sono cose che potete scoprire da soli o che già sapete - e  lascio la parola a lei, che bene ha descritto il progetto nelle note che seguono qui sotto e accompagnano l'invio del volume; c'è spazio infine per un estratto generoso che ho scelto dai Canti e per il quale la ringrazio. Azzurra - mi raccontava tempo fa - non è stata una vorace lettrice di Andrea Zanzotto. Eppure, dopo aver letto a letto queste poesie, le ho scritto subito che pur battendo una strada tutta sua, a mio sentire queste coincidono con la sua prova più intimamente zanzottiana.

Ricordo che Azzurra D'Agostino sarà presente sabato 21 a Pordenonelegge in questo appuntamento e che i prossimi luoghi disabitati in cui sarà possibile incontrare il libro sono i seguenti:
Roma - 6 ottobre 
Imola (Bo) - 19 ottobre 
Appennino - 6 novembre
Pistoia - 8 novembre
Se vi interessa approfondire i dettagli, l'autrice legge eventuali vostri messaggi e richieste a questo indirizzo email; il progetto è anche su web a questo link.

Un viaggio nel tempo (proprio e passato) attraverso l'incontro con i resti. Resti di case, residui di pozzi, tetti, dettagli di un'umanità scomparsa. Il poemetto Canti di un luogo abbandonato nasce dall'ascolto delle voci di un popolo e di una cultura che non ci sono più, ma che è ciò da cui veniamo. Nasce dall'incontro con i ruderi, con quelle che una volta erano case e che ora sono con violenza riprese dalla natura, abitate talvolta di nuovo - ma da animali e piante. Nasce dall'abbandono, dall'irrequietezza di anime che sembrano non trovare pace nel vedere il proprio mondo spopolato. Nasce da una domanda che il presente pone: chi è che se n'è andato per davvero? Perché affinché un luogo sia disabitato, occorre prima averlo saputo abitare. E oggi, che l'abitare sembra così difficile, quasi impossibile, questa è una indicazione preziosa. Il poemetto è la seconda parte di una trilogia la cui prima parte, 'Versi dell'abitare', è stata pubblicata con una prefazione di Fabio Pusterla sull'XI Quaderno di poesia contemporanea, ed. Marcos y Marcos – e si occupa della questione dell'abitare la terra da parte dell'uomo, e dunque della domanda 'come vivere?'. I Canti di un luogo abbandonato sono un incontro col disabitato e con l'assenza – che è sempre prendere in considerazione una presenza. L'ideale luogo di lettura del poemetto è un luogo abbandonato, meglio se 'rimangiato' dalla natura. Riabitare questi luoghi con le parole, con letture ad alta voce che creino una piccola comunità, fa parte di un progetto che vorrebbe mappare questi luoghi per creare una piccola geografia alternativa a quella usuale delle rotte certe e frequentate. Una geografia di posti che nel loro essere incompleti e stranianti sono speciali, e ci fanno delle domande.

Nota sul volume: il libro è stato autoprodotto e realizzato graficamente con il lavoro di Anonima Impressori di Bologna, officina grafica e stampa d'arte. È stato composto e stampato con caratteri mobili e matrici in legno. Ne sono state realizzate 300 copie numerate e assemblate a mano. Ogni copia contiene una cartolina d'arte. Il libro non ha una distribuzione ufficiale e vuole tentare, per incamminarsi nel mondo, la via diretta dell'incontro con i lettori. 














[...]

C'era anche tempo per parlare coi cani per allungare
le mani farsi annusare star lì nello spiraglio dove l'aglio
in una treccia mescolava l'odore a quello di corteccia
ora siamo malinconici perché dimmelo te come ti sentiresti
è normale mescolare un po' di pianto con la scorza
delle cose che non si smorza rimane quella il faggio
è faggio, respira in quel suo modo di pianta, bella
la vita non si dice, ma a noi quella ci manca, ci piace.


Le donne certe volte si scioglievano i capelli e quelli
erano dei momenti come di luce, l'aria sapeva di mele
le parallele degli aironi erano perfette. Di vendette
non c'è bisogno nessun segno di conversione della pena
la cena verrà servita comunque e dunque diciamola la verità
la verità è che noi della miseria ci saremmo vergognati
siamo stati in quell'assoluta povertà come una verità vera
come una cosa che c'era. Si confonde il cielo se non ha
le sponde le teste dei monti a fargli da sponde, le gronde.


Siamo qui ci piacerebbe pensare d'essere anche noi
proprio noi l'acacia, il sambuco, il buco che nasconde
il ragno e il topo, essere il topo stesso e lo spesso strato
di buio che lo nasconde essere fronde, rami, schiocchi
biacchi, occhi nel verde, sorde vipere, pere mature,
pure pupille di volpe, pelo, pelle, tutte queste cose
tutte quelle cose belle e tremende vicende di sangue
senza lingue siamo rimasti senza lingue ci tocca parlare
stiamo in mezzo a questo vento e non possiamo respirare
non siamo da nessuna parte non siamo sulle stelle quelle
cose si dicono ai bambini perché non piangano più
si mente ai bambini e quando sono soli stanno a testa in su.


Essere qualcosa ecco cosa ci manca ora che diseredato
il prato non l'ha annaffiato nessuno ci ha pensato la pioggia
è normale sale in forma di vapore e poi scende giù goccia
a goccia e sboccia di nuovo tutto daccapo non è stato
dolore è stato solo morire certo dispiace se tace anche l'ultimo
erede se non ci crede a queste cose non si pronuncia non viene
in questo posto non ha un vero e proprio posto non ha un posto
come spiegare noi abbiamo una nostalgia che non si può capire
c'è qualcuno che la sente? Che ci sente a noi, così vicini al niente?


Tutto è semplice nell'aria e vi lasceremo in pace
ci piace l'idea di essere spina ma non è così affatto
non del tutto il fatto è che qui non ci sente nessuno
scambiati per merli tordi passerotti l'ombra del pruno
che si sposta per il vento che spavento che fa il cigolare
del cardine il cardo con su la farfalla la stalla svuotata
sventrata la carcassa di un animale sta nuda nel sole
in pieno sole. Mosche. Mosche. Brusche virate dei vivi.


Vivo fino a qui dice la pianta del noce senza una sola
voce un solo fiato di voce, si secca come avesse peccato
in qualcosa beccato hanno beccato interi stormi intorno
di notte di giorno sempre si muove una bava di vita la vite
si scava un varco fra tutte le piante e quante sono tutte le piante
l'ha piantata qualcuno questo è sicuro l'ha piantata attento
al sole che picchia alle folate di vento al passo che hanno le ore
l'ha piantata qualcuno con una vanga, una zappa e l'amore.


La casa viene al mondo e si spacca sotto
il peso di un tramonto mortale: rotto il cotto
il tetto, l'architrave. Quante Ave Maria avrà detto
la vecchia che non ha più nome. Il gendarme sarà
venuto? Avrà preso mai un disertore? Le ore quando
è ancora buio e già là nei campi si muove l'aratro
chiedere perdono per il peccato lo steccato aprirlo
tirar fuori le bestie restie nell'alba da venire a farsi aprire
cucinare per gli uomini dentro i camini la cenere sparsa
arsa come la bocca dopo l'amore il fiore sul greto del fiume
il sudiciume portato a lavare al pozzo il gozzo tagliato
del maiale il sangue a sgocciolare giù dal collo del coniglio
tutta una vita tutto un germoglio un gran scompiglio.



[...]

3 commenti:

  1. Azzurra... ieri qui: http://www.radio3.rai.it/dl/radio3/programmi/puntata/ContentItem-fdf45273-c572-4260-9292-118bd105621a.html

    C'è il podcast...

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  2. http://www.selpress.com/unibs/immagini/170913S/2013091734248.pdf

    al link trovate l'articolo del corriere di cui parla l'autore dell'articolo, marco

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