lunedì 23 luglio 2018

"Nulla sanno le parole" di Daniela Gentile

Le parole nella scrittura sono spesso invocazioni di assenze. Parole come "cuore" o un verbo sovente evitato come la peste dai poeti come "coccolare" oppure "ortensie", occorrenza rara nel florario poetico, evocano delle assenze, tutte le assenze che quella parola in quel dato punto del testo è, incrocia, come un fascio di infinite rette che per quel punto passano. La stessa soma umana vive tra limiti definiti la propria trasmutazione nell'arco della vita, e ogni tanto è proprio la poesia a fornirle l'impressione dell'esattezza di ciò che non è subito comprensibile, il senso di un controllo, ritmato e respirato, di un senso che sfugge. Questa premessa per dire che Nulla sanno le parole, titolo che in copertina poggia sopra Transmutation, opera del 2014 di Pierpaolo Miccolis, non introduce esattamente a una sfiducia del linguaggio, come se fossimo di fronte a una nuova Lettera di Lord Chandos. È titolo esatto e imbroglione ad un tempo, e alla rilettura pare che quel "sanno" assomigli di più al "can" inglese. Se qualcosa di questo sfiora la natura dell'opera, allora viene da domandarsi dove si colloca lo statuto ontologico (e pragmatico) della parola "che nulla sa", dal momento che stiamo parlando di un libro di poesia che notoriamente di parole e di linguaggio è fatto e per essere più precisi stiamo parlando del libro che costituisce l'esordio di Daniela Gentile (Pietre Vive Editore, pp. 64, euro 10). Il suo testo inaugurale, l'unico che ricorre a versificazione, parte da una frase ipotetica per parlare proprio della parola e del suo stare prossimo all'azione: "Se la parola è un evento / e se solo le azioni, le virtù fanno di noi / qualcosa di simile al ricordo / allora basti scrivere in poesia / le viltà del nostro amore / le gesta eroiche del gatto, in soggiorno / tra le orchidee ancora al sole / il pudore delle comete / la notte in cui ci siamo allontanati." È un testo che ben introduce al carattere eventuale di qualsiasi parola e anche all'atmosfera del libro, che scopriremo saldata in un'intimità irredenta che suona remota, esasperata, quasi un percorso di funambolo su una relazione tra due punti che ci appare risolta e irrisolta al tempo stesso, nella quale possono convivere tenerezza e ferocia ("Lo stoicismo ha chiesto a noi armi troppo potenti contro il buio" si legge in "Servabo").

Il rimando alla Lettera di Hugo von Hofmannsthal è deliberato per un libro che, proseguendo nelle successive sei sezioni di prose poetiche, assume spesso i toni dialogici di una lettera, con un io e un tu che non sono quelli cristallizzati da una tradizione lirica segnatamente novecentesca, ma che semmai, anche nei modi arguti e spesso sorprendenti, nel dilagare-divagare-distanziare persino ingannevole dei pronomi personali e delle situazioni si rifanno a quei ragionamenti e a quel conversare che si trova in alcuni componimenti di Roberto Amato. Ad esempio, nella già citata "Servabo" si passa dall'inverno, alle inadempienze, allo sciopero, a dei fiori a una rivoluzione persa in poche righe, per finire ancora sulla parola "cuore". Rispetto alla poesia e alla prosa del poeta di Viareggio, di cui si recupera il senso di un tentativo di comunicazione scaraventato sul linguaggio e dal linguaggio sempre depistato, c'è in queste pagine un incedere che pare però già precluso alla comprensione, come se questo libro contenesse e facesse esplodere soprattutto un passato (ma "Il passato, da pochi minuti, è solo remoto" e "La vita è così puntuale, dopo di te"), l'intimità irrisolta e una rotativa di immagini e scrittura che ha compiuto la sua orbita di ellissi e di mancanze colpevoli. Quel "qualcosa di simile al ricordo" di cui ci avvisa programmaticamente il primo testo diventa il vertice di un triangolo che aderisce alla struttura intima dell'opera, data da parola-ricordo-possibilità e dall'inganno e imbroglio che questo triangolo instaura continuamente sull'esistenza. E oltre a questo, camuffato nei toni, c'è persino un nucleo di bestialità che rimane impermeabile e intatto, eppure attratto/attraente, sfiorato impietosamente proprio dalle parole, per digressioni continue che si approssimano al nucleo. Mi pare risieda nell'alternanza di toni carezzevoli e in fondo impietosi una caratteristica saliente e nuova di questi testi, e bisognerà dirci che non è vero che tutto debba passare per un ripensamento e rivisitazione della pietà, tantomeno in poesia:

ZABAIONE DI STENDHAL

Abitare lungo il fiume, dicevi, sarebbe stato pericoloso.
Non ci avrebbe dato tregua, del resto, il rumore dei battelli, degli uccelli o la tentazione di affacciarci alla finestra per scorgere i diversi colori della luce sull’acqua, sotto i ponti.
Ti perseguitava la voce intatta delle lettere: quale ricordo valga la pena di raccontare di te, il tempo che scorre, la pioggia che batte.
Avevi fretta di andare. Il fiume trascina, straripa, inonda i nostri libri e cancella le navi pronte per ogni tempesta: scavare pozzi, fondare città,
sentirsi a casa nella tua assenza.

C'è una sensazione abbastanza netta che affiora proseguendo nella lettura, nella trama del testo che "spinge avanti" chi legge verso la fine del libro: che qualcosa sia già avvenuto e che la scrittura si sia messa al servizio per rielaborare questa porzione di vita. Un punto però è anche questo: si tratta davvero di una porzione di vissuto che viene racchiusa ermeticamente e così rielaborata, oppure vi è un'immanenza di quanto è accaduto, di quello che continua a stare nelle ombre incoerenti e lunghe del linguaggio, della parola? O di quanto continua a posarsi nella porosa membrana che si crea tra memoria e lingua? ("Si slaccia troppo presto l’assenza e diventa identità perfettibile di segni, prefissi obbligatori per l’aldiqua.") L'intertestualità, come noto, è prerogativa di qualsiasi opera di scrittura e già dai passi riportati si comprende come questo libro affondi nell'intertestualità, quella caratteristica che dice la differenza tra l'imitazione e il copiare consapevole (e chiaramente la poesia e la letteratura in genere, da sempre, hanno perlopiù a che vedere con quest'ultimo). Ogni opera si colloca e si definisce in relazione ad altre e anche le possibilità dell'innovazione vivono a stretto contatto con una tradizione. Il carattere eventuale della parola si situa anche in queste considerazioni. In Nulla sanno le parole l'intertestualità non è data solo da un attacco che dice "Avevamo studiato per l’aldilà un sistema per ignorarci" ma anche da rimandi ai testi di formazioni musicali come Massimo Volume ("Avevi fretta di andartene"/"Avevi fretta di andare") o Afterhours ("Hai paura del buio?"/"Hai paura del buio, tu?"). Appare come un'intertestualità che defluisce in più tempi, anche nel latino della citata "Servabo", di "Realia", "Vera", "Sidera", "Nihil admirari", "Pro memoria" o "Lacrimae rerum" oppure nelle lingue straniere di "Afterglow", "Mind the Gap" o "Pierrot le fou". 

Questo libro che a dispetto di una vaghezza che punta continuamente a un'intuizione silenziosa è invece costruito statisticamente sulla reggenza e preponderanza degli articoli determinativi davanti ai nomi, raduna plurimi immaginari (classico, letterario, botanico, meteorologico, astronomico, fisico), prova a comprenderne la possibile reazione a partire da situazioni che ripiombano nell'immediato stretto, nel dato improvvisamente precipitato nel testo, per rimbalzare su comete o ragionamenti interstellari, oppure sulla radiazione della "Legge di Wien", a partire da una situazione ricordata. A far da legante dell'impasto è però l'immaginario dato dalla linguistica stessa - in modo paradossale se torniamo al titolo dell'opera - con un interesse e una curiosità che potrebbe ricordare quella di un "botanico delle grammatiche" (il conio è zanzottiano). Di qui si accolgono i titoli delle sezioni o di singoli componimenti che ci parlano di "Neutro plurale", di "Discorsi indiretti" oppure di "Vertere", testo in cui l'esercizio della traduzione è visto in parallelo a uno sfaldarsi di gesti quotidiani, in un crescendo di riguardo "per l'eccezione alla regola da sempre studiata". In un componimento come "Gravitazionale" l'elastico tra cosmico e caffè si schianta su una riflessione sul tempo che parla alla prima persona plurale divellendola proprio nell'istante in cui la invoca (in queste soluzioni è la lirica che torna finalmente centrale in qualsiasi discorso). 

GRAVITAZIONALE

Basta così poco per superare le stelle, la loro fissità.
Siamo pianeti con anni luce alle spalle, nel buio, che raccolgono carezze non date, polvere interstellare, qualche cometa.
Ma gli universi sono tanti, mi imbecchi, e fin troppo il buio per poterti telefonare, parlare ad occhi aperti, usare dello zucchero nel caffè.
Non avrà tempo il tempo di scorrere equamente per noi due. Sempre, sempre ti ripetevo.
Poco, forse niente, si cura con il vuoto, dopo il Big Bang.

La proposizione finale crea un'eco interna con il primo verso del libro "Poco, niente, concede a noi / il tempo, nelle vite degli altri." È una spia tra altre della coesione di questo libro, che non si preoccupa molto degli stili correnti e per per molti versi si dimentica perfino dell'ossessione per uno stile. Più che allo stile, questa appare come un'opera di esordio interessata alla decifrazione che possa consentire la speranza. Nel suo intrecciare a punto maglia più immaginari, Nulla sanno le parole è tenuto assieme da una nota dolente della memoria, tanto da concludersi, nell'ultimo testo intitolato "Lacrimae rerum", con i due punti e non con altri segni ("Alcune cose, più di altre, fanno male alla memoria:"). Due punti aperti alla fine e al vuoto, a segnare il confine di un ciclo che non si chiude, ma che potrebbe riaprirsi a ogni passo identico a quello appena chiuso da queste parole (per un punto passano infinite rette, per due punti una soltanto...). E il ricorrere della prima persona plurale in questi testi è un altro aspetto propenso all'imbroglio, in un libro che, nella sua danza placida tra pronomi, agita invece una meditazione sulla quota personale di redenzione alla quale si può provare ad ambire.


Nessun commento:

Posta un commento