martedì 17 dicembre 2013

"Finn's Hotel" di James Joyce

Che cos'è questo Finn's Hotel di James Joyce? Un editore col quale avrete forse familiarizzato nel reparto ragazzi delle librerie, Gallucci, ha portato in italiano con la traduzione "d'autore" di Ottavio Fatica, all'interno della bella e materialmente fantasmagorica collana "Alta definizione", uno dei pezzi mancanti nella biografia joyciana (pp. 128, euro 13, introduzione di Danis Rose e postazione di Seamus Deane tradotte da Giovanna Granato, disegni di Casey Sorrow). Finn's Hotel costituisce un ritrovamento del quale si è abbastanza discusso negli ultimi tempi. E non poteva accadere diversamente: trattasi di uno dei più importanti scrittori del Novecento e questo libro di prose brevi impazzite ha pure la presunzione di collocarsi incautamente tra due molossi controversi come Ulisse (1922) e la Veglia per Finnegans (1939). La questione insomma sembra diventare interessante. Che cose ci è sfuggito in tutti questi anni? Che cosa è stato imboscato? Che "libro" precede il congedo un po' misterioso della veglia joyciana?

Stavo per scrivere che queste brevissime prose illustrate sulla storia d'Irlanda sono "schegge". Mi sono autocensurato. Se vogliamo tenere per buono il materiale, il legno, allora sono giunture o incastri, e non tanto tra le due succitate opere maggiori in dimensione e fama, bensì tra la storia e la lingua. Perché nella sua ricca nota ha ragione il nostro decano fra gli anglisti, che persino nel cognome conosce la fatica del tradurre. Ha ragione a spostare decisamente l'attenzione sulla lingua e il suono colto dalla sonda auricolare joyciana. Fatica scrive della speciale dotazione di Joyce, un "senso del linguaggio" come pochi altri, autentico scarto dello scrittore che più di ogni altro a lui contemporaneo rappresenta "il precipitato della soluzione modernista". (Francamente, per rimanere al nostro traduttore, l'avevo un po' perso nella nota che accompagna la sua traduzione delle poesie in inglese della poeta romena Nina Cassian, uscite qualche mese fa per Adelphi assieme a quelle in lingua romena col titolo C'è modo e modo di sparire, nel senso che non ne avevo colto bene il senso e l'incisività; ora invece qui lo ritrovo in tutto il suo scoppiettare imprevedibile di fuoco, in tutto quel prudente azzardo che accompagna la vita di ogni traduttore di valore, com'egli senza dubbio è.) Ed è importante sapere che il libro che avete tra le mani è stato affidato a un traduttore accortissimo, altrimenti c'era il rischio di perdere il peso specifico dell'operazione editoriale che Carlo Gallucci ha portato a termine. E c'era il rischio di perdere definitivamente Joyce e il suo senso del linguaggio.


Un disegno di Casey Sorrow
Torniamo alla domanda d'apertura. L'autore stesso definiva queste favole, nel 1923 mentre le scriveva, degli "epiclets", o "ten little epics" (piccola epica, ma anche invocazione dello Spirito Santo nel sacramento dell'eucarestia). Sono formule note, per chi bazzica Joyce, parole in uso già dai tempi di Dubliners (il centenario della pubblicazione di questo libro cade il prossimo anno). Pensiamo al momento. Sono passati pochi mesi dalla pubblicazione di Ulysses. Sono allora queste dieci favole paragonabili ad un bell'allenamento defaticante per smaltire l'acido lattico? Anche se è defaticante, di un importante allenamento si tratta. E non c'è partita vera senza allenamento. E alcuni gesti atletici purtroppo riescono solo in allenamento. Insomma, questi testi rivisitanti storie e mitologie dell'Irlanda sono scomodi, e non nell'accezione normale che si dà al termine scomodo quando riferito a un libro. Sono testi scomodi perché tutte le persone che su Joyce hanno campato fanno davvero fatica a inserirli dentro quella che è diventata via via la vulgata joyciana, nutrita di miti, leggende e molte imprecisioni, verso le quali il nostro traduttore ci mette in guardia. Questo libretto titolato come l'hotel dove lavorava Nora, la moglie dello scrittore, diventa allora un "voyage au bout de l'anglais". Il folletto dublinese sapeva scegliere (Joyce, in inglese, sconfina nella parola "choice"), così come dimostra di saper scegliere Fatica. Finn's Hotel è un libro che si presenta con maggiore confidenza al lettore, rispetto ai due torrioni che lo circondano nella bibliografia joyciana, eppure sento che mi ha lasciato in bocca un interrogativo quasi inquietante: quale il posto di Joyce e della sua letteratura, al di là delle tante carriere accademiche che attorno a lui si sono arroccate? 

2 commenti:

  1. Io non sono capace di leggere Joyce, salvo Gente di Dublino e poco altro... è davvere un autore impossibile per me. Ora magari provo con questo. Ciao, Vale

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