mercoledì 28 febbraio 2018

Lionello Fiumi e i suoi "Chiaroscuri di guerra"

Leggere una grande guerra #26


Succede che sia una persona conosciuta tanti anni fa, Hideyuki Doi, di nazionalità giapponese e in Italia per motivi di studio e insegnamento, a parlarti per la prima volta di Lionello Fiumi (Rovereto 1894 - Verona 1973). Il la sono le sue raccolte di poesia dai titoli sdruccioli (Polline del 1914 che trovate quiMùssole del 1920). Succede poi che scopri che Fiumi è autore di una monografia su Corrado Govoni che ti interesserebbe almeno sfogliare (e lo si può fare sempre su archive.org, qui) o di un articolo sul poeta belga Émile Verhaeren che parimenti ti piacerebbe leggere. E succede infine che scopri che Scripta, editore di Verona, città di Fiumi - che però visse anche a Parigi dal 1925 al 1940-, abbia da poco pubblicato un volume dal titolo Chiaroscuri di guerra (pp. 96, euro 10, a cura di Agostino Contò) che raggruppa alcuni degli scritti di natura giornalistica pubblicati da Fiumi dopo l'entrata in guerra dell'Italia. Fiumi, nato nell'irredenta Rovereto e esonerato dalla leva, fu osservatore scrupoloso e inviato "stanziale" nella sua Verona. La città fu un punto d'osservazione interessante delle immediate retrovie del fronte, così come altre città del Veneto, prima e dopo lo spartiacque di Caporetto e del Piave. Qui avveniva l'ammassamento, qui frequenti transiti. Fiumi fu, tra altre cose, organizzatore di una curiosa biblioteca degli scrittori, grazie alla quale funzionavano i prestiti di libri per i soldati diretti al fronte.


Verona - Ospedale militare principale - Ingresso
Gli scritti radunati nel volume dell'editore veronese e curati da Agostino Contò rappresentano un punto di vista finora poco frequentato sui movimenti di quegli anni. L'operazione è possibile grazie all'attività gravitante sulla Biblioteca Civica di Verona e sul fondo Lionello Fiumi istituito nel 1976 per volontà della vedova dello scrittore, Beatrice Magnani (qui il rinvio al fondo con il bel catalogo, facilmente consultabile). Colpisce, ed è già evidente da questi scritti, la rete di contatti di Fiumi, nazionali e poi anche internazionali. Lionello Fiumi è autore e divulgatore, facilitatore e talvolta ponte, traduce molto, si prodiga per far conoscere i poeti italiani all'estero, fonda la sede francese della "Dante Alighieri", lui stesso compare in una antologia di poesia mondiale giapponese (Sisakù, Tokio 1936, unico italiano con D'Annunzio), mentre per Carabba cura assieme allo scrittore Kuni Matsuo il libro Poeti giapponesi d'oggi (quanta fatica oggi a ritrovare simili pubblicazioni!). Del 1934, tanto per dirne un'altra, è un sorprendente Supervielle, il poeta della relatività (e oggi di Jules Supervielle non si parla neanche più, mi pare). Gli scritti di area veronese dedicati al clima di guerra qui radunati rappresentano allora sia una specola inedita sugli anni del conflitto, sia un cancello d'entrata alla proteiforme carriera giornalistica e scrittoria che seguì. Tra le varie iniziative infatti, dopo la guerra, Fiumi fondò e diresse il "Gazzettino illustrato". Chiaramente qui il punto di vista è quello di chi alla guerra non partecipa, ma questo non toglie che anche questa visuale possa includere diversi barbagli di interesse. 

domenica 25 febbraio 2018

"Tempo riflesso" di Corrado Benigni. Una lettura di Daniela Gentile

La raccolta di Corrado Benigni Tempo riflesso (Interlinea 2018), si legge attraverso un movimento a più livelli: da un lato seguendo la direzione spaziale che dalla superficie procede con lo scandaglio verso il basso, verso tutto ciò che non si vede e che superficie non è, ma che esiste e che sembrerebbe godere tanto di una immutabilità quanto di una evoluzione propria; dall’altro secondo la traiettoria del senso che si muove alternativamente da ciò che si vede, e quindi si conosce, a ciò che si ignora perché lontano dall’orizzonte della vista, dei sensi.

Il metodo che emerge dai versi per realizzare tale struttura sembrerebbe fotografico (la fotografia, del resto, è assai richiamata nella raccolta, soprattutto nell’ultima sezione Apparenze): un obiettivo, quello del poeta, che ingrandisce il dettaglio, procede per pixel sempre più sgranati sino a giungere alle Pietre vive, prima sezione del libro, alle cellule, agli insetti, ricostruendo, così, stratificate memorie del sottosuolo per sottrazione di elementi o per loro aggregazione con alternate immagini di pieni e di vuoti che restituiscono un equilibrio solo apparente delle parti. Né è lasciato sfocato il procedimento con il quale Benigni ha intrapreso la composizione, per immagini-poesia, del suo piccolo de rerum natura; si legge per esempio in Ordine dalla sezione Dall’invisibile:
Osserva. Tutto è organizzato secondo regole precise. La geometria della goccia separata dal flusso dell’acqua, gli alberi ancora spogli a marzo che aspettano pazienti la fiamma delle foglie. Decifra. Il suono che si rompe tra due note, l’accartocciarsi del vento sulle cicatrici della terra e il ghiaccio che si scioglie. Dall’impero di un ordine non c’è via di scampo, rigorosa è la gerarchia della natura, il suo alfabeto indifferente, dove ogni cosa è specchio di un’altra. 
Se, per il tramite di questi imperativi, rimane nitida la traccia degli scatti in successione che sono stati necessari per questo lavoro, e se molteplici sono gli strumenti con un cui Benigni costruisce l’immagine, ora con una versificazione asciutta che richiama se stessa nelle singole sezioni, ora con una prosa che si affaccia di più alla spontaneità della riflessione, più fuori fuoco restano invece i risultati perché ontologicamente irraggiungibili.

«qualunque cosa è uno specchio se guardata a lungo./ Impara il linguaggio delle pietre/ Non abbiamo che parole e una conta di sassi, qui/ nella geometria del nostro diradarci», leggiamo in Risveglio. Misurare il tempo attraverso i nostri anni o attraverso l’avvicendarsi delle stagioni nel colore delle foglie non basta, non è che un inganno la sua precisione: il risultato è un numero, una porzione infinitamente breve rispetto al tempo che scorre lungo tutto ciò che è prima di noi, sotto la superficie delle cose e del loro apparire. La poesia si fa quindi carico del tentativo di approssimazione alle cose e anche al tempo nell’unico modo che gli è concesso dal linguaggio, dalla nostra esistenza stessa: essere riflesso, istante, scatto e segmento di tempo; essere lente con cui scorgere una «trascendenza tangibile», tentare, se non di illuminare, almeno di riflettere «quello che cerchiamo e non abbiamo trovato».

Daniela Gentile

venerdì 23 febbraio 2018

"Cromorama. Come il colore ha cambiato il nostro sguardo" di Riccardo Falcinelli: il design del libro è già un punto di vista sul suo oggetto

©overtures #16

È un libro eccezionale questo, frutto del lavoro di una persona che è ormai entrata nel novero dei grandi visual designer italiani. Con "lavoro" si intende quindi anche l'attività quotidiana non coincidente solo con la ricerca e scrittura di libri. Effettivamente credo sia davvero tra i più preparati Riccardo Falcinelli e lo ha dimostrato anche con altri libri. E dato che ci siamo ricordiamo alcuni di questi titoli: Critica portatile al visual design. Da Gutenberg ai social network per Einaudi, Fare i libri per Minimum Fax e l'assai utile Guardare, pensare, progettare. Neuroscienze per il design per Stampa Alternativa. È eccezionale perché fa eccezione. Detto in altre parole, si fatica a trovare un prodotto simile a Cromorama. Come il colore ha cambiato il nostro sguardo (Einaudi, pp. VIII - 472, euro 24) nel mercato editoriale odierno. Il libro parte dall'esempio delle matite, che dopo la nascita fortuita alla fine del Settecento si sono imposte come standard per la scrittura e sono quasi tutte... gialle. Perché è successo questo? Perché la "giallezza" (o "giallitudine") è diventata parte dell'idea che abbiamo di matita un po' a tutte le latitudini? Certo, esistono le matite verdi o rosse, ma la stragrande maggioranza delle matite prodotte sulla faccia della terra è verniciata di giallo. Per passare a un altro colore, siamo sicuri che il nero sia nero? ("Nera più del nero" cantava Riccardo Cocciante in "Margherita"). Molto importante è esercitarsi a capire quanti toni e aspetti si racchiudano nella semplice nostra espressione "nero". Oppure, vi siete mai chiesti perché i manti della madonna da neri nel Quattrocento sono passati al preziosissimo oltremare? Questo studio si propone come una storia materiale (e anche scientifica) del colore, cerca di dirci come il colore abbia influito sul nostro sguardo, e trapunta il proprio impaginato passando continuamente dentro e fuori concetti come standard ed eccezione. Anche se probabilmente ci pensiamo poco, il colore ha una posizione prominente nelle nostre giornate: orienta, guida, emoziona, gerarchizza, colloca. Questo studio fa anche molte altre cose. L'innovazione di Falcinelli è quella di non rimanere fermo alla storia dell'arte, ma di aprirsi, diversamente dai tanti libri sul colore scritti da storici dell'arte, alla quotidianità, all'economia, alla fisiologia e persino all'antropologia e etnologia del colore. Da questo punto di vista un libro così è davvero imperdibile e può interessare un pubblico vastissimo, direi un pubblico coincidente con la quasi totalità delle persone che, dai professionisti dei più disparati mestieri agli appassionati, abbiano ancora voglia di leggere un testo utile, scritto bene e impaginato ancora meglio (non si parla quasi mai di impaginazione quando si affrontano i discorsi sulla fattezza dei libri e questo testo ha delle peculiarità che invito a scoprire). 

In questo lavoro eccezionale c'è però una cosa che curiosamente non è uscita particolarmente bene o che quantomeno non fa eccezione. Mi riferisco alla copertina, il che potrebbe far sorridere, considerando la galleria di bellissime copertine allestite da Falcinelli per più case editrici italiane. Vedremo tra qualche riga che si tratta sicuramente di una scelta ponderata e coerente con l'impaginazione del volume. Alla fine, in fondo, è comunque una copertina efficace. Tuttavia non è una copertina particolarmente innovativa e si potrebbe aprire una lunga parentesi su cosa sia innovativo e cosa sia efficace e chiederci se i due termini vadano spesso in contrasto o meno. Credo che in definitiva sia proprio questo che colpisce, cioè il fatto che il contenuto davvero innovativo della trattazione non sia supportato da una copertina altrettanto innovativa. Tutto qui. La scelta di giocare la parola principale del titolo in corpo molto grande, con le lettere "bucate" di modo da lasciare intravedere soggetti di diversi colori, è sicuramente un modo coerente di illustrare quella stessa parola "Cromorama", disposta su due righe. In gergo pubblicitario si potrebbe dire che visual e headline si sostengono l'un l'altro in maniera salda. Allo stesso tempo però è uno stratagemma già visto e rivisto. Diciamo pure che c'è stata una stagione della grafica in cui si è abusato di questo stratagemma (mi tornano alla mente certe campagne stampa dell'emittente Sky di parecchi anni fa, prima del cambio del logo). Questa osservazione nulla toglie all'interno del libro, che come detto rappresenta la trattazione più aggiornata ed efficace si possa trovare oggi sul colore e la sua pervasità nel sistema che tiene insieme il nostro sguardo, la fisiologia, l'economia, i desideri e forse persino i sogni (Lei sogna a colori? era il bellissimo e curioso titolo di un libro-intervista di Eckhard Roelcke al musicista György Ligeti). Quando si arriva alla fine del libro, che può essere letto anche felicemente a piccoli sorsi, si scopre su fondo giallo una "Nota iconografica" che ci dice perché questa copertina, alla fine, sta bene in questo libro. La nota si riferisce alle immagini impaginate nel libro sotto forma di dettagli o brandelli e non nella loro interezza a differenza del modello editoriale classico, ma si può applicare anche alla copertina. Tra le altre cose ci dice che l'idea è "proporre un apparato figurativo che, scorrendo parallelamente al testo, solleciti uno sguardo articolato sulle immagini, rendendo fruttuoso il sincretismo che è ormai norma attraverso Internet e i social network." Poco prima Falcinelli aveva fatto bene a ricordare che "la maniera in cui il volume è impaginato è da considerarsi consustanziale al testo: il design del libro è già un punto di vista sul suo oggetto". 

martedì 20 febbraio 2018

"Memoria come un'infanzia. Il pensiero narrante di Luigi Ghirri". Un libro di Ennery Taramelli per Diabasis

Ennery Taramelli, già autrice di Mondi infitiniti di Luigi Ghirri, ha pubblicato nel 2017 un nuovo libro sull'opera del fotografo emiliano. Memoria come un'infanzia. Il pensiero narrante di Luigi Ghirri (Diabasis, pp. 278, euro 28, prefazione di Antonio Prete), con le sue 264 immagini a colore e in B/N emblematicamente prive di didascalie (le trovate in coda), è un volume ricco che si aggiunge alla già lunga serie dei titoli ghirriani, tuttavia con una peculiarità che diventa trasversale: la registrazione di uno sguardo che indugia sull'infanzia. Del resto quel titolo, nel fare l'eco a Sardegna come un'infanzia di Elio Vittorini, è assai eloquente: quasi ogni discorso sulla memoria diventa anche un discorso sull'infanzia e, per rimanere in terreni altrettanto vaghi ma attigui, ci si può spostare sull'adolescenza. Molto conosciuto allora è quel frammento in cui Ghirri ammette che per lui fotografare "è come osservare il mondo in uno stato adolescenziale, rinnova quotidianamente lo stupore; è una pratica che ribalta il motto dell'Ecclesiaste: niente di nuovo sotto il sole. La fotografia sembra ricordarci che non c'è niente di antico sotto il sole". Infanzia, poesia e memoria sono tre assi che sviluppano la tridimensionalità di questo libro sulla fotografia che, come noto, di tridimensionale non ha o non dovrebbe avere proprio nulla. La stessa poesia, nei casi più felici, riesce a tenere assieme infanzia e morte nel mutamento delle stagioni e dei linguaggi di un'unica vita, facendola dialogare con la totalità dell'esperienza umana. L'infanzia è un momento iniziale che resta centrale nella vita e nell'immaginario, compreso quello velato di fantastico e srotolato da Ghirri in anni di lavori, mostre, pubblicazioni.


Luigi Ghirri, Verso Lagosanto, 1987
Oggi Ghirri sarebbe su Instagram? Se no, perché ne starebbe fuori? Se sì, chi lo noterebbe? Il suo "nome" farebbe lo stesso strabiliante percorso che, assieme alla sua opera, ha compiuto anche dopo la sua morte prematura? Il libro non parla di questo, però ci parla di un mezzo - la fotografia - che è diventato prominente nell'iconosfera che il social menzionato sopra, preso qui a caso paradigmatico, continua ad alimentare minuto dopo minuto. Compie questo percorso rimanendo all'interno dell'opera del più noto dei fotografi italiani, la quale ha rappresentato una sorta di cesura nella storia della fotografia e del vedere, un puntare il dito verso qualcosa. È allora un compito arduo quello di questo libro. Oltre un effetto-Ghirri, artista amato e mitizzato, il libro sembra porsi un interrogativo più fluente (e non radicato!) nel magma dell'immagine fotografica, persino nella sua abbacinante e abbondante lotta tra caducità e durata. Soprattutto, a lettura e visione avvenute, ci si interroga su questioni come l'enigma e il mistero, che l'obbiettivo della macchina di Ghirri ha spesso accarezzato e affrontato persino con ferocia, in quel paesaggio che nelle sue serie fotografiche racchiude mille schermi, evitamenti, intoppi e mille elementi antropici e naturali senza diritti di precedenza tra l'uno e l'altro. E uno degli aspetti belli di questo libro è la restituzione di un'atmosfera di scambio e confronto fervidi: così si leggono i richiami alle amicizie con Della Casa, Guerzoni o Parmiggiani, eventi che oggi paiono preclusi per sempre nel dibattito in rete spesso improduttivo e rimodellato continuamente su nuove alleanze, nell'atomizzazione solipsistica, vociante e persino scoreggiona del web "qualcosa punto zero". In Luigi Ghirri la sapienza primariamente compositiva dell'immagine sembra che si collochi nell'aver saputo interrogare la luce e le cose con un punto di domanda nuovo, curvato su stupore e meraviglia, sulla coerenza inafferrabile del sogno e la incoerente realtà dove sbattiamo il naso, magari con la testa che guarda all'insù o all'ingiù. Attorno a questo interrogativo fotografico nuovo si è mossa la critica, la parola e un discorso che, di volta in volta e oggi ancora, continua a porsi in dialogo duraturo con la sua opera. Il suo lascito si è allora consolidato come unicum un attimo prima di avvenimenti epocali che hanno condotto proprio allo tsunami dell'iconosfera, che ne ha devastato quel portato di mistero e enigma di cui si accennava sopra. Ed è forse per questo che il lavoro di Ghirri continua a parlare a tanti, perché diventa come un'operazione di rimaglio del vedere, fino ad arrivare all'anatomia e alla retina.


Week End, 1973
Ora però è bene compiere un passo indietro che riguardi la tecnicità, la preparazione, sicuramente l'inquadratura e anche la ripetitività estrosa del fotografo emiliano. Un passo che arretri persino all'ingenuità di cui spesso si è parlato nel caso di Ghirri. Ora che grazie alla rete sono sorte popolazioni scafatissime e sapienti, si sente nostalgia di quell'ingenuità, che non è ingenuità finto tonta o ironica che oggi troviamo a vagonate un po' ovunque. È qualcosa di vicino alla libertà del pensiero narrante e ondivago incarnato da Ghirri, la libertà di interrogare con la pellicola prima che un'altra pellicola, soffocante plasticale e appiccicosa, si stendesse sopra il mondo che continuiamo a cercare sotto la nostra stessa immondizia materiale e spirituale, quasi seccato nel pozzo dei sogni. In questa abitudine al vedere, la preparazione teorico-tecnica di Ghirri ha saputo incunearsi e incastrare uno dei lavori fotografici più duraturi, tuttora in grado di interrogarci, sorprenderci, inquietarci e scuoterci. In questo libro comprendiamo infine come l'aspetto autobiografico della ricerca ghirriana, così incentrato sull'infanzia, diventi nelle sue fotografie, tutte così simili a dei piccoli morsi sulla retina e sul cuore, una sonda capace di tastare quella dimensione che ci riguarda tutti, che ci contiene senza toccarci, la sola dimensione che abbiamo: lo spazio.

venerdì 16 febbraio 2018

"Un anno di scuola" di Giani Stuparich e la sorpresa della lingua

Il titolo circoscrive in un modo che parrebbe univoco, ma lascia intravedere e immaginare molto: un anno, con il suo ciclo di quattro stagioni, e lo scenario principale, con i fatidici atri e banchi di scuola. La vicenda, che s'avvia in una giornata ancora calda di settembre, è ambientata nell'anno scolastico 1909-10 a Trieste (forse non è un caso che l'anno rimandi al suicidio di Carlo Michelstaedter). In una classe di ottava ginnasio arriva per la prima volta una ragazza e, come si direbbe oggi in un gergo un po' sciapo, destabilizza un contesto che fino ad allora era stato lungamente maschile. Un anno di scuola di Giani Stuparich (Quodlibet, pp. 96, euro 13, a cura e con la postfazione di Giuseppe Sandrini) è il libro di questa ragazza catapultata in una classe. Lei si chiama Edda Marty e suona curioso il nome, così come suona curioso che il personaggio che potremmo pensare come alter ego dello scrittore si chiami Antero. Anche Giuseppe Sandrini si sofferma sui nomi ibseniani scelti da Stuparich e non bisognerebbe dimenticare l'interesse di questi scrittori triestini per Ibsen, vedi il caso lampante di Slataper ricordato qui. Il narratore insegue un gruppo di coetanei e i loro famigliari alle prese con l'ultimo anno prima del passaggio all'università. Sappiamo come quella generazione, già all'università, fece esperienze intellettuali significative. Stuparich insegue la traccia di un transito femminile tra venti allievi di sesso maschile e, manco a dirlo, i protagonisti si innamorano tutti di Edda, ognuno a suo modo. Del resto un evento sociale così raro e significativo è bastevole a muovere la trama di un racconto come questo. E quasi in anticipo su tanti programmi televisivi che seguiranno, Stuparich "porta" la classe agli esami. Tra le altre cose, va ricordato che esiste un film per la televisione tratto da questo libro pubblicato nel 1929 e lo girò Franco Giraldi nel 1977 per la Rai. Il libro di Quodlibet quindi pare celebrare quella ricorrenza, anche se si inserisce in un percorso di riproposta delle opere di Stuparich, tra cui Guerra del '15.

Torniamo sulla centratura del titolo, che mostra in modo netto la cornice temporale secca e nitida, destinata però a vibrare come sempre vibrano certi periodi fondamentali, quelli che per alcuni possono davvero coincidere con i migliori anni della nostra vita, per altri meno. E dà da riflettere il fatto che Stuparich, classe 1891, volontario sul Carso assieme al fratello e a Scipio Slataper, scrisse questo libro soltanto nel 1929, in un cono di luce di lunga retrospezione quindi, con la strage bellica di mezzo e con tutto ciò che aveva comportato anche nella perdita degli affetti più stretti (il fratello morto suicida sul Monte Cengio nel maggio del 1916, Slataper che se n'era andato sul Monte Calvario già nel dicembre del 1915). La situazione retrospettiva è frequente in quegli anni, basti pensare anche al caso paradigmatico di Lussu e del suo Un anno sull'altipiano. Scrivere però su un periodo antecedente alla Prima guerra mondiale, a una decina d'anni dal termine di quella guerra, è un fatto degno di attenzione: c'è di mezzo il tentativo sofferto di una rielaborazione, non sempre possibile, eppure tentata e ritentata, in un momento in cui Stuparich si trova dall'altra parte a insegnare. Assente è il "senno del poi", così come è assente un "sentore del prima". Semmai, nella storia di questi ragazzi e di questa ragazza che getta nello scompiglio una piccola comunità con il suo modo di essere, si possono ritrovare certi pensieri di un'epoca, si possono fare delle congetture e verifiche su cosa e come pensassero gli uomini e le generazioni di quel mondo versicolore (eppure così cupo) che stava al confine dell'impero negli anni in cui il mondo si affacciava sul baratro della disintegrazione di massa. E soprattutto, va almeno accennato in chiusura, c'è una lingua sorprendentemente chiara, prensile, viva, persino più contemporanea di quella di certi narratori degli anni Duemila (in un dialogo la sorprendente battuta "Il diavolo v'ha spermatizzato il cervello."). Per questo grumo di motivi i libri di Giani Stuparich continuano ad arrivare per rotte invisibili ma sicure al nostro orecchio, mentre seguiamo uno scrittore che sa come trapassare nella scrittura una stagione della vita che, nel momento in cui scrive, è già finita da un pezzo.

martedì 13 febbraio 2018

La raccolta poetica "Naufragio del singolare" di George Oppen (e le presentazioni del libro a Modena e a Roma)

Edizioni Galleria Mazzoli di Modena pubblica la raccolta poetica di George Oppen (1908 - 1984) intitolata Naufragio del singolare. Le poesie, tradotte da Pietro Traversa, sono accompagnate dai disegni di Alex Katz, mentre la curatela è di Brunella Antomarini e Paul Vangelisti. Si tratta di un evento importante per la poesia dell'oggettivismo americano, una stagione di scrittura poco frequentata dalla traduzione italiana (si pensi solo all'assenza di traduzioni da Louis Zukofsky). Di Oppen si registrava solo la versione italiana di Of Being Numerous del 1969 (Essere in tanti, Edizioni ETS, 2006). Questo volume raccoglie The Materials del 1962 e This in Which del 1965.
Per gentile concessione e collaborazione dei curatori si pubblicano di seguito alcuni stralci dalle prefazioni al volume e tre poesie di Oppen nella traduzione di Pietro Traversa. Di seguito troverete anche le notizie relative alle presentazioni del libro che si terranno nei prossimi giorni a Modena e a Roma.



*

Di seguito un brano dalla prefazione di Brunella Antomarini intitolata "Una cosa che sia".


Accorciamo di più il nostro pensiero, siamo seri… (Lautréamont) 

Un grande poeta risolve problemi che gli altri poeti gli presentano e da cui deve uscire se non vuole esserne sommerso. Il problema di Oppen è la liberazione della parola dalla rappresentazione, non in termini ‘linguistici’ o asemici, ma anzi con un forte legame col mondo, che va detto, sì, ma va detto senza le retoriche, senza la storia della poesia né dello sperimentalismo: che cosa e come in un testo poetico la parola genera un mondo senza rappresentarlo sintatticamente, cioè secondo il luogo comune della lingua ordinaria? Come fa a dire quello che genera senza bisogno di sentirsi il processore centrale di un’espressione sociale o politica? 
Scegliendo questi problemi, Oppen si metteva di traverso rispetto alla cultura del suo tempo. Gli anni Cinquanta e Sessanta erano un tempo di transizione, travolto dalla ricostruzione post-bellica e dalla reazione spaventata e critica a una guerra anti-comunista e neo-colonialista che trascinava i giovani per le strade, chiedeva una sospensione di problemi sottili, voleva arti d’attacco, d’impegno politico, di azione immediata. Oppen aveva distinto poesia e politica e prendeva le distanze dal suo tempo. In un’intervista del 1973 dice, rivolgendosi all’intervistatore: “Pensa che dovrei essere più conosciuto?” Ma è proprio quella distanza che lo rende partecipe più del XXI secolo che del suo tempo: oggi, nel tempo di un’altra transizione – che è appunto sottile, tacita, verso una destinazione incognita perché ci veniamo sospinti, tutti, globalmente e che riguarda modo di vivere, di pensare e di comunicare – ora alla lezione di Oppen si deve riconoscere un senso fondamentale e per questo va tradotto perché questo senso venga riconosciuto anche in Italia. Tradurlo non è infatti solo un’occasione di accessibilità, ma anche una sfida alla lingua sofisticata e tutta proiettata nel passato, come la nostra, da parte di una lingua pragmatica, essenziale, portata da Oppen alle estreme conseguenze della sua analiticità. 
E infatti i suoi testi analizzano minimi dettagli del reale, lo scompongono matematicamente – o pittoricamente, come un Cézanne o un Picasso della parola – nel minimo dicibile. Se c’è un’emancipazione qui, è da molte retoriche: della parola espressiva, di quella concettuale, ma anche di quella auto-referenziale. La retorica qui è un metodo costante e coerentissimo: ogni sostantivo viene liberato dal verbo che lo sostiene e diventa un’apparizione dei suoi dettagli. Una poetica minimalista e che immaginiamo richieda un tempo molto lento di ricerca, cioè di ricerca delle parole da scartare – quando sono troppo cariche di risonanze – e poi di ricerca di quelle ‘piccole’, cioè minime, libere, segni di quello che intendono oltre ogni ovvio intendimento.  
Perché questo metodo diventa importante ora? Perché quella che poteva  sembrare una qualità di poesia minore, cioè una preoccupazione poetica per la  parola nuda, senza grandi narrative e grandi teorie, senza lo spirito del tempo,  ora, in tempi di radicale transizione culturale e tecnologica, in prospettiva futura  l’opera di George Oppen diventa ispirazione per la scrittura che si rifà sulle macerie  di quella dei capolavori, storicizzati ma anche irrecuperabili. Per questo una  versione italiana che faccia conoscere Oppen a un pubblico abituato alla grande  classicità come alle avanguardie, è urgente e necessaria. Una poesia che non  chiede niente alla tradizione (a meno che non si tratti di altri poeti con una simile  preoccupazione), che si regge su una distruzione e un riavvio. [...]

*

E qui di seguito un brano dalla "Prefazione" di Paul Vangelisti.


Con mia grande sorpresa, il filosofo di cui parlammo di più, oltre Heidegger, fu Jacques Maritain, che avevo studiato ma con cui non ero molto in sintonia, troppo scolastico per i miei gusti ex-cattolici. Oppen ne era particolarmente entusiasta, sia della sua precisione sia della sua enfasi sull’essere. La visione di Oppen, contemporaneamente lirica e precisa, era mossa da una repulsione per il pragmatismo stesso, quella pietra angolare dell’ideologia e dell’ipocrisia americana. Sempre riflessivo e contro corrente, pone continuamente la più ontologica e meno pragmatica delle questioni, quella dell’esistenza di una “natura umana”. Come la mette lo stesso Oppen in un’intervista del 1968 in Contemporary Literature: “Quello che voglio dire, credo, è che non c’è vita per l’umanità se non la vita della mente. Non so neanche se sia utile dirlo a qualcuno. O le persone lo scoprono autonomamente o altrimenti non sarà mai vero per loro”. 
Guardando indietro, in particolare alla pubblicazione di I materiali del 1962, una raccolta su cui aveva lavorato sin dal suo ritorno negli Stati Uniti dall’esilio politico in Messico, troviamo il poeta alla ricerca - o anche in lotta con se stesso - di una misura poetica. In questo sforzo di riunirsi alla terra della poesia dopo esser stato via per quasi un quarto di secolo, è sempre presente quella cura, quella fermezza della mente di fronte alle cose:

La macchina fissa lo sguardo,
Fissa
Con tutti i suoi occhi

Attraverso il vetro
Con la sua increspatura, oltre il davanzale
Che è polveroso — se c’è qualcuno
Nel giardino!
Fuori, e così bello.

(“Immagine del motore”)

Più notevole, soprattutto se si considera quello che il poeta e il suo mondo  avevano dovuto affrontare dal 1934, è la determinazione di Oppen di ritornare  a parlare delle cose attorno a sé, “la preponderanza degli oggetti”. Anche se alle  volte i versi mancano del lirismo intensamente speculativo che avrà poi in This  in Which (1965), e nel suo più esteso capolavoro, Of Being Numerous (1969), il  singolare desiderio del poeta di riportare le parole “al significato / e al senso” (“Un  linguaggio di New York”), guida il suo approccio alla creazione del verso, a immaginarlo  come “Un fermo e silenzioso angelo di conoscenza e di comprensione”  (“Immagine del motore”).
La questione del progresso e della perfettibilità umana non solo motiva un pensatore radicale come Oppen, ma lo perseguita: la sua “fede” nel pensiero lega le sue composizioni ad una chiarezza conquistata con difficoltà. [...]


*

Una selezione di tre testi nella traduzione di Pietro Traversa:


VULCANO


Il padrone di casa che appare in strada
Per un attimo allo sbando, di ghiaccio
Nell’aspetto. ‘Penisola
Pianeggiante e alberata
Nella baia – ’ Ora sono nativi
Il saldatore e l’arco del saldatore
Nei circuiti di ferro della metropolitana:
Non ci siamo sfuggiti l’un l’altro,
Non nella foresta, non qui. La ragazza storpia arranca
Dolorosamente nelle nuove profondità
Della metro, e dolorosamente
Distogliamo lo sguardo. Le rotaie nude
E le pareti nere contengono
Il travaglio prima della sua nascita, la sua contorta
Precaria nascita e gli uomini
Laboriosi, corpulenti – Lei siede
Tranquilla, occhi fermi. Lentamente,
Deliberatamente lei vede
Il dente smussato di un’àncora affondare
Tra i gettoni e le macchinette a gettoni,
L’antico ferro e il voltaggio
Nel ferro sotto di noi nei porti profondi
Della bambina nelle sabbie del porto.


LE FORME DELL’AMORE


Parcheggiati tra i campi
Per tutta la notte
Tanti anni fa,
Abbiamo visto
Un lago accanto a noi
Quando è sorta la luna.
Mi ricordo

Che insieme abbiamo lasciato quella
Vecchia auto. Mi ricordo
Di noi, in piedi accanto a lei
Sull’erba bianca. A tentoni
Scendevamo insieme
Nell’incredibile
Luce chiara

Chiedendoci
Se fosse lago
O nebbia
Quello che vedevamo, le nostre teste
All’unisono sotto le stelle abbiamo camminato
Fino a dove i piedi si sarebbero bagnati

Se ci fosse stata acqua.


PENOBSCOT


Figli della prima
Terra

Parlano sull’uscio
Di quella stanza chiusa
Della loro nascita

Che non possono ricordare

In questi piccoli mondi di rocce
Nell’oceano
Come il centro
Di un’antichità

Non classica, anti-classica, non l’oceano
Ma la calma
Acqua del porto
Che lambisce le pietre

Sotto di loro —

Credo che non violeremo il mondo
Questi piccoli mondi gli ultimi
Dai nomi segreti

O frasi inaspettate —


Penobscot





VULCAN


The householder issuing to the street
Is adrift a moment in that ice stiff
Exterior. ‘Peninsula
Low lying in the bay
And wooded – ’ Native now
Are the welder and the welder’s arc
In the subway’s iron circuits:
We have not escaped each other,
Not in the forest, not here. The crippled girl hobbles
Painfully in the new depths
Of the subway, and painfully
We shift our eyes. The bare rails
And black walls contain
Labor before her birth, her twisted
Precarious birth and the men
Laborious, burly – She sits
Quiet, her eyes still. Slowly,
Deliberately she sees
An anchor’s blunt fluke sink
Thru coins and coin machines,
The ancient iron and the voltage
In the iron beneath us in the child’s deep
Harbors into harbor sand.


THE FORMS OF LOVE


Parked in the fields
All night
So many years ago,
We saw
A lake beside us
When the moon rose.
I remember

Leaving that ancient car
Together. I remember
Standing in the white grass
Beside it. We groped
Our way together
Downhill in the bright
Incredible light

Beginning to wonder
Whether it could be lake
Or fog
We saw, our heads
Ringing under the stars we walked
To where it would have wet our feet
Had it been water.


PENOBSCOT


Children of the early
Countryside

Talk on the back stoops
Of that locked room
Of their birth

Which they cannot remember

In these small stony worlds
In the ocean

Like a core
Of an antiquity

Non classic, anti-classic, not the ocean
But the flat
Water of the harbor
Touching the stone

They stood on—

I think we will not breach the world
These small worlds least
Of all with secret names

Or unexpected phrases—

Penobscot

*


Presentazioni del libro

Naufragio del singolare
raccolta poetica
di George Oppen
disegni di Alex Katz
Edizioni Galleria Mazzoli
a cura di Brunella Antomarini e Paul Vangelisti
traduzione di Pietro Traversa

a Modena sabato 17 febbraio 2018 ore 17.30
Salone dei Veneti
Galleria Estense - Palazzo dei Musei
Largo Porta Sant'Agostino, 337
intervengono i curatori 
con Vladimir D’Amora e Mariangela Guatteri
INGRESSO GRATUITO

a Roma mercoledì 21 febbraio 2018 ore 17.30
Casa delle Letterature
piazza dell’Orologio n.3
intervengono i curatori 
con Marco Giovenale e Lidia Riviello

Edizioni
GALLERIA MAZZOLI - MODENA

*

George Oppen (New York, 1908–1984) fonda a New York negli anni Trenta, insieme ai poeti Louis Zukofsky e Charles Reznikoff, la casa editrice The Objective Press che lancia poeti come William Carlos Williams ed Ezra Pound e il gruppo “oggettivista” a cui aderiscono lo stesso Williams, Basil Bunting e Lorine Niedecker. Successivamente, lasciati gli Stati Uniti per motivi politici, comincia a scrivere egli stesso testi poetici. Dopo la guerra torna per un periodo a New York dove lavora come carpentiere e falegname e poi si reca in Messico. In questo lungo periodo sospende la scrittura poetica per riprenderla solo dopo 24 anni, di ritorno a New York negli anni Sessanta quando pubblica le raccolte piu` importanti fno a vincere nel 1969, con il poema Of Being Numerous, il Premio Pulitzer. Oppen e` una delle personalita` poetiche piu` originali, complesse e in attesa di un pieno riconoscimento. Con questo libro ha ricevuto la dovuta attenzione come poeta sperimentatore di un linguaggio che non cede a nessuna retorica e ispiratore delle generazioni successive, punto di riferimento per giovani poeti di ogni lingua e paese.

Paul Vangelisti è un poeta, critico letterario e traduttore. Nato a San Francisco nel 1945, vive e lavora a Los Angeles dal 1968. Autore di diverse raccolte poetiche, dal 1971 al 1982 è stato condirettore della rivista di ricerca letteraria, "Invisible City". Numerose sono le sue collaborazioni con artisti visivi italiani. Fondamentale è stato l'incontro con Adriano Spatola di cui ha tradotto in inglese la prima importante raccolta di poesie.

Brunella Antomarini insegna estetica e filosofa contemporanea alla John Cabot University a Roma. È autrice di numerosi articoli e saggi di argomento filosofico e antropologico pubblicati in Italia e all’estero.

Alex Katz è un artista figurativo contemporaneo nato nel 1927 a Brooklyn, New York, vive e lavora a New York. Le sue opere sono presenti nelle collezioni dei più importanti musei americani, tra i quali il MoMa, il Metropolitan, il Whitney di New York, il Los Angeles County Museum of Art di Los Angeles e in alcuni musei europei tra cui la Tate Gallery di Londra e il Museo di Francoforte.

Informazioni:
Ufficio Eventi Gallerie Estensi
0594395707 - mariagrazia.silvestri@beniculturali.it

lunedì 12 febbraio 2018

Testi inediti di Daniela Gentile





"al cor gentil ratto s'apprende" è il titolo dello spazio che Librobreve dedica alle poesie inedite. Qui si ospitano testi che probabilmente andranno a costruire nuovi libri di poesia. Si propone come rubrica di solo testo, priva di foto glamour degli autori. L'unica immagine rimarrà quella del ratto qui sopra, identificativa di ogni post, un portafortuna che dedico agli ospiti. La pubblicazione avviene su invito e pertanto non ha senso inviare i propri testi all'autore del blog se non vi è stato prima un dialogo e accordo tra Alberto e chi ha scritto le poesie. Non ho previsto commenti o preamboli ai testi. I lettori invece possono commentare. 


Due testi inediti di Daniela Gentile (Locorotondo, 1991).


Fabula


Ci pensi mai alla gravità dell’autunno che cade nelle foglie, all’edera che cresce sui muri o alle finestre, come tempo che ci chiede spazio?
Le stanze dov’è la nostra vita, in tutto somiglianti a chi siamo diventati, dicono cronache con poca storia: potranno mai contare nelle tasche, in fondo ai cassetti, le assenze in un cinema, quel concerto, una sera sul rapido per Firenze?
Irrinunciabili miti quotidiani sono gli scarti, gli accumuli immortali al trasloco. Qualcosa che si oppone al vento e a tutto questo secco rosso sotto i nostri passi;
qualcosa di tuo, nella vita che vedi.


Nome astratto


I cinque sensi ci ingannano sul significato della conoscenza: non trovano definizione i capitoli chiusi nei libri, i sorrisi distratti dentro una fotografia, il cesto di frutta che si fa presenza di noi in una casa.
Il pensiero non diventa storia, non riesce a diventare neppure biografia nelle occasioni che sprechiamo prevedendo altre sere in cui guardarci negli occhi.
E se a poco servono le parole di fronte alle concrete esistenze che incontriamo, abbiamo veramente ricevuto qualcosa di cui essere responsabili?
Avere riguardo per le piogge, lasciare che un passo possa ancora indovinarci nel buio: solo questo possiamo.


sabato 10 febbraio 2018

Abbiamo fatto una gran perdita (Oèdipus edizioni)

SPOT POST


Ester, almeno a te potrò consegnare una lettera a mano, senza preoccuparmi di buste e francobolli che ormai sono diventati un incubo rimandato di giorno in giorno. Ti avevo detto che mi ha preso la mano a scrivere alcune lettere, ma sono ancora tutte qui con me e se non mi decido rischiano di diventare un’eco che arriverà distorta da lontano, o una luce tardiva, un’illusione alla fine. Avessi saputo mi sarei portato qualche foglio in più da casa.



Sarà disponibile dal 14 febbraio il libro Abbiamo fatto una gran perdita (pp. 112, Oèdipus edizioni, euro 12,50). È un libro epistolare (fiction della privacy) cucito attorno a un viaggio a tappe in Italia. Il signore che scrive le lettere, perlopiù dalle camere di alberghi, si chiama Martino Dossi. Lui non pensa che sta scrivendo un libro, lui pensa invece di ritornare a casa (credo che in molti, alla fine, pensiamo sempre di tornare a casa). Il libro di Martino è a conti fatti un "libro di Ester", compagna di Martino, la quale riordinerà e pubblicherà le lettere non spedite a distanza di tempo.

In copertina c'è un collage del 2008 di Jimmy Rivoltella intitolato Il mago di Oz.

Si può chiedere a qualsiasi libreria di ordinarlo (rinvio al sito dell'editore anche per i contatti), cercare nei siti noti che vendono libri in rete. In alternativa, se questa réclame vi ha incuriosito, potete anche scrivermi, perché avrò qualche copia.

Cliccando sulla copertina qui accanto (per navigazione da desktop o tablet) o su questo link o su quest'altro che porta a un minisito dedicato, si potrà accedere a una pagina dove raccoglierò eventuali segnalazioni riguardanti il libro e la sua parabola terrena.


SPOT POST - STOP

giovedì 8 febbraio 2018

Quanto ci piacciono vintage anche le patrie lettere!

Libri brevi che mi piacerebbe scrivere o trovare #14


La celebre radio "Cubo" di Brionvega
Recentemente ho letto in una rivista l'espressione "economia della nostalgia" per riferirsi al fenomeno del vintage, ovvero a tutta una serie di prodotti, pratiche e passioni che richiamano design, abitudini o comportamenti d'acquisto del passato, tornati in auge in questi anni. Collegata al fenomeno del vintage vi è una fetta di prodotti che sta generando discreti profitti (posso osservare qualcosa di questa tendenza anche nel lavoro che faccio). L'icona di tutto ciò, anche se alla fine credo che non sia corretto intenderla come tale, potrebbe essere il vinile nell'ambito della musica, un oggetto tornato ad avere un'insperata nuova vita e un mercato significativo, se paragonato ad esempio a quello del concorrente compact disc (chiaro che poi esiste tutto un altro universo di fruizione musicale, ma lì non siamo più nel mercato o comunque si tratta di un universo funzionale a altri mercati, solo parzialmente legati a una data opera musicale). L'ambiente delle lettere credo non faccia eccezione e che ricada pienamente dentro questa tendenza vintage, con l'aggravante però che è più vintage nei modi che nei prodotti che sforna (quando sforna prodotti vintage poi non sempre fa il successo dei vinili): continuiamo a fare i libri con un determinato approccio e visione, ma soprattutto continuiamo a parlare, a infervorarci e a (non) dibattere come se ci fosse un contesto simile a quello di Calvino e Pasolini, probabilmente con sterili sintesi da Bignami di quelle polemiche ancora in testa. Il mondo però è accelerato in fretta da allora e se ci interessasse davvero la letteratura in tutte le sue declinazioni - poetiche filosofiche e narratologiche per dirne solo tre - dovremmo provare una sorta di nausea per questo sfasamento che si crea tra una realtà che ci chiede di raffinare alla svelta i nostri strumenti di analisi obsoleti e un contesto culturale e editoriale (pseudoproduttivo e in tanti comparti persino antieconomico) ancora legato a quelle logiche di cinquant'anni fa, a quelle ambizioni, a quelle strettoie di pensiero che si ritrovano catapultate e inservibili in un contesto profondamente mutato. In tale scenario, anche per un critico dovrebbe essere prioritaria la necessità di riconoscere l'innovazione rappresentata da un'opera dell'ingegno o da una metodologia inedita.

Questa fascinazione per quello che è stato il passato di qualche decennio fa, per le caratteristiche di certi dibattiti, per le linee di forza di un dato campo magnetico che si era creato allora, continua a esercitare un influsso balordo sui "giorni nostri", nel modo in cui ci relazioniamo tra persone appassionate di libri e letteratura, e condiziona talvolta persino il puzzle dei temi; detiene un potere persino su quella cosa intima che ci muove quotidianamente e che si chiama desiderio. Certo, nel frattempo un social parolaio come Facebook ha fatto la sua comparsa e si è appropriato dell'attenzione e del tempo che lì si trascorre, inserendosi in molteplici interstizi della vita quotidiana (a quello è in fondo interessato, quello ciò che gli vendiamo: tempo e abitudini). Sappiamo però che demograficamente sta diventando meno rilevante, soprattutto nelle fasce d'età più giovani: i mezzi quindi passano relativamente in fretta, così come tante discussioni, e il ragionamento attorno ai mezzi non dovrebbe portarci via troppo tempo o farci perdere di vista quello che serve. Già, ecco il punto: che cosa serve, posto che qualcosa col nome di letteratura rimane in orizzonte? Cosa potrebbe rendere il mondo delle patrie lettere interessante, dentro e fuori l'Italia, oltre gli steccati sempre più insormontabili del narcisismo? Credo serva riscoprire l'abc di una discussione, far sfiatare tutto il retropensiero accumulato (anche grazie al maldestro utilizzo dei nuovi mezzi), uscire da una logica binaria di piacere/non piacere, porci in uno scenario argomentativo e tematico che sappia sganciarsi dalle ventate dell'effimero. Serve più oblio anche, non solo più memoria. La capacità di immaginare una situazione differente (non dico nuova, ma differente) è spesso imbrigliata dentro la camicia di forza del vintage, del retrò, del carosello delle best practices di quel passato che ci appare ancora glorioso e forse migliore del nostro tempo. I pozzi e le fonti però erano e rimangono tutti (o quasi tutti) avvelenati. È inoltre inutile credere che nella connessione spinta comunichiamo tutti, all'estremo opposto è anche inutile pensare che solo gli isolati comunichino. In questo contesto solo una procedura che riparta daccapo e prosegua per argomentazioni e confutazioni può ristabilire un microclima dove poter anche respirare, dove sia possibile ricominciare a imparare adesso che siamo diventati tutti saputelli. Ma come ristabilire l'argomentazione quando argomento è diventato solamente "ciò di cui si parla" e non più una porzione di pensiero o testimonianza a sostegno di una tesi? (Se questi pensieri hanno un senso, mi piacerebbe trovare chi sappia svilupparli meglio, anche in un libretto, oppure smontarli del tutto.)

mercoledì 7 febbraio 2018

Poesie di Carmen Leñero nella traduzione di Stefano Strazzabosco


Accanto ai ratti di "al cor gentil ratto s'apprende" con le loro poesie inedite, compare un altro animale per nominare uno spazio dove si ospitano traduzioni di poesia: lo stregatto o Gatto del Cheshire di Lewis Carroll. Ratti e stregatti, insomma. Adotterò pregiudiziali e faziosi criteri per vagliare proposte di traduzioni, anche nei casi di lingue totalmente sconosciute come russo, coreano o giapponese (insomma, mi baserò su un traballante concetto di fiducia). Il gatto qui sopra è un particolare del dipinto "San Girolamo nello studio" di Antonello da Messina. Al di là delle molteplici simbologie e caratterizzazioni dei gatti, da Antonello a Carroll (Dante non è tornato utile stavolta perché un po' li snobba), qui proviamo a stregarvi con nuove traduzioni facendo le fusa. L'augurio è incoraggiare la traduzione poetica che un po' latita, anche nelle generazioni più giovani, e che qualche stregatto un giorno possa precipitare altrove, anche in un libro se capita.

Carmen Leñero
Fiume
Versioni di Stefano Strazzabosco



Non sorprende
che il fiume vada via,
sorprende che resti.

*

Scorre una carezza
permanente
sulla terra.

*

Il vento
è un fiume
che sogna.

*

Muto e testardo
fiume del Tao
che non sfocia mai.

*

Fiume pentito:
scorrendo
dal mare alla montagna.

*

Fedeli salmoni,
risalendo la memoria
fino all’origine.

*

Fa smorfie sotto l’acqua
il volto che han strappato
da una foto.

*

Sotto l’acqua del fiume
parla una voce
addormentata.

*

Stia zitta qui la rima:
quel tic della memoria,
la tata che mi culla.

*

Fiume elettrico:
tessuto irascibile
di neuroni.

*

Fiume che si precipita
da nord a sud
quando mi baci in bocca.

*

Un fiume sinuoso
avrà insinuato
la prima calligrafia.

*

Tracciarono la Storia
i grandi fiumi,
però poi l’annegarono.

*

Ci sono fiumi
che persistono
molto più in là del tempo.

*

Il primo trillo
del giorno
increspa la pelle dell’acqua.

*

Mentre finisce di spiegare
che tutto scorre,
Eraclito è cambiato.

*

Le dita lunghe dell’acqua
ne scolpiscono i ciottoli,
fanno dei gorghi anelli.

*

La verità segue il suo corso,
non ha bisogno
che la cerchino.

*

Tutto diventa falso
quando si sforza
d’essere vero.

*

Ahi, la morte fiume,
dove galleggia
alla deriva il desiderio.

*

Fiume di sangue:
tinta indelebile
nel paesaggio.

*

Placido fiume,
come un saggio che dormicchia
all’ombra.

*

Torbido fiume,
pieno di vita
contaminante.

*

Non c’è una sola
risposta giusta
e tuttavia bisogna darla.

*

Avido fiume:
non sa semplicemente
riempire un bicchiere.

*

Timida corrente
sempre sul punto di superare
il puro istante.

*

L’oboe
imita il fiume
e seduce il serpente.

*

Non siamo mai da soli,
fiumi di sangue
ci uniscono gli uni agli altri.

*

Una goccia d’aria
sospesa in fondo all’amo
contiene tutto il vuoto.

*

Una lacrima è la lente
in cui il mondo ingigantisce
e ci divora.

*

Le note sono insetti
appiccicati al pentagramma,
e uccelli portentosi sono i suoni.

*

Dolci carezze
sono le foglie
che cadono nel fiume.

*

Vivi cacciando
segni che non abboccano
all’amo.

*

Formulata una regola,
salta come un pesce
l’anomalia.

*

In riva a ogni fiume
incontenibili cantano
delle ragazze.

*

Se nel tuo centro avessi un fiume
potresti attraversarlo a tuo piacere
da una sponda all’altra.

*

Mi sbagliavo:
cercavo un nodo
nel filare del fiume.

*

Toccato dalla luce
ogni fiume
dà qualche risposta.

*

Il fiume lascia sempre
il suo rifugio
sotto i ponti.

*

Lo stagno
è un fiume
dissenziente.

*

Vieni a riposare nel mio grembo,
dice il fiume
mentendo.

*

Sulla guancia un rigagnolo
sfocia sempre
nell’anima.

*

Dimorare nel suono,
come Ofelia
nel suo giaciglio d’acqua.

*

Apri la palpebre
dei sassi
quando passi.

*

Ignori i confini
e fori
gli orizzonti.



Carmen Leñero - foto: Carlos Cisneros

 

No sorprende
que el río se vaya,
sorprende que permanezca.

*

Corre una caricia
permanente
sobre el suelo.

*

El viento
es un río
que sueña.

*

Mudo y testarudo
río del Tao
que nunca desemboca.

*

Río arrepentido:
corriendo
del mar a la montaña.

*

Fieles salmones,
remontando la memoria
hasta su origen.

*

Hace guiños bajo el agua
el rostro que arrancaron
de una foto.

*

Bajo las aguas del río
habla una voz
adormecida.

*

Debo acallar la rima:
ese tic de la memoria,
la nana que me arrulla.

*

Río eléctrico:
tejido irascible
de neuronas.

*

Río que se precipita
de norte a sur
cuando me besas en la boca.

*

Un río sinuoso
habrá insinuado
la primera caligrafía.

*

Trazaron la Historia
los grandes ríos,
pero luego la anegaron.

*

Hay ríos
que perseveran
mucho más allá del tiempo.

*

El primer trino
del día
sacude la piel del agua.

*

Mientras termina de explicar
que todo fluye,
Heráclito ha cambiado.

*

Los dedos largos del agua
esculpen las piedrecillas
y anillan los gorjeos.

*

La verdad sigue su curso,
no precisa
que la busquen.

*

Todo se vuelve falso
cuando se esfuerza
en ser verdadero.

*

Ay, la muerte río,
donde flota
a la deriva mi deseo.

*

Río de sangre:
tinta indeleble
en el paisaje.

*

Río quieto,
como un sabio que dormita
bajo la sombra.

*

Río turbio,
lleno de vida
contaminante.

*

No hay una sola
respuesta justa
y sin embargo hay que darla.

*

Ávido río:
no sabe simplemente
llenar un vaso.

*

Tímida corriente
siempre a punto de rebasar
el mero instante.

*

El oboe
imita al río
y seduce a la serpiente.

*

Nunca estamos solos,
ríos de sangre
nos unen unos con otros.

*

Una gota de aire
pendiente del anzuelo
encierra todo el vacío.

*

Una lágrima es la lente
donde el mundo se agiganta
y nos devora.

*

Las notas son insectos
pegados al pentagrama,
y aves portentosas los sonidos.

*

Suaves caricias
son las hojas
que caen al río.

*

Vives cazando
signos que no muerden
el anzuelo.

*

Al formular una regla,
salta como un pez
la anomalía.

*

En la ribera de todo río
cantan incontenibles
unas muchachas.

*

Si en tu centro hubiera un río
podrías cruzar cuando te plazca
al otro lado.

*

Desatinaba:
buscaba un nudo
entre las hebras del río.

*

Tocado por la luz
todo río
da alguna respuesta.

*

El río siempre abandona
su refugio
bajo los puentes.

*

El estanque
es un río
que ha disentido.

*

Ven a reposar en mi regazo,
dice el río
mintiendo.

*

Un riachuelo por la mejilla
desemboca siempre
en el alma.

*

Morar en el sonido,
como Ofelia
en su lecho de agua.

*

Abre los párpados
de las piedras
a tu paso.

*

Ignoras los confines
y horadas
horizontes.




Carmen Leñero (Città del Messico, 1959) è poeta, saggista, narratrice (anche per l’infanzia), traduttrice e cantante. Ha pubblicato libri di poesia (Birlibirloque, 1987; Gajes, 1988; Lunares, 1991; La fiera transparente, 1997; La danza del caracol, 1998; La grieta, 2003 y 2014; Río, 2008; Curving the line, 2011); prose narrative (Saltimbanqui luz de ayer, 1992; Lucas afuera, Lucas adentro, 1997; Carcajadas en Grandipécuaro, 1998; ¡Es una traviesa esa raya!, 2002; La niñez de Frida Kahlo, 2003; Remedios y su demonio, 2010; Monstruos mexicanos, 2012); romanzi (La pequeña tempestad, 2006; Emilio y el viaje sin tesoro, 2009); saggi (La luna en el pozo: ensayos sobre el arte teatral en torno al “Enrique IV” de Pirandello, 2000; El caracol sonoro: reflexiones sobre el lenguaje de la música en relación con la poesía, 2006; La escena invisible: teatralidad en textos filosóficos y literarios, 2010; Las transmigraciones de Fausto, 2014; Del faro al foro: la imaginación novelesca frente a la imaginación teatral, 2016); la traduzione di poesía La perspectiva del gato, di Lorna Crozier, 2009. Come cantante ha pubblicato 5 cd in cui interpreta poesie di vari autori. Presente in molte riviste e antologie, ha ricevuto premi come, tra gli altri, il Premio Nacional de Cuento infantil Juan de la Cabada 1996 e il Premio Nacional de Poesía Carlos Pellicer 1998. Dallo stesso anno lavora come ricercatrice presso l’UNAM (Universidad Nacional Autónoma de México).