mercoledì 11 luglio 2018

"Poetiche e individui. La poesia italiana dal 1970 al 2000" di Maria Borio

Sembra sia diventato un compito difficile scrivere (o dire) qualcosa di sensato, utile e plausibile sulla poesia contemporanea italiana. O meglio, più che difficile, raramente ciò accade. Se ci rifacciamo a un artista come Piero Manzoni dovremmo forse concludere che la critica è merda (così come la poesia stessa), ma non ne sono del tutto convinto, e Manzoni stesso fu, a suo modo, un grandissimo critico. Anche poco tempo fa, scrivendo del libro di Giovannetti La poesia italiana degli anni Duemila, la sensazione è stata quella di un'analisi non particolarmente approfondita: c'era una sorta di intelaiatura di fondo che andava supportata e farcita con degli esempi e il risultato che ne è uscito non aveva né la superficie né la consistenza di uno studio che si possa imporre, in modo duraturo, all'attenzione attuale o futura (chiaramente, come sempre, farà piacere essere smentito). Tuttavia una cosa è certa: se parliamo di "poesia contemporanea italiana" sappiamo all'incirca a cosa ci riferiamo, e non è poco: ci riferiamo a quella che è veicolata solitamente come poesia (non necessariamente in versi), dentro alcuni confini nazionali (ma non necessariamente in lingua) e dentro una cornice temporale data. 

L'operazione che intende compiere Maria Borio in questo studio è rimettere mano ai sistemi di "canone" e "genere" oggi in crisi passando per la via della poetica (anzi, delle poetiche), sia questa individuale o di movimento. Nel recente, corposo contributo critico intitolato Poetiche e individui. La poesia italiana dal 1970 al 2000 (Marsilio, pp. 304, euro 30) Borio evidenzia nel sottotitolo il gancio principale: sappiamo che proverà a dire qualcosa di un trentennio, che è sì un periodo lungo a passare, ma più accettabile di certi criteri antologici o critici che ci parlano ancora in secoli. Trent'anni potrebbero essere anche il medio periodo tra due generazioni, e sappiamo quanto l'aspetto generazionale sia ancora centrale nei discorsi poetici. Tuttavia in questo libro decàde un'enfasi totalmente generazionale e tre decenni diventano un arco temporale teoreticamente gestibile, se non si affronta con la pressione di voler dire la parola definitiva. Vengo presto a un punto: non scrivo a caso "parola definitiva", in un contesto che, in estrema sintesi, si potrebbe schematizzare in un quadrante critico dove insistono due assi importanti, affascinanti ma forse - questo è il punto dolente - un pochino troppo innamorati di sé: quello della poesia come medium, che affonda la propria indagine e interpretazione del fatto poetico in un lontanissimo di oralità (componente performativa, cultura orale, concezione della metrica come una sorta di macchina memoriale, con qualche ripresa forse pericolosa del trascorso dei menestrelli) e quello della poesia di ricerca, meglio se di ascendenza francese, la quale come noto in Italia è appannaggio di pochi addetti che operano all'interno del sacro GRA (una poesia insomma che già ad Aosta, a Campobasso o a Siracusa è probabilmente preclusa). Chiaro che una certa teorizzazione forte del fatto poetico comporta un innamoramento e persino un accecamento (paradossale se pensiamo all'etimo di "teoria"). Ma la situazione a grandissime linee potrebbe essere questa, e allora tanto vale tornare a ripassare un po' di falsificazionismo popperiano anche per le teorie sulla poesia, spesso orientante appunto al passato, al problema dell'origine della poesia, come se tutto il nucleo del discorso stesse lì e basta, nel momento "inaugurale" da dove è sgorgato una volta per tutte un fiume di determinismo nel quale o sei dentro o sei fuori. No, non mi piace, se potessi dirlo con una opzione che i social principali si guardano bene dal consentirci di usare.

Il panorama rapidamente schizzato sopra non mi è mai sembrato un grande affare o una coraggiosa scommessa. Una posizione teorica forte e nitida è utile, fosse anche solo come termine di confronto, ma interessa decisamente meno quando procede scevra di una sana componente di dubbio e falsificabilità. Certo, delle indicazioni utili arrivano da entrambi gli assi ricordati sopra, e faremo bene a leggere tanto Gabriele Frasca (poeta, teorico, traduttore) quanto i testi o le traduzioni da Francis Ponge o Christophe Tarkos, ma ciò che mette a disagio è una malcelata pretesa di spiegare tutto o quasi tutto. Il punto di partenza di Maria Borio è chiarito sin dalle prime pagine, e oltre a stabilizzarsi nell'endiadi di poetiche+individui che verrà sviluppata nei singoli capitoli, si potrebbe riassumere in questo passaggio:
La poetica esplica un progetto artistico che combina una parte empirica - quella dei temi, dello stile - e una parte teorica: una riflessione idealizzante che trascende la prassi, che motiva la funzione dell'opera e la sua interazione con altre forme e linguaggi. [...] La poetica indica, quindi, la necessità di una lettura relazionale: considera l'opera per il suo essere in situazione, parte di un campo complesso di rapporti dialettici tra teoria e prassi, ontologia e fenomenologia.
Questo libro diventa quindi un buon ripasso, anche di storia delle idee, di accadimenti editoriali importanti (ad esempio vi è attenzione anche alle traduzioni di certi titoli) e dimostra un occhio di riguardo per l'apporto delle riviste, ma non viene assorbito da un incedere storicista, e problematizza via via i poeti, i movimenti, gli avvenimenti (ad esempio Castelporziano) nel momento in cui si affacciano alla trattazione sistematica. E mediante il ricorso a campionature, per via induttiva, Maria Borio percorre i campi di avvicinamento alle poetiche e agli individui poeti. Insomma, una volta tanto la critica non è impressionistica e mette nero su bianco il proprio metodo, la propria consapevolezza teorica e l'analisi empirica al servizio di un lettore che possa per prima cosa leggere con pari consapevolezza, discutere, accettare o rifiutare le considerazioni e le tesi che s'adagiano nella trama del testo. Non mi sembra poca cosa, a maggior ragione se la situazione relazionale della critica è quella descritta in partenza oppure quel farfugliare da faida che spesso si annida nei thread dei social network più parolai, nella conta o nell'appello dei like. Ne deriva un accavallarsi prensile di teoria e prassi che consente la disposizione dei testi in un campo (e qui Bourdieu non è da solo, c'è anche Anceschi) che è "quello spazio dove si trovano rapporti di somiglianze e differenze, aspetti di famiglia definiti in modo relazionale".

Questo potrebbe essere un quadro, tra altri possibili, nel quale accogliere l'uscita di questo volume. In chiusura, quali sono allora i campionamenti che servono all'autrice per disegnare la propria costellazione del trentennio finale del Novecento? Un primo movimento avvicina le esperienze di Dario Bellezza, Cesare Viviani, Valentino Zeichen e le scritture di Patrizia Cavalli, Vivian Lamarque, Iolanda Insana e Biancamaria Frabotta. Un successivo passo sposta la macchina da presa sulla lirica di Milo De Angelis, sulla poesia neo-orfica e neo-romantica e infine su Giuseppe Conte. Sotto il cappello di "contemporaneo referenziale" Maria Borio tratta le esperienze di Maurizio Cucchi, del neo-individualismo e della poesia oggettiva e infine Giampiero Neri. La parte centrale del volume coincide con il decennio degli anni Ottanta dove si collocano le più approfondite considerazioni su Patrizia Valduga, Gabriele Frasca, Valerio Magrelli ma anche le esperienze, rispettivamente di area romana e padovana, delle riviste "Braci" e "Scarto minimo". La parte dedicata agli anni Novanta raccoglie nuove idee e indugia sulle esperienze di Fabio Pusterla, Antonio Riccardi, Umberto Fiori, Antonella Anedda, Franco Buffoni e si chiude con una manciata di pagine importanti dedicate all'opera di Mario Benedetti, la quale, circumnavigando il caso probabilmente più importante di questo trentennio (De Angelis) e la stessa esperienza di rivista di "Scarto minimo" già ricordata,  secondo l'autrice sancisce, antieroicamente, il passaggio dalla lirica dell'esistenza a lirica dell'esperienza. E su Benedetti il libro si chiude. Si chiude su una delle esperienze di scrittura inaggirabili del Novecento e dei primi anni Duemila. Tempo fa - cito a memoria, augurandomi sia precisa e buona - Matteo Marchesini parlò in un articolo di "Domenica" de "Il Sole-24 Ore" di ottundimento programmatico per la poesia di Mario Benedetti. Uno spunto per una discussione potrebbe ripartire anche da qui, facendo cozzare l'analisi contenuta nell'ultimo capitolo di questo libro di Maria Borio con quell'avventata formula. 


* * * *

Che cos’è la solitudine.

Ho portato con me delle vecchie cose per guardare gli alberi:
un inverno, le poche foglie sui rami, una panchina vuota.

Ho freddo, ma come se non fossi io.

Ho portato un libro, mi dico di essermi pensato in un libro
come un uomo con un libro, ingenuamente.
Pareva un giorno lontano oggi, pensoso.
Mi pareva che tutti avessero visto il parco nei quadri,
il Natale nei racconti,
le stampe su questo parco come uno spessore.

Che cos’è la solitudine.

La donna ha disteso la coperta sul pavimento per non sporcare,
si e distesa prendendo le forbici per colpirsi nel petto,
un martello perché non ne aveva la forza, un’oscenità grande.

L’ho letto in un foglio di giornale.
Scusatemi tutti.



Mario Benedetti, "Che cos'è la solitudine" (da Umana gloria, 2004)

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