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L'intervista che segue è, ad esempio, uno dei motivi che mi fa tenere accesa la fiammella di un blog simile. Se aver creato questo spazio significa oggi lasciare spazio a una pluralità di esperienze e non a un narcisismo-da-social-network fine a se stesso allora sono contento. E sono quindi felice di ospitare Cristina Babino, marchigiana, residente in Francia ad Antibes. Qualcuno forse l'avrà incrociata per La donna d'oro, il suo libro del 2008 uscito da peQuod, laddove affrontava il percorso artistico di Tamara de Lempicka. Ora la ritroviamo in veste di traduttrice di un poeta misteriosamente mai "volto" in Italiano: John Taggart. Buona lettura dell'intervista e dell'assaggio di poesia riportato in fondo. Cristina Babino cura il blog La cugina Argia dove potrete trovare informazioni più diffuse sulle sue attività.
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LB: Come nasce l'idea di tradurre Taggart e concretamente
come si sviluppa la collaborazione con le edizioni L'Arca Felice per la
plaquette che è uscita?
RISPOSTA: Avevo già tradotto, qualche anno fa, alcuni testi di John
Taggart, pubblicati poi sulla rivista Le
Voci della Luna. All’epoca le poesie
di John non erano mai state tradotte in italiano, e il mio voleva essere
proprio un modo per iniziare a colmare una notevole mancanza e contribuire a
introdurre la conoscenza della sua opera nel nostro Paese. La collaborazione con l’Arca Felice è nata attraverso una
comunicazione via mail in cui mi si informava della nascita, in seno a questo
editore, di una nuova collana di plaquette di arte-poesia curata da Mario Fresa
e chiamata Hermes (poeti tradotti da poeti).
Ho colto l’occasione e ho contattato Fresa per proporgli una breve suite dal
titolo Car Museum, estratta da uno
dei libri più recenti di John Taggart, Pastorelles,
uscito negli Stati Uniti nel 2004. Devo ringraziare Mario Fresa per la sua
lungimiranza e l’editore Arca Felice per
la grande apertura e disponibilità, dimostrandosi aperti a pubblicare - senza conoscermi personalmente e solo
attraverso la mia presentazione e il mio lavoro di traduzione - un autore che, nonostante sia uno dei più importanti e
influenti poeti americani viventi, è ancora praticamente sconosciuto in Italia.
Ne è nato un bellissimo oggetto d’arte, piccolo ma prezioso ed estremamente
curato, arricchito da una fotografia fuori testo di Jennifer Taggart, moglie di
John e grande fotografa. A tutt’oggi le mie traduzioni da Taggart restano le
uniche presenti in Italia. Cosa che continua a lasciarmi molto stupita, data la
mole, a livello sia di qualità che di quantità, della sua produzione poetica, ma anche critica e saggistica.
Pastorelles, 2004 |
RISPOSTA: La poesia di Taggart può talvolta risultare ad una prima
lettura relativamente “semplice” e diretta, specie le sue opere più recenti; in
realtà la sua scrittura è tutt’altro che “facile” ed è stata profondamente
influenzata dall’opera e dal pensiero di poeti Oggettivisti quali Louis ZukofskY
e George Oppen, cui del resto Taggart ha dedicato in ambito accademico una
lunga serie di saggi critici. Tutto quello che in Taggart può sembrare oggi un
verseggio di fruizione tutto sommato immediata è in realtà frutto di un
percorso stilistico coraggioso ed eccentrico, oltre che di una lunga
meditazione teorica e di una progressiva statificazione di senso che può essere
scoperta e apprezzata in pieno soltanto lettura dopo lettura, tali e tanti sono
i rimandi – quando non le citazioni dirette - alla musica, alla letteratura,
all’arte visiva, solo per citare i campi in cui il poeta si muove con più
disinvoltura. Anche un testo come Car
Museum appare abbastanza chiaro e diretto (nonostante contenga anch’esso
delle citazioni nascoste): in effetti esso è tratto dal volume Pastorelles,
del 2004, che segna in un certo senso un’inversione di tendenza nella produzione
di Taggart, caratterizzata sino all’uscita di questa raccolta da un ricorso
prepotente e costante allo strumento della ripetizione e da un’attenzione quasi maniacale alla resa sonora della
parola scritta, alla sua intrinseca valenza “musicale”. Pastorelles è il risultato del tentativo di Taggart di uscire in qualche
modo dalla logica della ripetizione come cifra stilistica, quasi una “firma”
immediatamente riconoscibile, per tentare una nuova strada che non fosse quella
sicura e dominata con sicurezza fino a quel momento (una scelta che gli ha
valso anche critiche e resistenze). Per
questo la scrittura di Pastorelles può
essere percepita come maggiormente “familiare” all’orecchio di un lettore
rispetto alle sue opere precedenti, che non di rado posso risultare persino
ostiche e di lettura faticosa (penso ad esempio a certi suoi esiti degli Anni
Settanta). Pastorelles unisce questa
precisa volontà di rinnovamento poetico alla necessità di raccontare in versi
l’esperienza della vita nella campagna della Cumberland Valley, in
Pennsylvania, terra di Amish e di tradizioni antiche e radicatissime, dove da
diversi anni Taggart si è stabilito. La maggiore “familiarità ” dei testi riuniti
in questa raccolta mi ha spinto a sceglierli per avvicinarmi all’opera di traduzione
di un autore poco o per nulla conosciuto in Italia. Le difficoltà comunque mancano, proprio per la
qualità essenzialmente musicale della versificazione di Taggart:
difficilissimo, se non impossibile, riprodurre in una lingua altra la ricerca
di sonorità dell’originale, la sua attenzione all’indissolubilità del nodo
suono/senso, mantenendo però anche una salda fedeltà al significato delle
parole scelte. Un equilibrio ben
difficile da conservare, che costringe spesso a privilegiare un aspetto sull’altro,
cercando comunque il più possibile di non allontanarsi troppo dalle intenzioni
originarie dell’autore.
Steve Reich |
RISPOSTA: L’antologia ricapitolativa della sua opera , uscita
recentemente negli USA, s’intitola Is Music: in effetti la poesia di Taggart
non è semplicemente “musicale” o attenta alle sonorità, la poesia di Taggart è essa
stessa “musica”, come già disse George Oppen a questo proposito. Ogni sua
parola anzi, specie quando viene ripetuta - spesso fino all’ossessività nei
suoi testi più datati – viene scelta cercando di ricreare attraverso la
scrittura poetica certi andamenti del jazz - genere amatissimo e frequentato da
Taggart in ogni sua espressione - la ripetitività appunto legata
all’improvvisazione, o ancora le battute sincopate e frante del Rhythm and Blues. Non è un caso del
resto che in molti dei suoi libri un’avvertenza dell’autore indichi che il
lettore potrà godere maggiormente dei testi se letti a voce alta. L’importanza
fondante del suono, dell’oralità, la qualità perfino ri-creativa della lettura
operata sulla pagina scritta è uno delle componenti essenzali per comprendere e
apprezzare a fondo la poetica di Taggart. La ripetizione, nelle intenzioni
dichiarate di Taggart, è funzionale al lettore per penetrare in profondità nel
testo, obbligandolo a indugiare sulle singole parole, assaporandone le
peculiari sonorità, riscoprendone a ogni respiro la commistione profondissima tra suono e
significato. La lettura ad alta voce
coinvolge il lettore in modo molto più completo, lo rende maggiormente
partecipe dell’esperienza poetica rispetto alla semplice lettura silenziosa: se
la voce è qualcosa di interiore che esce da un luogo interno (il corpo) e che,
attraverso un mezzo esteriore (l’aria, lo spazio) entra in un’altra interiorità
(l’orecchio e la mente del ricevente), l’uso della ripetizione - che non è mai
un mero ripetere le stesse parole, ma piuttosto un procedimento progressivo di additive rhythm, rintracciabile anche nelle
composizioni di musicisti quali Philip Glass e Steve Reich, come anche
nell’opera dell’amatissimo jazzista John Coltrane - favorisce questo processo,
aiutando a cristallizzare nella mente i gangli di senso/suono costituiti dalle
parole sapientemente scelte dal poeta.
Se poi l’intera sua produzione è attraversata da
innumerevoli riferimenti trans-disciplinari (non a caso Taggart è stato a lungo direttore del Dipartimento di Studi
Interdisciplinari alla Shippenburg University), che spaziano dalla filosofia
alla botanica, dalla vita rurale al greco antico, dal cinema alla musica
classica, dai testi biblici (il padre di Taggart era un pastore protestante)
alla letteratura americana, è nelle arti visive – insieme all’imprescindibile
musica jazz – che Taggart trova spesso il terreno più fertile per la sua
ispirazione. Penso alla recente serie di testi ispirati agli Angeli di Kitaj, o alla sua lettura
critica della luce nelle tele di Edward Hopper, ma soprattutto all’opera di
Mark Rothko, profondamente amata da Taggart, tanto da aver passato un’intera
settimana all’interno della Rothko Chapel a Houston, Texas, per studiare le
quattordici grandi tele dell’artista lì custodite. Da questa intensa esperienza
di studio e meditazione è scaturita quello che è forse il testo più noto di
Taggart, The Rothko Chapel Poem
(pubblicato nella raccolta Loop del
1991). All’artista di origini russe Taggart aveva già dedicato Slow
Song for Mark Rothko (contenuto nel volume Peace on Earth del 1981). In entrambe le composizioni è evidente
come l’uso massiccio ma sempre controllato della ripetizione tenda a ricreare
attraverso la parola la stratificazione tipica delle tele di Rothko, la
sovrapposizione di più livelli di colore (tanto che in Rothko il concetto
stesso di astrazione viene superato, per diventare pittura “d’espressione”,
sfuggente a qualsiasi classificazione). Come la pittura a strati di Rothko
attrae l’occhio dell’osservatore e lo trascina nelle profondità più nascoste del
colore sulla tela, così la ripetizione è funzionale a Taggart per conseguire lo stesso risultato, traducendo per
mezzo della parola la medesima ricerca di coinvolgimento e com-partecipazione dell’altro
nel processo di comunicazione artistica e poetica.
Monsanto, Portogallo (foto dal blog di Cristina Babino) |
RISPOSTA: Ho conosciuto John Taggart nel 2007, in occasione
dell’International Meeting of Poets organizzato con cadenza triennale dal
Dipartimento di Studi Anglo-Americani dell’Università di Coimbra, in
Portogallo. Un’esperienza per me
fondamentale, che mi ha permesso di conoscere e confrontarmi con poeti
provenienti da ogni parte del mondo, più o meno affermati e con alle spalle
pubblicazioni più o meno numerose. E’ stato un incontro profondamente
arricchente per me, che mi ha permesso di consolidare la mia conoscenza del
panorama della poesia contemporanea internazionale e soprattutto di instaurare
rapporti di amicizia con alcuni dei poeti partecipanti, rapporti che nel tempo
si sono consolidati e hanno portato a diverse collaborazioni. In particolare,
per una questione di “affinità elettive” e sicuramente anche per una questione
di lingua, ho stretto rapporti con Jonathan Morley, uno dei maggiori poeti
inglesi della nuova generazione, e appunto con John Taggart. Insieme a John,
l’anno successivo, nel 2008, ho la fortuna di passare un mese intero di
contatto quotidiano, in occasione della nostra comune partecipazione a un programma
di Poets in Residence, organizzato sempre
dall’Università di Coimbra. Ad eccezione
della settimana passata a Coimbra per le nostre letture e seminari al
Dipartimento di Studi Anglo-Americani, per il resto del tempo abbiamo
alloggiato in una casa in pietra a due piani in uno sperduto e bellissimo paese del Portogallo profondo, Monsanto, al
confine con la Spagna. Era inverno e,
per quanto il posto fosse affascinante e unico, non si poteva fare altro se non
passeggiare in quello splendido paesaggio montano-rurale (tempo permettendo),
leggere o scrivere, e chiacchierare. John è un affabulatore piacevolissimo e
instancabile, una miniera di storie ed esperienze, quindi le nostre lunghe chiacchierate
sono state una delle cose che ricordo con più piacere di quella esperienza.
Direi che nel mio caso il rapporto diretto e l’amicizia
con l’autore siano stati fondamentali. Anzi, considerando proprio la complessità
della sua opera, se non avessi avuto modo di conoscere personalmente John e di avvicinarmi alla sua poesia di prima mano
non mi sarei probabilmente avventurata sul sentiero della traduzione. Che è sempre un terreno
accidentato, e nasconde insidie ad ogni verso, specie quando si tratta di una
poesia stratificata e complessa come la sua. Potermi confrontare direttamente
con l’autore mi permette però di fugare qualsiasi dubbio io abbia sui testi e
di soddisfare qualsiasi curiosità riguardo la sua produzione o la sua
biografia.
Rachel Blau DuPlessis |
RISPOSTA: Senza dubbio. Per la rilevanza e la mole della
sua opera poetica - dagli Anni Settanta ad oggi ha pubblicato una quindicina
libri di poesia, oltre a una serie sterminata di saggi e contributi critici - per
l’impotanza della sua carriera accademica e per l’influenza che ha esercitato
ed esercita sulle ultime generazioni di poeti americani, in Italia Taggart
dovrebbe essere ospitato nelle collane di poesia contemporanea dei grandi
editori già da un pezzo. Purtroppo non è ancora così. Ma nel mio piccolo sto
facendo del mio meglio per far conoscere la sua poesia nel nostro Paese. L’interesse
che ha suscitato la pubblicazione di Car
Museum ha portato a una nuova collaborazione con la casa editrice Vydia di
Macerata. Grazie ad Alessandro Seri, che ne è il direttore editoriale e cura la
nuova collana di poesia Licenze – per
la quale è appena uscita, con l’ottima traduzione di Renata Morresi, il volume Dieci Bozze della poetessa americana
Rachel Blau DuPlessis (anche questa una prima assoluta in Italia) - abbiamo in programma per la fine di quest’anno
di pubblicare l’intera raccolta Pastorelles
in traduzione italiana con testo originale a fronte. Dopo il piccolo ma significativo “l’esperimento” riuscito
grazie ad Arca Felice, considero questa prossima pubblicazione con
Vydia un risultato veramente importante, che va finalmente a colmare, con la
prima traduzione integrale di un’opera di John Taggart, una grave lacuna nella
diffusione della poesia straniera contemporanea in Italia.
Il testo tratto da Car Museum qui di seguito riprodotto è stato pubblicato dalle Edizioni L'Arca
Felice nella plaquette di arte - poesia John Taggart, Car Museum, cura
e traduzione di Cristina Babino, all'interno della collana Hermes curata da
Mario Fresa, Salerno, 2012. (Mi scuso per la dimensione della font rimpicciolita con cui riporto i testi seguenti, ma tale espediente mi consente di garantire gli a capo, perlomeno in schermi di medie dimensioni. Le tecnologie fluide di visualizzazione odierne infatti decidono da sole gli a capo. L'alternativa era usare le barre per separare i versi. Un bel problema per il futuro della poesia a schermo: che Ungaretti avesse già previsto tutto?)
1
Queste sono le automobili
Auburn e Cord e Duesenberg
rare
macchine di rara eleganza
e questo è il ritorno a casa in Indiana
raro
inspiegabile
museo già sala d’esposizione e fabbrica centrale
su una strada di provincia come le strade
dove sono cresciuto vagabondo fuggitivo e giovane gentiluomo ribelle dall’Indiana
da città di provincia come questa città
o da interruzioni o da piccole interruzioni nei campi
monotonia dei campi
non ricordavo quest’intollerabile monotonia.
2
Auburn 852 Speedster color mela candita
la griglia a forma di scudo leggermente reclinata all’indietro non lo scudo di Achille
reclinata all’indietro nella lunga linea pianeggiante del cofano
tubi di scappamento cromati
sporgono da ciascun lato
del cofano
spazio solo per due dietro la griglia il cofano i tubi di scappamento
Cord 810 Beverly Sedan color uva
fari nascosti
in parafanghi curvati a s sporgenti
dal corpo inclinato curvato aerodinamico voluttuosamente aerodinamico
Duesenberg J Murphy Torpedo Decappottabile Coupé nera
parte improvvisamente
minima
poppa improvvisamente appuntita
torpediniera nera che lascia una minima percettibile scia
nel mare dell’amore o strada di campagna quando scende la sera.
3
Senza memoria non c’è protezione
dalla monotonia di tutti i campi innegabile imprevista
insopportabile
non più un bambino o ragazzo
da un altrove che doveva andare altrove doveva e
deve
via dai campi
inspiegabile in nessun
capitolo tra i capitoli in carta lucida di arti e idee
L’Indiana si può spiegare
le automobili no
forse l’eleganza non si può mai spiegare
il bambino o ragazzo non poteva sapere di automobili non se ne trovavano per le strade allora
forse la ribellione è l’inconsapevole ricerca dell’eleganza.
1
Queste sono le automobili
Auburn e Cord e Duesenberg
rare
macchine di rara eleganza
e questo è il ritorno a casa in Indiana
raro
inspiegabile
museo già sala d’esposizione e fabbrica centrale
su una strada di provincia come le strade
dove sono cresciuto vagabondo fuggitivo e giovane gentiluomo ribelle dall’Indiana
da città di provincia come questa città
o da interruzioni o da piccole interruzioni nei campi
monotonia dei campi
non ricordavo quest’intollerabile monotonia.
2
Auburn 852 Speedster color mela candita
la griglia a forma di scudo leggermente reclinata all’indietro non lo scudo di Achille
reclinata all’indietro nella lunga linea pianeggiante del cofano
tubi di scappamento cromati
sporgono da ciascun lato
del cofano
spazio solo per due dietro la griglia il cofano i tubi di scappamento
Cord 810 Beverly Sedan color uva
fari nascosti
in parafanghi curvati a s sporgenti
dal corpo inclinato curvato aerodinamico voluttuosamente aerodinamico
Duesenberg J Murphy Torpedo Decappottabile Coupé nera
parte improvvisamente
minima
poppa improvvisamente appuntita
torpediniera nera che lascia una minima percettibile scia
nel mare dell’amore o strada di campagna quando scende la sera.
3
Senza memoria non c’è protezione
dalla monotonia di tutti i campi innegabile imprevista
insopportabile
non più un bambino o ragazzo
da un altrove che doveva andare altrove doveva e
deve
via dai campi
inspiegabile in nessun
capitolo tra i capitoli in carta lucida di arti e idee
L’Indiana si può spiegare
le automobili no
forse l’eleganza non si può mai spiegare
il bambino o ragazzo non poteva sapere di automobili non se ne trovavano per le strade allora
forse la ribellione è l’inconsapevole ricerca dell’eleganza.
Mark Rothko, 1950 |
- un link da dove si può vedere un'anteprima di Is Music, una delle principali raccolte ordinabili anche in Italia;
- qui trovate invece un archivio di mp3 con poesie e altri materiali recitati dallo stesso Taggart;
- e per concludere, come mi capita a volte, una segnalazione video di un Taggart che legge all'Università di Berkeley (a partire dalla mezz'ora circa, il video è molto lungo).
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