giovedì 27 settembre 2018

"Andrea Zanzotto: la natura, l'idioma". Disponibili gli atti del convegno internazionale dell'ottobre 2014


Segnalo l'uscita del volume degli atti del convegno zanzottiano del 2014, disponibile dal primo ottobre.


Andrea Zanzotto
la natura, l’idioma
Atti del convegno internazionale
Pieve di Soligo, Solighetto, Cison di Valmarino, 10 -11-12 ottobre 2014
a cura di Francesco Carbognin
Canova Edizioni

Caratteristiche del volume
Collana CanovaAtti
formato 15x23 cm, brossura
pagine 480, illustrazioni colore e bn
ISBN 978-88-8409-300-4
euro 26,00 (disponibile dal 01/10/2018)
Edizioni Canova, Treviso, 2018 – tel. 0422-262397 – info@canovaedizioni.eu


IL LIBRO 
La natura e il contrasto tra l’incommensurabilità del tempo geologico e la storia del genere umano; il paesaggio, minacciato dall’inquinamento, dallo «sterminio dei campi» e dal disamore dei luoghi; il tema civile della lotta tra l’idioma della poesia e gli stragiferi «galatei» del potere; i rapporti tra lallazione primordiale, dialetti e lingue; le relazioni tra lessici diversi, tra pittura, musica, cinema e poesia... Di questi e altri motivi che caratterizzano, con molteplici implicazioni culturali, l’intera produzione in versi e in prosa di Andrea Zanzotto, si occupano i diversi saggi raccolti nella prima sezione del libro (Dalla «natura» all’«idioma»). La seconda sezione raccoglie il testo di due interviste rilasciate da Zanzotto nel 2003 e nel 2008 e le ultime nove liriche (Il Vero Tema), da lui pubblicate in una cartella d’autore nel 2010 e non più ristampate. L’ultima sezione del volume è interamente dedicata all’uomo Zanzotto. Raccoglie infatti le testimonianze di persone a lui rimaste sempre vicine, «microstorie» che legano al ricordo dell’amicizia con il Poeta più o meno trattenuti sentimenti di nostalgia, insieme a immagini al cui fondo v’è sempre qualcuno che sorride di una sottilissima, inconfondibile ironia.  

GLI AUTORI DEI TESTI
Stefano Agosti, Claudio Ambrosini, Gianfranco Angelucci, Marzio Breda, Denis Brotto, Francesco Carbognin, Luciano Cecchinel, Alberto Cellotto, Roberto Cicala, Andrea Cortellessa, Maurizio Cucchi, Umberto Curi, Stefano Dal Bianco, Giulio Ferroni, Giovanna Frene, Tecla Gaio, Matteo Giancotti, Maria Antonietta Grignani, Adriana Guarnieri, Niva Lorenzini, Costanza Lunardi, Maria Giovanna Maioli, Nico Naldini, Massimo Natale, Giuseppe Sandrini, Mario Santagostini, Giuliano Scabia, Raffaella Scarpa, Nico Stringa, Silvana Tamiozzo Goldmann, Giorgio Tinazzi, Guido Tonietto, Francesco Vallerani, Francesco Venturi, Gian Mario Villalta, Francesco Zambon, Andrea Luigi Zanzotto.

Una presentazione del volume si terrà il 6 ottobre a Solighetto (Treviso). In seguito è riportata la locandina. Un'altra presentazione del volume è già prevista il giorno mercoledì 10 aprile nel pomeriggio presso la Biblioteca Comunale dell’Archiginnasio di Bologna. 



Una presentazione di "Abbiamo fatto una gran perdita" nell'ambito di CartaCarbone Festival a Treviso

SPOT POST


Una presentazione del libro Abbiamo fatto una gran perdita si terrà nell'ambito del festival CartaCarbone a Treviso.

Giovedì 11 ottobre 2018, ore 19:00

TRA - Treviso Ricerca Arte
Ca' dei Ricchi, Via Barberia 25, Treviso

Evento 13 di CartaCarbone - ABBIAMO FATTO UNA GRAN PERDITA

Introduce Francesco Targhetta


Qui il minisito dedicato al libro.

Qui il programma completo del festival e altre informazioni.

https://www.facebook.com/events/331887870896511/


SPOT POST - STOP

martedì 25 settembre 2018

"Un’arte media" di Pierre Bourdieu, saggio sugli usi sociali della fotografia

La raccolta di scritti Un art moyen. Essai sur les usages sociaux de la photographie ha più di cinquant'anni. La prima edizione data 1965. È diventata un classico delle scienze sociali e della fotografia, anche grazie al progressivo incremento della considerazione di Pierre Bourdieu, lui stesso fotografo tra l'altro. Come sa chi ha maneggiato questo libro in una delle sue edizioni, il sociologo del campo è solamente uno degli autori dei contributi qui radunati in un lavoro che conta come co-autori Luc Boltanski, Robert Castel, Jean-Claude Chamboredon, Gérard Lagneau e Dominique Schnapper. In Italia fu l'editore Guaraldi, apripista in più pubblicazioni di Bourdieu, a tradurre questo titolo già nel 1971, con una curiosa inversione del titolo che diventò La fotografia. Usi e funzioni sociali di un'arte media. La traduttrice e curatrice Milly Buonanno ripercorreva con una certa partecipazione già nell'edizione del 2004 il proprio incontro intellettuale con quest'opera e il suo curatore, collocando queste pagine in mezzo secolo di riflessioni sociologiche, filosofiche, professionali, artistiche, documentarie. Con una traduzione più aderente all'originale, Un'arte media. Saggio sugli usi sociali della fotografia, quel volume Guaraldi del 2004 ritorna disponibile ora per Meltemi (pp. 372, euro 24). La casa editrice, dopo un'interruzione delle trasmissioni, è passata sotto il controllo di Mimesis Edizioni e ha ripreso a pubblicare o ripubblicare, con un occhio al proprio catalogo storico, titoli importanti. Tra questi, solo per citarne uno, figura Alfred Schütz con La fenomenologia del mondo sociale (meritorio, in un panorama di pubblicazioni di sociologia non sempre entusiasmante, mi sembra qualsiasi intervento editoriale che ritorni sulle varie porzioni dell'opera del sociologo austriaco autore di quel bellissimo saggio intitolato Don Chisciotte e il problema della realtà).

Venendo all'arte media della fotografia e a questo volume composito, si dovrà dire subito che i differenti capitoli e sottocapitoli si addentrano nelle pratiche e problematiche professionali di quest'arte che chiunque presume di possedere. A dispetto di un continuo ricorso alle classi sociali, quindi a qualcosa che riconduce a una data gerarchia, assomiglia invece a un rizoma l'accostarsi di contributi che trattano la pratica del fotografare, a metà tra pratiche volgari e nobili, all'interno della famiglia, dei differenti gruppi, dei fotoclub, quale testimonianza di eventi, protagonista dell'ambito giornalistico (da meditare le pagine sul reportage) o pubblicitario. In generale è proprio questo accento sul versante professionale che a distanza di oltre cinquant'anni rende ancora molto attraente la lettura di queste pagine. Ad un livello introduttivo, il campo è sgomberato da nubi in un passaggio chiave come il seguente:

[...] sebbene la produzione dell’immagine sia interamente devoluta all’automatismo dell’apparecchio, l’inquadratura rimane una scelta che impegna valori estetici ed etici: se, astrattamente, la natura e i progressi della tecnica fotografica tendono a rendere ogni cosa oggettivamente “fotografabile”, ciò non toglie che di fatto, nell’infinità teorica delle fotografie tecnicamente possibili, ogni gruppo selezioni una gamma precisa e definita di soggetti, di generi e di composizioni. “L’artista, dice Nietzsche, sceglie i suoi soggetti: è il suo modo di lodare”. Poiché è una “scelta che loda”, poiché rappresenta l’intenzione di fissare, cioè solennizzare ed eternizzare, la fotografia non può essere esposta ai rischi della fantasia individuale e pertanto, con la mediazione dell’ethos, interiorizzazione delle regolarità oggettive e comuni, il gruppo subordina questa pratica alla regola collettiva, in modo tale che la minima fotografia esprime, oltre le intenzioni esplicite di chi l’ha fatta, il sistema degli schemi percettivi, di pensiero e di valutazione comune a tutto un gruppo.
È un passo che articola come un apparato locomotore l'intero libro nelle sue variegate parti alle quali abbiamo accennato poco sopra. Capire una foto, chiunque ne sia l'autore che l'ha catturata, significa per Bourdieu e i suoi compagni di avventura "decifrare il sovrappiù di significato che tradisce in quanto partecipe del simbolismo di un’epoca, d’una classe o d’un gruppo artistico". I modelli impliciti che i fotografi seminano per la via come Pollicino e il "fotografabile" (concetto evidentemente legato anche ad aspetti tecnologici) ci parlano quindi di quale "promozione ontologica" sia conferita da un dato gruppo sociale all'atto del fotografare. In tal senso un libro datato ma imprescindibile come questo risulta ancora più fecondo se letto assieme a un saggio come Il futuro dell'immagine di Federico Vercellone (di cui si parla qui), sia per l'aggiornamento tecnologico e sociale che il saggio di Vercellone propone, sia per i continui rimandi filosofici tra i due (al rapporto tra scienze sociali e filosofia, con particolare riguardo al peculiare caso di Bourdieu, si sofferma anche Milly Buonanno nell'utile testo introduttivo). Per Bourdieu, quest'arte "amatoriale", che sembra contraddistinta da una certa anarchia, è in realtà regolata da sedimentate norme, e gli esteti che si sforzano di liberare l'atto di fotografare dalle funzioni sociali a cui la grande maggioranza lo subordina ("souvenir" di oggetti, persone, eventi in particolar modo) "tentano di far subire alla fotografia una trasformazione analoga a quella che hanno conosciuto le danze popolari, quando si sono trovate integrate nella forma raffinata della suite".

Al gruppo di lavoro che ha dato vita a questo libro preme riconoscere, attivare e veicolare la fotografia come oggetto di studio nell'ambito della scienza sociale e dei gruppi di riferimento. La peculiarità del fotografare è semmai che quest'atto costituisce una pratica che ritorna immancabilmente all'individuo. È l'interesse per il significato conferito alla fotografia dai diversi gruppi sociali che consente di sviscerare la funzione di questa pratica secondo quel dato gruppo. In questa direzione, curiosa è la sterminata analisi di quanto accade nei fotoclub (parola che oggi suona quasi strana se rapportata al flusso fotografico amatoriale dei social) e tutta la casistica che questo volume offre. Il sociologo, in un primo istante, potrebbe sembrare la persona meno indicata a uno studio della fotografia. Il suo interesse è infatti sempre e soltanto per ciò che è "senso comune" e non "visione". Proprio la sperimentazione sulla fotografia, ossia sul terreno di quanto potrebbe condurla facilmente fuori strada nel regno dei "visionari", è un'occasione di studio che la sociologia non doveva mancare. Ed è uno sguardo persino sorprendentemente "affettuoso, e sovente intenerito" (le parole sono di Milly Buonanno) quello che scorgiamo in questo giovane Bourdieu che scrive di fotografia negli anni immediatamente successivi alla Guerra d'Algeria. Il periodo storico e l'impatto di quella guerra non vanno fatti passare in secondo piano, sia a livello generale sia a livello individuale, per gli autori di questo studio. E come ricordato Pierre Bourdieu non è da solo. Robert Castel, ad esempio, nel suo saggio conclusivo intitolato "Immagini e fantasmi", si infiltra nei corridoi stretti del sovraccarico simbolico dell'immagine fotografica, del suo essere pretesto per razionalizzazioni pre-consce (più che via d'accesso all'inconscio), offrendo l'appoggio per avvicinare la pratica fotografica a quel terrain vague che solitamente si mette a catasto nel perimetro frastagliato della malattia mentale. Insomma, se vi capita di interrogarvi spesso sull'atto del fotografare, questo è un libro da prendere in considerazione.


domenica 23 settembre 2018

I cambi di stagione: equinozio d'autunno


In occasione di solstizi o equinozi riprendo qui un testo dagli archivi. Specifico solo il caso dei testi editi. Le immagini che accompagnano questi post sono tagli e rotazioni (di 90°, 180° o 270°) dalle tavole.


Le ore sono quelle dovunque, prima e poi 
il sole ci passa per chi guarda su o giù,
chi legge o aspetta sodo soffre il peso 
sugli arti. E poi c'è l'altro, esiste sempre altro 
se guardi, appena fuori da un muro bagnato 
e chino come il lampo sotto il vento. I colori 
non sono tanti, si schianteranno nell'arco. Potrei 
dirla in molti modi l'attenzione, un disprezzo 
di me o questo gran calore che ci chiede il viso, 
ma il retro del pensiero è solo stanco 
di restare, di mimare il sogno vuoto delle braccia 
che sfarfallano qualcosa che non è ritorno 
non è inizio e quando si spezza il nodo 
d’esserci va così, a stelle: tutto pizzica in un grado
di forbici, sempre le mani a tradirci 
come il chiodo l'esodo e avere lode del duro.

lunedì 17 settembre 2018

"La parola braccata" di Valerio Magrelli: dimenticanze, anagrammi, traduzioni e qualche esercizio pratico

Il continente dei Translation and Interpreting Studies (TIS) si sta allargando sempre più. La formula fortunata, inaugurata negli anni Settanta con James S Holmes e poi potenziata, fa da cornice a un universo crescente di una miriade di pubblicazioni, ricerche, speculazioni e finanche scommesse teoriche che coinvolge necessariamente un insieme largo di discipline, che va dalla linguistica alle neuroscienze e che chiaramente non si limita a riguardare lo stato delle cose nell'ambiente a volte un po' triste delle humanities (o digital humaties) bazzicato anche da questo blog, ma si allarga a una pluralità di settori e applicazioni davvero considerevole. Pensiamo anche ai software o alle piattaforme digitali che ogni giorno frequentiamo e che aprono la porta a una branca di questi studi che potremmo far ricadere nella terminologia (esemplificando: come si arriva a tradurre il "Save as" del menu "File" dei vari software con "Salva con nome" in italiano, "Enregistrer sous" in francese, "Guardar como" in spagnolo e così via?). I famosi contenuti di cui è sovrappopolata la rete - content is king, voleva la celebra massima - viaggiano dentro interfacce che sono sostanzialmente identiche nel funzionamento e nell'aspetto grafico e che mutano quasi esclusivamente l'ambiente linguistico che le accoglie. Tornando alla traduzione nell'ambito delle nostre humanities, fortunatamente non si parla più, già nella formula di cui dicevamo in partenza, di traduzione soltanto e ancora più fortunatamente pare siano ora un lontano e brutto ricordo espressioni aberranti che andavano per la maggiore fino a qualche tempo fa, quando si parlava di traduzioni "belle e infedeli" o "brutte e fedeli". Capire come si sia arrivati a questi mostri concettuali sarebbe un percorso a parte, interessante e significativo per comprendere le scorribande del pensiero umano, ma non è ciò che interessa primariamente a Valerio Magrelli nel volume La parola braccata. Dimenticanze, anagrammi, traduzioni e qualche esercizio pratico pubblicato da Il Mulino (pp. 224, euro 20). Questo libro si pone lo scopo di avvicinarsi a cosa accade nella mente in quel momento di sforzo prolungato nel quale volgiamo qualcosa da una lingua a un'altra. Davvero la traduzione è un atto, una scelta, un bivio continuo tra i più complessi che riguardino l'umano. Allo stesso tempo, vuoi per i ritmi elevati dei processi produttivi a cui le stesse traduzioni sono sottoposte, incluse chiaramente quelle letterarie, vuoi perché tutto rischia di non incuriosire più, l'evento mentale della traduzione, ad un livello di sentire comune, passa spesso in secondo piano, per quanto restino chiare a tutti le fondamentali implicazioni culturali, politiche e ideologiche di qualsiasi traduzione passata presente e futura sulla faccia della terra.

La parola "braccata" del titolo è quella cercata da chi traduce e si trova magari a vivere la sensazione di avere quella parola ricercata "sulla punta della lingua". L'immagine del titolo è venatoria, perché braccare vuol dire anche stanare una preda per spingerla verso il cacciatore. Allo stesso tempo è un'immagine territoriale perché territoriale è qualsiasi traduzione. Eppure, come dice il sottotitolo, a Magrelli interessano le esitazioni, gli imbarazzi e persino le dimenticanze, ossia quel che resta sulla punta della lingua e non si scioglie in una scelta traduttoria precisa. Insomma, il traduttore non è un cacciatore. Per impostare il proprio ragionamento, più che rifarsi alla gran matassa dei "TIS" di cui sopra, Magrelli torna a Benvenuto Terracini lettore di Agostino e alla considerazione di quel fragile ponte che si instaura tra la presenza di un originale (il testo da tradurre) e l'assenza di qualcosa di nuovo (il testo tradotto) e che sfocia nella concezione di una traduzione come processo di rammemorazione. 

Il volume, introdotto da un'utile prefazione che intende collocare questo contributo nel grande panorama degli studi sulla traduzione, si sviluppa in due parti. La prima, di carattere concettuale come l'introduzione, asseconda il desiderio di "indagare le affinità fra l'atto traduttorio e alcune forme di attività mnestica, a cavallo fra competenze linguistiche e procedure attivate nell'atto del ricordo". I numi tutelari, oltre al già ricordato Terracini, restano Luciano Anceschi e l'imprescindibile Emilio Mattioli, e la casistica qui trattata abbraccia sollecitazioni da Saussure, Freud, Lurija, George Eliot, William James, Douglas R. Hofstadter o dal sinologo svizzero Jean François Billeter. Ricalcando Nabokov dei Problems and Poems (1969), Magrelli chiama Problemi questa prima parte. La seconda parte del volume, quella dei Poemi (parola preferita a "Poesie" per l'evidente allitterazione dell'originale nabokoviano), si limita a dei rilievi tratti dall'esperienza e agli esercizi pratici di cui ci rende partecipi il sottotitolo di questo libro. Ecco allora esercizi di capo o acrostici, esercizi di coda o rime, esercizi di verso o metro, esercizi di cifra in un indovinello, esercizi di segno o calligrammi (come tradurre la forma delle lettere?). Il finale, proprio per distoglierci dall'ambiente della sola letteratura, ci porta tra gli esercizi di tempo o sottotitoli, peculiare vicenda di traduzione per il cinema. L'impostazione del volume, sicura e rabdomantica al tempo stesso, giova al nucleo di problematicità affioranti e fluttuanti pagina dopo pagina e anche a quel nucleo di questioni che rimane inevitabilmente e giustamente sottotraccia, quando si affronta questo tema spinoso eppure potenzialmente estatico.

giovedì 13 settembre 2018

"Non sparate sul recensore", le recensioni di Giorgio Manganelli raccolte in un volume ragionato di Aragno

Recensire, strana attività in bilico. Ancora necessaria? Credo di sì. Di qui a dire cosa sarà del recensire il passo è tutt'altro che agevole. La recensione è un testo strumentale e non è soltanto pubblicità per un libro o un'altra opera d'intelletto (per quanto sia talvolta anche pubblicità). È un'attività che deposita una prima ricezione e anche inevitabilmente una prima polvere e crosta interpretativa su un'opera, sul suo percorso che - nel caso dei libri - resta per fortuna incalcolabile. Gore Vidal scrisse che "affermare che il destino dei libri è incalcolabile è esagerare con l'understatement" e in linea di massima possiamo essere d'accordo. Anche quando si prova in molti modi a confezionare, prevedere e accompagnare il destino di un libro, questo resta tutto sommato incalcolabile. Il successo fulmineo non è garanzia di long-seller e un iniziale fiasco può diventare alla lunga un libro diffusamente letto. Cose note. Ma tralasciamo gli estremi e torniamo a quella peculiare pubblicità che è la recensione. Oggi lo stato del recensire non è del tutto inquadrabile e pertanto sfugge. Tra l'altro, quanto vengono pagate le recensioni, se vengono ancora pagate? Suppongo qualche decina o centinaia di euro, nel migliore dei casi, se non si è dei Claudio Magris. Sussistono spazi di approfondimento e analisi efficaci, attraenti, ma viene passata per recensione anche un'attività stanca e stancante di scrittura che spesso insegue, più che un'opera, un determinato profilo autoriale considerato il cavallo su cui puntare in quel frangente. Recensire è diventata un'attività nella quale raramente fanno apparizione coraggio, capacità di visione del diamante-opera nelle sue sfaccettature, rischio e altri requisiti necessari all'elogio ancor prima che alla stroncatura. Inoltre c'è da dire che si sta disquisendo senza considerare lo slittamento semantico in atto, per cui "recensione" è sostanzialmente un commento successivo a un acquisto lasciato su una piattaforma di ecommerce che diventa determinante per i futuri acquisti di quel bene o servizio. Se le cose stanno circa così, qualcosa ci stiamo perdendo e continueremo a perdere di un certo modo di scrivere attorno a libri, mostre d'arte o film, un usus scribendi che non è strettamente critica letteraria, critica d'arte o cinematografica. Di certo lo sguardo non deve essere rivolto solo al passato, perché restano nuove vie da sperimentare (ad esempio le videorecensioni, con qualche simpatica deriva a mo' di televendita, non distante da certe presentazioni librarie). Tuttavia non c'è molto da stupirsi se una certa cura e passione nel recensire è venuta meno: se la nostra giornata è dispersa in mille rivoli di post, commenti, controcommenti, quali risorse attentive restano alla recensione, per chi vuole scriverla e chi vuole leggerla? Non vi è critica in queste considerazioni, semmai la necessità di prendere coscienza di un cambiamento, anche nella capacità di concentrazione largamente intesa. E ancor più a fondo, che risorse restano per la coabitazione con le opere di ingegno, siano queste libri o altro, in questo paradigma di accelerazione e di autopromozione costante e infinita? Difficile dirlo. 

Eppure leggere, ci ricorda uno scritto su Pavese del libro di oggi, è un "modo come gli altri di fare la storia, di esistere, di prendere partito" e "una pagina, letta o scritta, è innanzitutto un gesto, compiuto da una creatura reale, in un luogo e un tempo realmente accaduti". E per arrivare a leggere si può passare prima per una recensione. Per farsi un'idea di cosa abbia voluto dire la pratica del recensire nel caso limite di un autore eccezionale della nostra storia letteraria, possiamo sfogliare, leggere o piluccare da questo corposo volume che Aragno ha pubblicato con il titolo Non sparate sul recensore (a cura e con una prefazione di Lietta Manganelli e Michele Farina, euro 35). Sono qui raccolte le recensioni scritte da Giorgio Manganelli in quasi mezzo secolo, dagli anni Quaranta agli anni Novanta. Il volume porta in salvo scritti anche molto brevi e divenuti difficilmente consultabili. A volte queste note di lettura assomigliano a delle schede sintetiche e in questo si potrebbero accostare a  quanto è già apparso su Estrosità rigorose di un consulente editoriale pubblicato da Adelphi e del quale s'è scritto qui (tra parentesi: per i fan del Manga, ho trovato davvero bello il breve reportage di viaggio intitolato Africa uscito da poco, sempre per Adelphi). E come nel caso di Giuseppe Berto e Soprappensieri. Tutti gli articoli 1962-1971 o di Luigi Sampietro e La passione della letteratura va riconosciuto il merito dell'editore Aragno di aver raccolto in un corpo unico ciò che era davvero disseminato e difficilmente reperibile. Lietta Manganelli ci ricorda che il merito va riconosciuto inoltre a Michele Farina, giovane studioso che, armato di fotocamera digitale e grande pazienza, è andato a scartabellare scritti che ormai diventavano inaccessibili anche nelle più fornite biblioteche della penisola.

Manganelli, nato a Milano da genitori emiliani, inizia presto a collaborare con "La Gazzetta di Parma", giornale che in un certo senso inventa la pagina culturale del dopoguerra italiano, come rammenta la figlia dello scrittore nella sua nota introduttiva. La preoccupazione per il conto economico è chiaramente centrale nella sua poderosa attività recensoria e del resto, sempre in quelle pagine su Pavese, ci ricorda che la letteratura "non è meno reale (e neppure di più) dell'economia". Procurarsi i libri nel dopoguerra è quasi un'avventura e soltanto più tardi, con il boom economico, le case editrici diventeranno più generose e elargiranno copie gratuite per la stampa con maggiore facilità. Il libro di Aragno diventa una cavalcata, suddivisa per annate, delle collaborazioni di Manganelli per riviste quali "La Giostra" (una rivista studentesca del liceo Beccaria di Milano), "Il Ragguaglio Librario" (una parte cospicua del volume), "Paragone", "Letterature Moderne", "Aut Aut", "Il Mulino", "Il Gatto Selvatico", "Tempo presente", "Il Punto", "L'Europa Letteraria", "L'illustrazione Italiana" (altra cospicua collaborazione), "Il verri", "Il Menabò", "Quindici", "Il Caffè", "Mondo Operaio", "Libri Nuovi", "Alfabeta", "Il Piacere", "Kos", "Il Moderno", "Nuovi Argomenti" e "Italia Oggi". 

Con Mario Praz, Manganelli è stato uno dei grandi traghettatori della letteratura inglese e anglo-americana del dopoguerra e notevole è anche il suo spoglio periodico delle riviste britanniche qui riassunto. In questi contributi recensori, diversi per ampiezza, approfondimento, scrittura, portata e sguardo, possiamo estrarre nuovi punti di partenza per tornare a fissare la traiettoria di scrittori più o meno noti, dall'amato Poe di cui fu traduttore, a Orwell, a scrittori meno conosciuti, che Manganelli ci porge con il gusto tipico del recensore che racconta di una scoperta (si veda lo scritto su Werner Bergengruen). Singolare l'attenzione prestata a John Dos Passos, un autore tradotto in modo discontinuo e incompleto in italiano (pare non abbia mai venduto bene nel nostro paese, così si dice tra gli addetti ai lavori, e in questo frangente del Centenario della Grande Guerra nessuno ha pensato di ritradurre Three Soldiers). Nuovo è anche il suo punto di vista su Pavese e fulminanti le due paginette su Tozzi, in cui invita a strapparlo dalla Toscana e da Siena e valutarlo per quel che è, fuori da inconcludenti e pericolosi discorsi di autobiografismo e psicologismo. Federigo Tozzi è uno scrittore che evoca fantasmi e evocare fantasmi è quello che fa da sempre la letteratura, in questo strettamente imparentata con la negromanzia e la cattura di ombre. Insomma, come lasciato intuire in apertura, questo libro, tratteggiando una precisa idea di letteratura senza ricorrere a un sistema, documenta un'attività che ci spinge realmente a interrogarci sul senso del recensire oggi. Non c'è necessariamente una risposta a un simile interrogativo che Manganelli ci lancia con questo volume confezionato dalla figlia Lietta e da Michele Farina, anzi. Anche il silenzio (o il non recensire più) è contemplato come possibile risposta.

lunedì 10 settembre 2018

"De l'infinito, universo e mondi". Il manuale di esobiologia di Sebastiano Vassalli. Uno scritto di Roberto Cicala

L'editore Hacca ha mandato in libreria De l'infinito, universo e mondi. Manuale di esobiologia di Sebastiano Vassalli. Il titolo bruniano cela uno scritto a lungo rimasto inedito, tra le carte dello scrittore. Destinato originariamente a Einaudi, questo testo non ebbe fortuna. Di seguito, per gentile concessione dell'editore e grazie alla puntuale collaborazione di Francesca Chiappa, si propone lo scritto introduttivo di Roberto Cicala, il quale, oltre a fornire un piccolo saggio di storia dell'editoria italiana, colloca quest'opera all'interno della ricerca vassalliana.

Un manuale per trovare la via del romanzo.
La ricerca di Vassalli tra poesia e fantascienza a cavallo del Sessantotto

«Fuori del libro nell’universo dei sogni, un universo di morte» è la visione apocalittica che segna la parabola di Sebastiano Vassalli a cavallo del Sessantotto nelle pagine del Millennio che muore, forse il punto lirico più alto del giovane autore d’avanguardia che, non va dimenticato, nasce proprio come poeta con Lui (Egli) pubblicato nel 1965 da Rebellato. Fin dal titolo della sua prima plaquette l’idea di «annullare l’io» predominante in tutta la letteratura tradizionale è uno degli imperativi categorici del contestatore che riceve il battesimo dal Gruppo 63 in un incontro a Fano alla vigilia di quel 1968 in cui esordisce nel catalogo Einaudi con l’«euforica bisboccia verbale sconnessa e avvampante» rilevata da Giorgio Manganelli in Narcisso, anche se è Giorgio Bárberi Squarotti a segnalarlo per primo al gruppo della collana dello Struzzo “La ricerca letteraria” dalla tipica copertina rosa shocking.
Eppure i versi del «millennio che muore, un canto corale, armonioso, possente, di morte su un universo di individui e di cose che esistono senza essere» sono schegge di quel tronco di fantascienza che il giovane autore prova a intagliare con un’impostazione creativa che l’attuale scoperta del Manuale di esobiologia dimostra d’essere, nella bibliografia vassalliana, non una semplice curiosità ma un passaggio nodale nella ricerca di una via nuova per l’urgenza di una scrittura in quegli anni avvertita come «macaronico inganno, sontuosa, carnevalesca dissimulazione di un’idea di morte, di cosmica vacuità». Lo ammetterà sulla soglia dei settant’anni: «Il mio percorso per diventare scrittore è stato lungo e inutilmente tortuoso. Vorrei aver seguito un altro percorso; ma vivevo in quell’epoca, e non potevo tirarmene fuori».
Vent’anni prima della Chimera il trentenne intellettuale, nato a Genova ma residente a Novara da quando ha pochi anni di vita, ha una laurea in lettere con una tesi sull’arte contemporanea e la psicanalisi discussa con Cesare Musatti e si mantiene insegnando, mentre dipinge e organizza eventi artistici della neoavanguardia. Sono anni da lui definiti «straordinari e straordinariamente inconcludenti», in cui si cimenta anche come editore in proprio con le sigle C.d.E. (Centro di documentazione estetica) e poi, nel segno dell’«anti editoria», Ant. Ed, cui intesta anche una rivista underground costituita da un grande foglio piegato in 20 facciate. Se l’editoria in proprio è una modalità per incontrare i lettori senza sottostare alle logiche delle grandi case editrici, e senza cadere nell’omologazione culturale, il terreno argilloso delle riviste è il campo privilegiato per seminare tutte le idee possibili: nel solco della torinese “Geiger” dei fratelli Spatola, della leccese “Gramma” e della fiorentina “Salvo imprevisti” coltiva il progetto controverso di “Pianura”, che però abbandona presto sebbene il nome resta un’identità forte nel suo percorso, cercando sempre di andare oltre quegli orizzonti piatti, quel «non-tuttoe-il-contrario-di-tutto tenuto insieme dalle idee confuse ma forti di quegli anni».
I testi ora scoperti grazie al lavoro di ordinamento dell’archivio che lo scrittore ha donato al Centro Novarese di Studi Letterari permettono di ricostruire questo momento di passaggio e di «contraddizioni di una generazione che si era illusa di cambiare il mondo» e che ha nel Millennio che muore un «punto d’arrivo e di partenza verso nuovi, inesplorati territori», secondo il suo migliore osservatore editoriale in presa diretta, l’einaudiano Guido Davico Bonino, al quale Sebastiano Vassalli rivela in una lettera del 199, terminata la stesura di Tempo di màssacro, di «sprofondare negli abissi del macro-microcosmo fantascientifico alla ricerca del “genere” romanzo». È una rivelazione di grande importanza per il giovane insegnante che nel fatidico 198 va a vivere con la futura moglie a Casa Bossi che avrebbe raccontato decenni dopo in Cuore di pietra: così gli studi e le letture di science fiction – la definizione coniata dalla rivista “Amazing Stories” negli anni venti poi tradotta in Italia come «fantascienza» nel 1952, quando inizia a uscire “Urania” – sembrano una via di fuga per smarcarsi da certa neoavanguardia artistica che lo ingabbia dentro la «cappa dell’irregolare e del violento contro Dio, natura e arte». L’idea è di tentare, si legge in altra lettera a Davico, «una sorta di operazione alchemica, difficile e complessa quanto la tradizionale quadratura del circolo: una letteratura d’avanguardia che possa essere veramente “popolare”».
È in quest’ottica che il giovane scrittore impegnato (iscritto al partito comunista da cui rimane ben presto deluso) avverte l’importanza di un’impostazione teorica del problema letterario che gli sta a cuore, suggerita forse dal lavoro di supplente e dalla collaborazione con Einaudi come curatore di edizioni per la scuola a partire da Il giorno della civetta di Sciascia (poi Dolci, Viganò, Tobino, Malcom X, Revelli e Gramsci), sebbene il suo approccio teorico segua sempre canoni postmoderni influenzati dalla neoavanguardia, come la dialettica di prestiti linguistici alti e bassi con esasperazione stilistica in chiave satirica. Nascono così due opere legate alla fantascienza: il Manuale di esobiologia, rimasto sepolto fino ad ora nella rivista internazionale “Pianeta” e proposto in cinque puntate tra il 1971 e il 1973 con una parte del tutto inedita, e Sesso®. Piccola enciclopedia universale di fantasesso, di cui Vassalli si finge traduttore e curatore attribuendo l’opera a tale Stephen Blacktorn, autore d’invenzione definito «studioso tra i più quotati di esobiologia e di genetica comparata», pubblicata nel 1970 dalla casa editrice Dellavalle di Piero Femore e Vittorio Viarengo, già promotori delle torinesi Edizioni dell’Albero. Ora le due opere si possono legare finalmente tra loro, non soltanto per il taglio di caricatura rispetto ai libri fantascientifici di quegli anni. Soprattutto la ricerca sul Manuale, la cui non facile edizione è ora disponibile per la cura attenta di Martina Vodola, permette di dare un nuovo senso al segmento di produzione a cavallo del 1970. Va infatti messa a fuoco un’attenzione verso il genere manualistico quasi esasperata, perché vissuta da Vassalli come imprescindibile per impostare una cassetta di strumenti narrativi per il futuro, da Tempo di màssacro, sul cliché della trattatistica barocca ma deformata, scelto da Italo Calvino per i primi titoli della sua collana “Einaudi Letteratura” nel 1970, fino a Manuale di corpo, passando per i due testi fantascientifici, rifiutati da Einaudi.
Un terzo rifiuto dello Struzzo, in verità contro il parere favorevole di Manganelli, riguarda un altro manuale, AA. Il libro dell’utopia ceramica, scritto anch’esso nel 1970 e pubblicato quattro anni dopo da Longo in «una collana gestita dagli autori stessi»: anche qui predomina la tensione millenaristica e universalistica, dal momento che l’«utopia ceramica» significa dare metaforicamente un ordine al mondo ricoprendolo di piastrelle, nel senso di una «figurazione piana, bidimensionale» in grado di riprodurre la Storia, non nella sua interezza, ma per allusioni, «per frammenti riflessi, in Mitologie e Utopie». È l’impresa di un io narrante che colleziona piccoli esagoni di ceramica ma «non più protagonista» della «ceramizzazione del mondo». E la figura di un collezionista appare anche nelle pagine del Manuale di corpo ovvero Sentenze di scrittori antichi e moderni, scritto nel 1972 e rimasto inedito fino al 1983. Dopo la pubblicazione nei senesi Quaderni di Barbablù sarà Leonardo Mondadori a riproporlo nel 1991 con l’osservazione dell’autore secondo cui l’operetta «contiene in sé le ragioni migliori dell’avanguardia (prima fra tutte, l’idea di letteratura come corpo di parole), e contiene anche le ragioni che allora mi spingevano a cercare altre strade, fuori da quella che avevo percorso fin lì e che vedevo essere senza sbocchi».
Uno sbocco intermedio si trova nel successivo Abitare il vento, tra le prime prove narrative in cui alla fine il protagonista Cris si impicca, nel senso di una morte necessaria dell’io poetico tradizionale per rinascere e ripartire senza più la stessa prima persona verbale, in questo caso dopo l’illusione ideologica della stagione dell’avanguardia che Vassalli vuole chiudere con la scelta di «abitare il vento», azzerare la situazione presente, alzare la posta in gioco secondo un’immagine di libertà tratta dal Libro dei Proverbi: «Chi distrugge la propria casa abiterà il vento». Vassalli sceglie quindi il mestiere di scrittore passando prima dagli esercizi manualistici, poi indagando in archivi e provando anche il genere del reportage (dapprima sugli italiani in Alto Adige), soprattutto però mettendo a frutto le intuizioni di un libro del «maestro e amico» Giulio Bollati su L’italiano. Il carattere nazionale come storia e invenzione. Trova così la propria strada inseguendo personaggi sconfitti, dal fascista semianalfabeta Benito dell’Arrivo della lozione al comunista Augusto Ricci di Mareblù, preannunci dei personaggi Antonia, Mattio e molti altri, a partire da uno puro, il suo «babbo matto» Dino Campana, protagonista della Notte della cometa, la prima opera della sua maturità nel segno della ricerca storica e della narrativa. Già in una lettera indirizzata all’Einaudi aveva confessato di sentirsi «assolutamente consapevole, per quanto mi riguarda, di aver imboccato la via stretta che conduce chissà dove, forse da nessuna parte: cioè di essere uno scrittore».
Il florilegio trattatistico di biologia aliena al centro della riscoperta di questo momento creativo di passaggio è un catalogo di vegetali e animali extraterrestri compilato per costruire «una visione non del “mondo” – termine quanto mai ambiguo e polivalente – ma dell’Universo: ché l’epoca delle “visioni del mondo”, come quella dei “protagonisti” autori di tali visioni è trascorsa». Lo sbocco della science fiction è infatti uno dei generi possibili da lui individuati in anni di crisi per trovare una vocazione alla scrittura narrativa dopo aver accantonato il progetto di fare il pittore o soltanto il poeta. La parabola del «viaggiatore nel tempo» Vassalli prenderà tuttavia un’altra strada, proiettandosi nel passato anziché nel futuro, eppure la semina fantascientifica (che trova un riscontro bibliografico anche in un racconto pubblicato in un volume della Grande Enciclopedia della Fantascienza del 1980 curata di Francesco Paolo Conte) porterà frutti anche in seguito, sempre evidenziando il contrasto fra l’io e l’umanità come dilemma e conflitto tanto sociale quanto letterario.
La fantascienza, a suo tempo coltivata per liberarla dalle restrizioni di genere minore, torna sulla scrivania di Vassalli negli anni novanta con il dibattuto romanzo 3012, che in qualche modo si beffa di chi gli aveva «contristato l’anima per anni con l’etichetta di romanziere storico». E senz’altro alla stesura del libro non sono estranei i suoi cataloghi di «esobiologia» (dove «eso-» deriva dal greco e sta per ciò che è «esterno», appunto extraterrestre) e di «fantasesso» essendo ricchi di suggestioni circa personaggi e situazioni. Per esempio echi dell’Albergo Intergalattico citato nel Manuale «costruito sugli stessi princìpi degli alveari» con «le stanze comunicanti che comunicano in realtà verso l’alto o verso il basso, senza eccezioni» tornano nella descrizione dei «trasferitori» che permettono gli spostamenti nei Blocchi residenziali dove ha vissuto Antalo, il protagonista di 3012 in cui dominano le tensioni belliche, i conflittuali rapporti interpersonali e le sovrastrutture di ogni società con l’odio come motore delle vicende umane: è una delle tesi presenti nel Manuale di esobiologia, le cui suggestioni popolano pagine di un’altra opera narrativa della maturità pubblicata alla vigilia del Duemila, Un infinito numero, dedicata al viaggio di Virgilio e Mecenate nella terra dei Rasna alla ricerca delle origini di Roma con la rivelazione della cosmologia etrusca secondo cui conseguenza necessaria a tutto ciò che viene creato per popolare il Nulla (termine fondamentale nella visione dello scrittore) è «l’infiltrazione dell’infelicità». Lo stesso titolo del romanzo rinvia a un passo dello Zarathustra di Nietzsche – «Tutti gli stati che questo mondo può raggiungere, li ha già raggiunti, e non una sola volta, ma un infinito numero di volte» – riportato nel nono capitolo 9 del Manuale, da cui emerge talvolta il medesimo desiderio, caratterizzante la vocazione primaria di Vassalli, di raccontare storie dimenticate dalla Storia. Anche in Stella avvelenata, il «Viaggio anacronismico nell’isola di Atlantide» del 2003, sono raccolti altri frutti formatisi dai semi gettati decenni prima in De l’infinito, universo e mondi, come la teoria della pluralità dei mondi e dei loro abitanti esposta citando a più riprese Niccolò Cusano. Altri riferimenti si trovano nei racconti, dal Robot di Natale – con l’idea che il desiderio di conoscere nell’universo una vita aliena derivi dal bisogno di trovare «un nemico esterno, abbastanza lontano per non rappresentare un pericolo imminente, ma abbastanza reale per costringerci ad accantonare, in tutto o in parte le nostre liti domestiche» – fino a La morte di Marx e altri racconti, dove la visione della contemporaneità è popolata da uomini-macchina dotati di ruote al posto delle gambe.
Il filo rosso della fantascienza non è quindi un accidente o, meglio, lo è in senso filosofico, come qualità di un elemento, in questo caso la scrittura, che può anche mutare nella sua espressione esteriore senza che l’idea originaria ne venga modificata. Di questo sono una testimonianza ineludibile la dimensione utopica e tragica presente tanto nella narrativa matura quanto alla base di questo originale Manuale di esobiologia, forse non riuscito come genere letterario compiuto ma sorprendente strumento di teoria che porterà, per esclusioni, alla pratica del romanzo. Vassalli ne sarà un maestro rappresentando soprattutto alcuni elementi come l’odio e la dolorosa relazione umana dentro uno spazio apparentemente circoscritto, illuminato sempre da una visione apocalittica, la stessa del Millennio che muore, di un mondolibro universale che si decompone per lasciare a tutte le parole la libertà di rappresentare in modo diverso e nuovo «cose, individui / ciascuno in grado di vivere nel proprio libro, di scrivere il proprio libro».
Se apocalisse e fantascienza davvero vengono in contatto è questione cui lo scrittore non dà peso, credendo maggiormente in quanto è ben espresso nella laica domanda del poeta a lui più vicino, Dino Campana, scelta a esergo della Notte del lupo: «Qual ponte abbiamo noi gettato sull’infinito, che tutto ci appare ombra di eternità?».

Roberto Cicala


domenica 9 settembre 2018

"Foglie d'erba" di Walt Whitman nei Meridiani Mondadori. Una recensione di Massimo Bacigalupo

Questa recensione a Foglie d'erba di Walt Whitman (a cura e con un saggio introduttivo di Mario Corona, Mondadori, I Meridiani, Milano 2017, pp. CLXXXVI, 1658) è apparsa, insieme a un importante studio di Randall Jarrell pressoché irreperibile in Italia, sulla rivista “Poesia”, 339, luglio-agosto 2018.


Dopo anni di gestazione, i Meridiani mondadoriani ospitano una nuova edizione italiana di Leaves of Grass, basata sull’ultima edizione autorizzata da Walt Whitman, che com’è noto non cessò mai di accrescere la prima edizione uscita nel 1855, quando aveva 36 anni. Questa è la terza traduzione integrale dell’opera massima di un poeta “grande, che contiene moltitudini”. E moltitudini di versi. La dimensione del volume, che a differenza della precedente versione integrale einaudiana di Enzo Giachino (1950), riproduce anche il testo inglese, è tale da incutere soggezione. E l’apparato non è da meno, visto che a 186 pagine “romane” di Introduzione (I-CVII) e Cronologia (CIX-CLXXXXVI) si affianca un Commento di 238 pagine (1321-1559). Dunque abbiamo a che fare forse col più esteso libro su Whitman che l’Italia abbia prodotto, per quanto egli si legga da noi fin da quando era in vita.

Gli appassionati e i curiosi troveranno qui tutto lo scibile whitmaniano, la sua vita narrata giorno per giorno, la sua famiglia, i suoi incontri con ammiratori americani e inglesi, i suoi confronti con Emerson e Thoreau, i suoi amori o innamoramenti che mai lo condussero a una relazione stabile. Il curatore Mario Corona, dati i tempi, è particolarmente attento al discorso omosessuale nelle sue varie declinazioni. Whitman vedeva la democrazia americana come basata anche su un nuovo ideale amore fra i “compagni” (camarados), compagni di strada che però gioiscono di intimità fisica, dormono allacciati. Ai suoi tempi nessun recensore si accorse che questo poteva implicare l’“amore che non osa dire il suo nome”, ed Emerson sembra si preoccupasse soprattutto di quelli che gli sembravano eccessi di erotismo eterosessuale. Ma certi lettori inglesi e militanti omosessuali come Wilde, Edward Carpenter e J.A. Symonds vollero riconoscere in Whitman il loro bardo e quando Symonds gli scrisse chiedendogli di dichiararsi apertamente ne ebbe una meritata risposta depistante: “Sebbene non mi sia mai sposato ho avuto sei figli... Voglio sperare che su quelle pagine non si dica neppure una parola che indichi una possibilità di deduzioni morbose... che respingo e mi paiono condannevoli”. Paradossi della sorte, questo diventa invece proprio il leitmotiv dell’apparato del nuovo Meridiano.

Il saggio introduttivo si intitola appunto “La gallina furtiva e il gatto dalla coda troppo lunga”. Whitman dice spesso che vuol essere capito ma non capito mai del tutto, ci aspetta e ci sfugge. “Io da qualche parte sto fermo ad aspettarti” è l’ultimo verso (il v. 1346!) di “Song of Myself”. Ma non è così sempre il testo poetico? Una poesia spiegata è una poesia morta, diceva Wallace Stevens. In ogni caso, l’apparato di Corona permette al lettore speleologo di calarsi nella cultura dell’età di Whitman con i suoi grandi eventi (la Guerra civile) e grandi libri, e anche di calarsi nella cultura del nostro tempo, che naturalmente crea un suo Whitman, aggiornato ma si spera sempre sfuggente e talvolta illeggibile.

In un famoso saggio Randall Jarrell diceva che fra i grandi poeti Whitman è forse quello che ha scritto il maggior numero di brutti versi. Anche Corona è severo con il Whitman fiacco e ipertrofico della maturità, e consente con il giudizio prevalente che l’opera più significativa si arresta poco dopo la Guerra di Secessione e si trova soprattutto nelle prime edizioni fino al 1860. Ciò non impedisce a Corona di tradurre con grande attenzione e sensibilità tutto il corpus, e di darci la possibilità di rileggerlo, mentre nelle note minuziose e discorsive non di rado cita traduzioni precedenti in italiano e altre lingue. Insomma questo Meridiano instaura un lungo dialogo spesso affabile su Whitman col lettore/lettrice...  (Whitman è uno dei primi a scrivere quasi sempre “he or she”, cioè a non sussumere il genere femminile al “he”. Contro la lingua sessista… E ad attribuire alle donne impulsi sessuali che pare fossero tabù. “Coricati sulla schiena e pensa all’Inghilterra”, suonavano le istruzioni prematrimoniali delle mamme vittoriane.)

La copiosità del materiale offertoci può sì sconcertare. Non è il Whitman migliore in alcune pagine, alcuni versi? (“Alcuni versi di Whitman” era appunto il titolo di Jarrell.) “E basta un’occhiata della giumenta baia a farmi rinsavire”. Siamo in “Song of Myself”, ultimo verso della sezione 13: “And the look of the bay mare shames silliness out of me”. Disperante (esaltante?) lavoro del traduttore. Letteralmente “to shame silliness out of me” significa “mi dà vergogna della (e libera dalla) mia stoltezza”. Dato il contesto esagitato di Whitman, Corona ha scelto una frase più generica. Whitman ammette di essere pazzo e che il contatto con lo sguardo della cavalla lo corregge, lo purifica di tutte le stoltezze e i giochetti dei rapporti umani inautentici. Silly, che bella parola quando uno ha il coraggio di dirla di sé. Confrontiamo Giachino: “E lo sguardo della giumenta baia mi fa vergognare della mia stoltezza e l’espelle”. Un po’ lungo, perché a differenza di Corona che si accontenta di una frase breve e vigorosa qui ogni implicazione viene esplicitata. Ma una delle funzioni della traduzione è rivelare l’originale tradendolo, cogliendone solo una parte. Ci invita a un’avventura testuale, e poetica.

Ma si diceva dello sconcerto davanti all’ipertrofia delle Foglie whitmaniane (Leaves è un gioco di parole: “foglie” ma anche “fogli”!). In realtà questo Meridiano così massiccio non deve trattenerci dall’addentrarci in esso anche a caso, e allora troveremo versi che non conoscevamo, una scena di un arrotino circondato da bambini (p. 892), un incitamento a meglio divenire noi stessi: “Va’, caro amico, se necessario rinuncia a tutto il resto e comincia oggi ad allenarti a coraggio, realtà, amor proprio, precisione, elevazione...”.

Forse qui siamo un po’ troppo nel dichiarativo, nelle frasi da scrivere sul calendario. Whitman è sempre didattico, come forse tutta la letteratura americana, ed è naturalmente molto religioso in senso non confessionale. Usa proprio la parola “religione” come fatto centrale della sua opera.

Sappi che solo per lasciar cadere nella terra i germi di una religione più grande
Gli inni seguenti, ciascuno di un tipo, io canto.

Compagno mio!
T’invito a condividere con me due grandezze, e una terza che più fulgida sorge e le altre assomma,
La grandezza dell’Amore e della Democrazia, e la grandezza della Religione.

Melange mio personale di visto e di non visto,
Oceano misterioso ove sboccano i rivi,
Spirito profetico della baluginante materia intorno a me cangiante...
                             (“Partendo da Paumanok”, pp. 49-51)

È quasi impossibile distinguere retorica da visione, ed è giusto che sia così. Fra l’altro in questo Meridiano ogni poesia porta in calce la data di prima pubblicazione e revisione finale, il che subito può permetterci di scegliere il periodo che preferiamo.

Da tanto tempo leggiamo Whitman. Il passo che ho citato sopra si trova già in Canti scelti di W.W. tradotti da Luigi Gamberale (Sonzogno, Milano 1890), dove suona così:

Sappi tu: solamente per far piovere sulla terra i germi di una religione più grande,
Io canto questi canti, ciascuno per la parte sua,
– Mio camerata,
A te sta il partecipare con me a due grandezze, e ad una terza altresì, inclusa in esse e più splendida,
Alla grandezza dell’Amore, della Democrazia e con esse alla grandezza della Religione.
È mia propria questa unione del visibile e dell’invisibile,
Questo oceano misterioso dove le correnti confluiscono...

(manca il verso successivo, forse non c’era nell’edizione consultata da Gamberale).

Mentre la tradizione della traduzione continua a fluire, e continuerà, a noi però è data la possibilità, l’invito whitmaniano, di appropriarci via via di nuove parti del corpus sterminato lasciatoci dal buon Walt. Per esempio questa bellissima e programmatica “Starting from Paumanok” (228 versi) non è fra le sue poesie più note a noi che a volte stentiamo già ad arrivare in fondo a “Song of Myself” e sappiamo che le cose migliori sono nella prime edizioni del 1855 e 1856. (“Partendo da Paumanok” – nome aborigeno di Long Island dove appunto Walt nacque – è del 1860.) Sicché i lettori italiani di poesia del Duemila non sbaglieranno procurandosi la compagnia avventurosa di questo Meridiano, magari dissentendo da certe sue accentuazioni, ma essendo grati a Mario Corona di aver “parlato tanto” (e bene) di Whitman e di darci una possibilità di riscoprirlo.

Whitman insuperato poeta della corporeità e del tatto, poeta visionario folle, ma anche una grande testa pensante. Si legga il tardo saggio di commiato “Uno sguardo retrospettivo alle strade percorse”, che Corona come già Giachino traduce (con testo a fronte) in appendice. Colpisce il gran buon senso, la fermezza, la nobiltà di questo discorrere. La giumenta baia e la prossimità della morte hanno ripulito Walt di ogni silliness. Ma se non fosse anche per la silliness non sarebbe quel grande poeta che è: “Questo profumo delle mie ascelle è aroma più fine della preghiera”.

Massimo Bacigalupo

giovedì 6 settembre 2018

"Neuroscienze della bellezza" di Jean-Pierre Changeux

A che punto siamo con le neuroscienze? Dove arriva e dove si ferma (se si ferma) la loro promessa? Hanno promesso troppo loro o siamo noi che ci siamo caricati di aspettative nei confronti di questo ramo della scienza cognitiva? Nei momenti di interrogazione radicale, male non fa tornare agli autori cosiddetti imprescindibili. E Jean-Pierre Changeux è tra questi. Con pubblicazioni come L'uomo neuronale e L'uomo di verità (per Feltrinelli, la prima non più disponibile), Pensiero e materia (per Bollati Boringhieri), Ragione e piacere. Dalla scienza all'arte e Il bello, il buono, il vero. Un nuovo approccio neuronale (per Raffaello Cortina) o le altre incursioni artistiche come quella con Pierre Boulez e Philippe Manoury dedicata alla musica (per Carocci), lo scienziato francese, oggi ultraottantenne, rappresenta un passaggio obbligato per chi si sia detto anche solo una volta attratto da questo campo del sapere. Sempre per Carocci arriva un nuovo titolo di Changeux dedicato al bello, un leitmotiv di questi suoi ultimi anni di pubblicazioni e interventi. Il libro intitolato semplicemente Neuroscienze della bellezza (pp.  240, euro 21, traduzione di Francesca Ortu) vuole essere una sintesi del pensiero sin qui radunato attorno al bello, all'opera d'arte e anche al processo riguardante la sua creazione. Il titolo francese in realtà suona diverso, La beauté dans le cerveau, ed è più aderente ai contenuti del libro. Nel passaggio all'italiano, sembra sia prevalsa la volontà di schematizzare e incanalare questo testo dentro il solco delle neuroscienze sin dalla titolazione. Anche qui insomma - che non si creda che sia prerogativa dei libri Adelphi - c'è quella che Roberto Calasso chiamerebbe "l'impronta dell'editore". Iniziano ad essere molteplici le pubblicazioni che avvicinano arte, scienza e neuroscienze in particolar modo. Pensiamo anche a un libro come Neuroestetica. L'arte del cervello di Chiara Cappelletto, di qualche anno fa (per Laterza) o al libro del premio Nobel Eric R. Kandel Arte e neuroscienze uscito in Italia lo scorso anno (Raffaello Cortina Editore). Il binomio arte-scienza del resto ha un bel po' di secoli alle spalle, ormai. Le intelligenze rinascimentali di certo non scindevano scienza e arte come abbiamo imparato a fare più tardi, in modo forse esiziale. Questo volume di Changeux è quel libro che nasce quando un duraturo interesse dello scienziato per l'opera d'arte interseca il duro interesse per i meccanismi molecolari e la biologia del cervello. Tra le pagine di questo libro ibrido, che inizia con un'intervista di Ernesto Carafoli e prosegue raccogliendo o rivedendo anche scritti apparsi in altre sedi, ci sono diversi brani dedicati a Pierre Bourdieu, al quale Changeux era legato da un rapporto di profonda considerazione intellettuale.

Per gentile concessione dell'editore Carocci e grazie alla cortese collaborazione di Giancarlo Brioschi si pubblica di seguito un breve estratto dal libro, uno dei punti dove Pierre Bourdieu è ricordato da Changeux.


Ragioni e piaceri di una collezione*


Possiamo domandarci, sulla scia di Jacques Thuillier, se il collezionismo, questo singolare comportamento che ha cosi tanto rilievo nelle condotte umane, non dia accesso a «una delle forme più alte della cultura». I significati del termine “cultura” sono molteplici. Il primo, ovvio – ma simbolicamente molto forte –, fa riferimento all’azione di coltivare la terra per farla fruttificare. In senso figurato, si tratta dello sviluppo armonioso delle nostre facoltà intellettuali. La mia opinione e che la collezione costituisca uno degli strumenti più efficaci di sviluppo culturale e di progresso del sapere. Il termine “cultura” conserva anche l’accezione, ormai arcaica, di “culto”, “venerazione”. Storicamente e nel quotidiano, la collezione ha proprio una dimensione celebrativa riguardante tanto la raccolta selettiva dei pezzi che la costituiscono e la sua definizione in termini di patrimonio (di un individuo, un gruppo sociale, perfino di tutta l’umanità), quanto la presentazione – oserei dire l’ostensione – di questa raccolta, con un rituale che non ha nulla da invidiare alle cerimonie religiose. Infine, gli antropologi definiscono, con Marcel Mauss, la cultura nei termini di forme di comportamento acquisite nelle società umane.

Anche il collezionismo rientra dunque in questa definizione. I ricordi delle esperienze acquisite si perpetuano per tutta la vita nei nostri cervelli sotto forma di tracce neuronali stabili e possono anche trasmettersi da individuo a individuo, da cervello a cervello, in maniera epigenetica. Vi partecipano i gesti, gli atteggiamenti, il linguaggio. Ma tali ricordi possono anche persistere, e persino svilupparsi, al di fuori dei nostri cervelli sotto forma di artefatti più duraturi rispetto al nostro tessuto cerebrale deteriorabile. Ignace Meyerson (2000) annovera fra i tratti caratteristici dell’uomo la sua capacità di elaborare prodotti che differiscono da quanto si trova nell’ambiente esterno; questi prodotti sono globalmente indicati come “opere”, e rappresentano la testimonianza di forme di comportamento acquisite più esemplari e più stabili.
La collezione riguarda le “opere” nel senso inteso da Meyerson, ma a un ulteriore livello e culturale. In effetti, l’uomo – prosegue Meyerson – non si è contentato di fabbricare delle opere: ha avuto cura di conservarle. E aggiunge: «[L]’uomo ha inoltre valorizzato alcune opere conservate, le ha socializzate». E così che possiamo chiederci se la collezione non si situi alle origini stesse di un campo proprio alla specie umana: quello, qui un po’ inatteso, del sacro. Non è forse l’elemento fondatore del gruppo sociale che, testimonianza materiale dell’attività creatrice del nostro cervello, conferisce di rimando – attraverso quello che Ian Hacking (1995) chiama looping effect (effetto autoriflessivo) – un forte potere simbolico alla nostra attività cerebrale? La collezione permetterebbe al gruppo sociale di condividere significati immaginari e contribuirebbe cosi al consolidamento intersoggettivo del legame sociale, in qualche modo lo “renderebbe immortale” attraverso le generazioni successive sotto la forma del sacro.
La collezione sarebbe ancora qualcosa di più: un’eccezionale causa di progresso nell’evoluzione delle nostre società – progresso della ragione, chiaramente. Pierre Bourdieu (1997) scrive: «[I]l mondo e comprensibile, immediatamente dotato di senso, perché il corpo – che grazie ai suoi sensi e al suo cervello ha la capacità di essere impressionato e durevolmente modificato da esso – è stato a lungo (sin dall’origine) esposto alle sue regolarità». L’evoluzione genetica delle specie, la filogenesi, ha portato – a seguito di interazioni multiple con l’ambiente per variazione-selezione – alla costruzione della nostra architettura cerebrale, che ci permette un primo apprendimento del mondo, ne costituisce una prima “rappresentazione innata”. Questa evoluzione genetica passa il testimone all’evoluzione “epigenetica” delle mentalità e delle culture.
Le stesse opere conservate sotto forma di collezioni sono “rappresentazioni acquisite” del mondo. La possibilità di metterle a confronto offerta dalla collezione contribuisce al progresso di una conoscenza che diventa, come scrive Bourdieu, «un consenso primordiale sul senso del mondo» (ibid.). In altri termini, la conoscenza diventa oggettiva. La collezione è dunque alle origini del sapere scientifico e della sua diffusione? L’abate Grégoire l’aveva in qualche modo presagito con la creazione del Conservatorio di arti e mestieri. Possiamo dire che la collezione incorpora l’habitus e «restituisce all’agente un potere generatore e unificatore, costruttivo e classificatorio»? (ibid.). La collezione partecipa, da questo punto di vista, a due aspetti della cultura: il sacro e lo scientifico!  

* Pubblicato originariamente in Les Passions de l’âme. Peintures des xviiet xviiisiecles de la collection Changeux, catalogue de l’exposition, Odile Jacob, Paris 2006. La mostra si e tenuta nel 2006 a Meaux, al Musée Bossuet, a Tolosa, al Musée des Augustins, e a Caen, al Musée des beaux-arts.

© copyright 2018 by Carocci editore S.p.A., Roma
Per gentile concessione dell'editore

domenica 2 settembre 2018

"La metà di bosco" di Laura Pugno

Mi sembra che ci sia una sola cosa che non va in La metà di bosco, nuovo romanzo di Laura Pugno (Marsilio, pp. 144, euro 16): la copertina. Peccato per l'immagine, con quel verdino che è diventato un cavallo di Troia con cui si penserà di sfondare le porte dell'attenzione del frequentatore di librerie. La dominante cromatica di questo libro mi pare ben lontana da quell'acqua in foto. Dal successo di Paolo Giordano in poi, pare questo un colore imprescindibile nella palette dei grafici editoriali. Ma al di là della dominante cromatica, che come tutte le cose riguardanti i colori risente delle mode o dei casi di successo, mi sembra che quella a lato sia un'immagine ingiusta per invitare ad aprire, leggere, acquistare questo suo ennesimo bel libro in prosa. Forse si è cercata l'abbinata con la copertina del precedente romanzo di Laura Pugno, La ragazza selvaggia, sempre per Marsilio, ma il risultato stavolta mi sembra discutibile. Considerando poi come copertina anche le bandelle, in quella di sinistra il protagonista del romanzo Salvo Cagli (nome e cognome che costituiscono incipit, prime due parole del narratore) diventa inspiegabilmente, o forse per eufonia, "Salvo Calvi". Insomma, dal cognome di un pittore - Corrado Cagli - le cui opere potrebbero avere persino qualcosa a che fare con le atmosfere di questo libro, si passa a un cognome di un importante banchiere, per stare alle prime associazioni. Misteri delle lavorazioni della filiera editoriale o una normalissima disattenzione? Peccato, perché i nomi in questo romanzo contano molto e il protagonista si chiama curiosamente Salvo. 

Il lieve disappunto sulla copertina, chiaramente del tutto personale, s'accresce in realtà nella constatazione della piena riuscita di un altro romanzo di Laura Pugno. L'autrice unisce caratteristiche rare: tenuta della tensione per tutta la narrazione, costruzione a sbalzi di scene che alternano un'apparente normalità al perturbante. La fisicità del protagonista si avverte in ogni momento. E ci viene il torcicollo a spostare la nostra testa di qua e di là, a inseguire gli enigmi e la profonda interrogazione che riguarda sia la trama delle relazioni tra i personaggi sia quello che un tempo si sarebbe chiamato "il messaggio" dell'opera. In questo caso, tale messaggio sembra lambire le coste di una riflessione sul rapporto con i morti (più che con la morte) oppure le trasformazioni moderne di certi miti sui morti in superstizioni, credenze. Eppure non c'è un giudizio negativo stavolta nel parlare di superstizioni e credenze. E non a caso l'ambientazione è un'isola greca, anzi due isole greche minori, Halki (esistente) e Krev (inventata), separate da un braccio di mare stretto ma inquietante, vicine a Rodi ma lontane dai flussi vorticosi del turismo insulare greco estivo. Quest'ambientazione lavora in contrasto con il capitale simbolico di quei luoghi, mostrandoli avvolti da una crisi ancora profonda che li tiene separati dal resto del mondo, persino nelle telecomunicazioni. Insomma, è una Grecia che pare regredire in un antico primitivo, anche se i protagonisti si nutrono spesso di moderne scatolette di tonno gocciolante. Il narratore dissemina segnali e avvertimenti di inquietudine, crea due tipi di suspense nella scrittura, una di lungo corso che non è destinata a sciogliersi nemmeno con un finale normalissimo e rassicurante, e una di più breve passo che è destinata a risolversi, talvolta però solo per finta, nel giro di qualche pagina o addirittura all'inizio del capitolo successivo.

Salvo Cagli è un medico dell'Unità del sonno di un ospedale romano e, ironia della sorte, soffre di insonnia. Il suo è probabilmente solo burnout. Partito per una lunga vacanza ristoratrice, arriva prima a Rodi e poi si dirige verso Halki con una nave cisterna di fortuna. Qui sembra risolvere subito il suo problema col sonno e qui ritrova dei conoscenti che lo ospitano in una casa dove si affezionerà a una coppia di ragazzini, Nikos e Cora. Salvo è separato e la mancanza di sua figlia Lili pare insinuarsi nella proiezione verso Cora. Il suo è anche un ritorno ai luoghi dei viaggi dell'infanzia e dell'adolescenza, ma c'è ben poco da ricordare di quelle vacanze giacché tutto è mutato. La sua avventura pare presto trasformarsi in disavventura. La morte di Cora infatti è origine di una serie di eventi e movimenti che lo portano in situazioni di pericolo e al limite, all'interno di un set che lo vede fare la spola tra la più popolata Halki e la misteriosa isola di Krev, dove insiste la "metà di bosco" del titolo e sulla quale indugiano vecchie superstizioni e leggende che sembrano inverarsi. Attorno, tra i diversi profumi o lezzi del fico, si muovono sciami di api selvatiche e uno sciame di personaggi altrettanto enigmatici, che sembrano vivere di reticenze o di conoscenza mai condivisibile del tutto. E tra questi, bisognerà almeno citare la trentenne Magdalini, madre di Nikos, alla sua seconda maternità secca e silente, e il potente compagno tedesco di lei, che si sta comprando isola e isolotti. Senza rivelare troppo di un romanzo assai breve, si potrà dire che la morte di Cora, una morte non definitiva, transitoria, diventa il motore di una storia che ci porta, coi mezzi della letteratura, nei territori dell'incontro con chi è scomparso, ovvero in quei territori dove solamente col sogno ci è dato talvolta di addentrarci. In realtà la letteratura non è nuova a questi incontri, ma il punto di vista di Salvo porta il lettore a un duello quasi sfibrante tra razionalità e sogno, e conferisce alle allucinazioni una cittadinanza onoraria nella prosa. E proprio qui mi sembra che La metà di bosco offra il meglio di sé. Insomma, copertina a parte, è questo un altro importante libro dell'autrice di Sirene (libro con cui, tra l'altro, quest'ultimo lavoro presenta rinvii significativi).