domenica 29 aprile 2012

"Sanjut de stran" di Luciano Cecchinel





burigòt de nòt

in tra i mur sbieghi e i piói che i picoléa
va entro ’ncora la luna
ma i burigòt i se cen
la so coltrina de scur:
sol che ’n slùer in cao tant,
òci de gat in tel fis

ma de sbris se vet un cofà ciòc
podarse a ’n mur, snaar l’aria in traza:
pena de là de ’n canton na pòrta
la buta fòra an rui de lus cròta
e te busnar sordi
scainar de besteme

relòjo mai stuf de ’n tènp ndat
i travi e le piere i scròca;
tel scur fa pégola
sol che i gat e ’l ciòc
i sarà bòni de ’ndar pian pian
ndé che i sa, ’ndé che i ol

(diroccamenti di notte: tra i muri e ballatoi che pencolano / entra ancora la luna / mai i diroccamenti si tengono / la loro coltre di buio: / solo un rilucere ogni tanto, / occhi di gatto nel fitto // ma di straforo si vede uno come ubriaco / appoggiarsi a un muro, fiutare l’aria in traccia: / appena al di là di un angolo una porta / vomita un ruscello di luce malata / e tra brontolìi sordi / guaìti di bestemmie // orologio instancabile di un tempo andato / le travi e le pietre crocchiano; / nel buio come pece / solo i gatti e l’ubriaco / riusciranno ad andare pian piano / dove sanno, dove vogliono)

Sanjut de stran (Marsilio, pp. 160, euro 12,50, con la ricca prefazione di Cesare Segre) è un libro composto in larga parte dal 1989 al 1998, ma già iniziato sul finire dei Settanta. Nella vicenda dell'autore segue quindi Al tràgol jért (I.S.Co 1988 e poi per Scheiwiller 1999), il volume in dialetto che ha fatto conoscere ai più la traccia della strada da strascino di questo poeta veneto spesso appartato ma che oggi, a tutti gli effetti e affetti del lettore di poesia, si colloca ai vertici della poesia italiana contemporanea. Il profondo e largo carotaggio della prefazione di Segre sta a testimoniare proprio il tentativo di puntare fermamente il dito verso i rilievi più importanti dell'orografia poetica italiana, visto che da subito Segre avverte che "con Cecchinel siamo al livello più alto della poesia". In quel primo, fondamentale libro fu importante la presentazione di Zanzotto, sia per quello che effettivamente diceva (nel capitolo dei poeti-critici Zanzotto critico è grande tanto quanto il poeta, molto più innovativo e "creativo" di Montale, ad esempio), sia per quello che significava quel sodalizio tra i due autori delle Prealpi trevigiane. Zanzotto ha spesso abbozzato la cartografia degli autori a lui vicini, si pensi ai confronti con Rigoni Stern, alle diversità rilevate tra i due boschi, quello di Asiago e quelli del “quadrilatero” zanzottiano che aveva come vertici Asolo, il Montello, a est Pordenone e il “nord sbarrato dalle Alpi” e il cui centro ideale ricadeva così nella città di Conegliano (nella pittura di Cima?). Così Zanzotto ha registrato subito le isoipse della poesia di Cecchinel, di quel paesaggio di luce obliqua tra i laghi di Revine, poco distante da Pieve di Soligo. Altri libri importanti, in italiano, o parzialmente in italiano, si sono aggiunti in questi anni ultimi, dall'einaudiano Lungo la traccia (2005) a Le voci di Bardiaga (2008). Proprio quest'ultimo libro del 2008 potrebbe costituire un suggerimento di lettura in giornate di festività laica come quella celebrata lo scorso 25 aprile, un libro importante, passato un po' inosservato, lontanissimo da qualsiasi strumentalizzazione.

"Singhiozzo di strame" è un titolo che non si limita ad essere bifronte come tutti i segni linguistici, ma si apre ai punti cardinali della poesia di Cecchinel, alla rosa dei venti che soffiano nella pagina. Nel singhiozzo ritroviamo il respiro difficile, il dolore del pianto, l'interrogativo - ogni volta nuovo - di quando passerà la contrazione involontaria di un diaframma che non si può più controllare, l'universo fonico di accenti improvvisi e, appunto, singhiozzanti del suo dettato, persino certe credenze popolari legate al singhiozzo, forse. Chissà, sulle tradizioni popolari il nostro poeta ha riversato molta attenzione. Lo strame invece è l'erba e la paglia secca, usata come foraggio o lettiera. Ci catapultiamo subito nel mondo prealpino dove la sua poesia si sostanzia e ricade, sempre, frusciando nelle passeggiate che attraversano un microcosmo residuale di erbe, crepacci, spelonche, sfalci, faville, ceneri, ruderi, macerie, alberi (carpino, frassino, pioppo, acacia, ciliegio, pino solitario o alberi malati, come nella bellissima poesia intitolata alla voce del castagno malato, la voze del castegnèr cròt, dedicata a Walt Whitman), animali, spesso notturni (a corvi, ghiri, poiane, coturnici, cornacchie, pipistrelli, talpe e alle "litanie scure" di grilli e rane fa da contrappeso la presenza delle lucciole, insetti di luce, ma la cui visibilità è subordinata al buio). Di Cecchinel ammiriamo allora le impennate verticali di uno sguardo orizzontale, finanche rasoterra, le quali chiamano a raccolta suolo e cieli, scur da lus (scuro da luce, come si intitola un'importante sezione dell'opera), lo stare al mondo di quest'uomo il cui metronomo sembra essere il jazz di un crepitio di un fuoco, del larin. Il nord dell'abbraccio prealpino guarda il sud di uno scirocco che infastidisce come in sì, saron fora dove leggiamo “mejo ’ndar a stròz del nostro vèrt, / oialtri ste pura, se cusita ve conċ, / te l’òstro sarà de siròc / co le so gran sganghe, ’l so còz” (sì, saremo fuori: “meglio vagare nel nostro aperto, / voialtri state pure, se così vi conviene, / nel vostro chiuso di scirocco / colle sue grandi smanie, il suo unto appiccicoso”) oppure in par quei ’ndati via par cònt so dove riappare questo vento, sempre nel finale, “al par tut in crèpiti ’l car grant / al sie drio spacarse e no l’è vènt / te sta nòt de siròc” (per quelli che se ne sono andati per conto proprio: "sembra che decrepito il carro grande / stia spaccandosi e non c’è vento / in questa notte di scirocco:"); l’oriente delle albe con il loro guaz (l'umido dei prati) si sublima in vapore nel fuoco “…in tra i cuèrt scanadi dal foc / injazà de le stele” (… tra i tetti spezzati dal fuoco / ghiacciato delle stelle).

Poesia minuscola, nel senso che rifugge le maiuscole tranne quando si rivolge al Tu, che sembra porsi come un perenne inizio in medias res (com'è ogni saper raccontare veramente popolare), un racconto che prende abbrivio da un punto quasi casuale del paesaggio per compiere un vertiginoso circuito fonico, nel senso anche dell'udito e non soltanto del suono al quale ogni poesia inevitabilmente rimanda, perché è poesia dell'udito quella di Cecchinel, quasi l'autore riesca meglio di altri a sottrarsi agli inganni lirici sottesi talvolta allo sguardo e ad aggrapparsi alla verità del suono, sia appunto singhiozzo, o dei silenzi, come quelli della sezione gen de vodo (gomitoli di vuoto).

La luce è malata, il fuoco è soffocato. L'ossigeno non abbonda nella tavola degli elementi di questi versi. Le faville sono scure e non accese. Le stelle di ghiaccio. Le ombre possono persino accecare. Il lampo è incantato e non scorre (e chissà che cos'è un lampo incantato e riflesso sui laghi di Revine, osservato magari dall'alto, dal Pian de le Femene, ad esempio). Laddove prevale lo sguardo, la vista, ritroviamo immagini inedite per la poesia. L'espressionismo fonico e ritmico, del quale si è spesso parlato per la sua poesia, non è contrappeso della lacerante epoché sulle immagini della natura, è piuttosto sospensione che poi scivola in un presentimento tragico dell'uomo in passeggiata su un paesaggio abbandonato, a due passi dal crepaccio. Qui, in Cecchinel, la lingua è tai e dontura (taglio e giuntura).

Una poesia profondamente radicata, che però sa gettare ponti imprevedibili su autori lontanissimi nello spazio e nel tempo e su temi nemmeno accennati. Il titolo dell'ultima sezione, saor de gnent (sapore di niente), ad esempio, stride magnificamente con l'impiego folcloristico del dialetto oggi tanto in voga. Per alcuni attimi sembra pure alludere all'omicidio (volontario, con plurime aggravanti) di questo "parlar", un'esecuzione reiterata ogni volta che del dialetto è fatto un impiego finalizzato alla vendita di volumi patinati sull'alimentazione e sulla cucina che fu, o alla vendita di pietanze surrogate che abbozzano una malsana filologia culinaria, con l'unico scopo di aumentare il prezzo medio dei pasti, in un'editoria o ristorazione che insomma non hanno il minimo rispetto di quel regime alimentare che nulla ha da spartire con l'oggi. Cecchinel non parla certo di questo, ma è la forza etica del suo dialetto, delle sue titolazioni e dei cortocircuiti innescati dal suo dettato poetico che può condurre persino a questi ragionamenti. Il sapore di niente è però anche altro, è soprattutto altro, “… ùltima biava / magra e tenpestada!” (ultimo grano / magro e grandinato!), i ciòchi cioè gli ubriachi che vogliono bene alla notte, un’altra poesia notturna retta da una bellissima similitudine coi gatti, quei do de la soa vale a dire “i depressi”, quelli fuori, quelli che vogliono bene al niente o l’ultimo vìver, con quell’immagine della goccia che a mio avviso e tra le cose più potenti dell’intera raccolta:

l’ultimo ziar del bòt de canpana
al se misia su al taer
come che l’ultima joza
la à caro desparir tel sut
e l’ultima buboleta de lus
la ol reparse tel scur

cusì l’ultimo vìver
al spèta de zièder pian pian
e l’é fa se ghe cognese polsar
dal zepedimènt incantà de ’n sgranf
par intrar, par èser cetà tel gnent
che l’è de tuti,
l’è tut

(l’ultimo vivere: l’ultimo ronzìo del rintocco di campana / si mischia al silenzio / come l’ultima goccia / desidera sparire nell’asciutto / e l’ultima lucciolina di luce / vuole ripararsi nel buio // così l’ultimo vivere / aspetta di cedere pian piano / ed è come se avesse bisogno di riposare / dal rattrappimento inceppato di un crampo / per entrare, per essere acquietato nel nulla / che è di tutti, / che è tutto)

martedì 24 aprile 2012

"Introduzione al mondo" di Idolo Hoxhvogli

Recensioni rapide #5

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"Recensioni rapide": due paragrafi fissi dove cerco di rispondere brevemente alle domande "che libro ho davanti?" e "perché vale la pena/non vale la pena avvicinarlo?" (solitamente resto su quelli che vale la pena). 
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L'autore è nato a Tirana nel 1984. Introduzione al mondo (Scepsi & Mattana, pp. 112, euro 15) è un libro d'esordio che raduna racconti, prose brevi e, come vuole il sottotitolo, "notizie minime sopra gli spacciatori di felicità". Toni sarcastici e grotteschi, graffianti immagini, come quella che vuole dipingere la nostra società come quella dell'altoparlante. Torna in mente, di fronte al racconto del letame che continuamente mangiamo, il folgorante Zanzotto di "In questo progresso scorsoio non so se vengo ingoiato o se ingoio". Il nescio, il disarmato non sapere se ingeriamo violentemente o se siamo a nostra volta violentemente ingeriti è l'impalcatura di queste fiammate di prosa del giovane autore albanese, filosofo di formazione. Dettagli prelevati dalla realtà della cronaca, frammisti ad aperture al simbolo, immagini dirette che non di rado agganciano uno stile allegorico: e così non si salva nessuno nella prosa di Hoxhvogli, nessun professionista è baciato da luce sana, sia questo appartenente alla politica, ai mezzi di comunicazione, al mondo della scittura o agli amministratori locali. Se Bergson parlava della necessità di un "supplemento d'anima", il giovane autore ci racconta di Leo che soffre di una malattia "conclamata", ovvero dell'eccesso d'anima, da curare con la pastiglia "Introduzione al mondo". Appunto. Cerchio chiuso. O meglio, triangolo chiuso, come le tre macroaree che radunano questi frammenti: La città dell'allegria, Civiltà della conversazione (che sembra fare il verso a quel fortunato libro di Benedetta Craveri) e Fiaba per adulti.

Al di là dell'interesse per questa singola opera in particolare, credo sia opportuno iniziare a tener traccia - e possibilmente farlo con cognizione e strumenti critici adeguati - delle scritture italiane che provengono da recente emigrazione. Il rischio è ovviamente quello che l'editoria e il marketing se ne impadroniscano condendole con la spezia dell'esotismo, del "nuovo un po' forzato", del diverso da chi nasce e scrive naturalmente in italiano. Per quanto riguarda l'Albania, dopo Ornela Vorpsi, troviamo in Idolo Hoxhvogli un caso che merita attenzione anche (soprattutto?) per quella ricerca della e sulla lingua, per gli esiti linguistici che inevitabilmente approdano sulla pagina quando si lambisce l'orbita delle scritture migranti che - ricordiamolo - hanno spesso rappresentato gli esiti più interessanti della letteratura del secolo scorso. Non c'è motivo per pensare che il Ventunesimo secolo sia differente. Anzi, tutt'al più questo dato della centralità delle scritture migranti potrebbe ripresentarsi sotto un rinnovato vigore. Un libro che lascia il gusto di ascoltare nuovamente presto il suo autore. "C'era una volta un commerciante. Insinuò che andassi in giro con un coltello. Ero solo un bambino. Non sapevo neppure tagliare il pane." (II. Aneddoto 1)

domenica 22 aprile 2012

Libri brevi, una nuova selezione

Librobreve in libreria #9


Le nuove 15 segnalazioni contengono più poesia del solito. Spero che questo fatto possa comunque interessare. Stanno uscendo libri di poesia interessanti negli ultimi tempi, di alcuni proprio non riesco a tenere traccia. Ma è di un saggio che voglio brevemente parlare in questo cappello introduttivo. Mi riferisco a La società della stanchezza del filosofo coreano Byung-Chul Han (operativo però a Karlsruhe) uscito per Nottetempo (pp. 88, euro 6). Dopo un'introduzione sul venire meno del "paradigma immunologico", Han fa partire la sua analisi della società bulimica, del multitasking, della stanchezza, della performance, della stanchezza neuronale quindi. Secondo Han la società del Ventesimo secolo si fondava ancora su un paradigma che, mutuando il Kuhn de La struttura delle rivoluzioni scientifiche, possiamo rappresentare intelaiato nelle contrapposizioni tra amico/nemico - ricordate anche Carl Schmitt? - interno/esterno, dentro/fuori (pensiamo a cosa rappresenta il "vaccino", l'introduzione del "nemico" in piccole dosi per scongiurarne pericolosi effetti in futuro). Il "confine" era un termine all'ordine del giorno, di primaria importanza. In geopolitica pensiamo a cosa furono, ad esempio, la Guerra fredda o la "cortina di ferro". Il nuovo paradigma che si insinua ora è questo al quale accennavamo sopra, dell'iperattività stancante, un paradigma dove vengono meno i dualismi della società immunologica (siamo bulimici, non temiamo il diverso, piuttosto "il diverso può dar fastidio"). A mio avviso si tratta di un argomento difficile, facile cadere nella sfera delle banalità. Invece l'analisi di Han registra qualcosa di importante. La cosa più devastante, a mio avviso, è il tramutare del "lavoro" in "prestazione". Necessitiamo di una profonda revisione della parola "lavoro". Molte sono le suggestioni che arrivano da questo libretto, da Walter Benjamin allo splendido Vita activa di Hannah Arendt, forse il suo lascito più importante, anche se criticato da Han.
















1. Idolo Hoxhvogli, Introduzione al mondo, Scepsi & Mattana
2. E. Motta, F. Pusterla, Colori in fuga, La Vita Felice
3. Antonella Anedda, Salva con nome, Mondadori
4. Antonella Bukovaz, al Limite, Le Lettere
5. Byung-Chul Han, La società della stanchezza, Nottetempo
6. Guglielo Petroni, Il nome delle parole, Sellerio
7. Thomas Bernhard, Al limite boschivo, Guanda
8. Thomas Bernhard, , Guanda
9. Søren Kierkegaard, Il giglio nel campo e l'uccello nel cielo, Donzelli
10. Cristina Alziati, Come non piangenti, Marcos y Marcos
11. Virginia Woolf, Sul cinema, Mimesis
12. Walter Benjamin, Tesi di filosofia della storia, Mimesis
13. Cesare Viviani, Infinita fine, Einaudi
14. Max Frisch, L'uomo nell'olocene, Einaudi
15. Luca Della Robbia, La condanna a morte di Pietro Paolo Boscoli, Quodlibet

domenica 15 aprile 2012

da "I mondi" di Guido Mazzoni


Una poesia da #3












Guido Mazzoni è nato del 1967 e prima di arrivare alla poesia ha pubblicato i saggi Forma e solitudine (per Marcos y Marcos, nel 1992) e il più diffuso Sulla poesia moderna (per il Mulino, nel 2005). A dire il vero un'importante comparsa della sua poesia si trova nell'antologia Poesia contemporanea. Terzo quaderno italiano (all'epoca edito da Guerini e non da Marcos y Marcos, per la cura di Franco Buffoni, 1992). Sicuramente è uno dei critici e docenti più importanti che abbiamo in Italia, anche se il suo percorso l’ha condotto spesso all’estero (Parigi, Londra, Chicago). I mondi è un libro sorprendente. Mi era sfuggito al momento dell’uscita, eppure credo di prestare una discreta attenzione alle novità di poesia. Ma in forza dell’adagio che vuole la poesia sempre inedita o comunque sempre nuova e contemporanea, come tutta l’arte, ne parlo ora, proponendovi un paio di brevi testi. Il libro (Donzelli, pp. 66, euro 13) contiene anche diverse prose poetiche (qual è il nome corretto?) che stanno magnificamente assieme alle poesie. Per questo motivo propongo un esempio di entrambe le tipologie testuali.













L’idea di essere vivo


Era l’idea di essere vivo fra le piante,
fra i mobili nuovi che avevano comprato,
era la gioia di vedere le proprie cose, come il giardino
col muschio sul muro divisorio, la magnolia e sopra,
oltre le tegole, le macchie delle rondini,
le masse dei viventi nel cielo.



Gli alberi


Gli alberi nella radura che ti accoglie forando il sottobosco chiedono una forma di attenzione, si piegano per essere ascoltati. Ti sono venuti incontro attraverso la penombra e ora sono qui. Significano la felicità di essere qualcosa, lo stupore di abitare il presente insieme a queste foglie, alle loro venature, alle società di insetti che scavano la terra per prolungare la vita, la stessa che ti percorre, leggera e irreversibile.

mercoledì 11 aprile 2012

I primi studi italiani di Otto Pächt: la scoperta della natura

Le nuove generazioni di studiosi di storia dell'arte dovrebbero trovare una corsia preferenziale verso lo stupore. Lo stupore è forse l'ingrediente di base di qualsiasi grande scoperta o studio. Pensavo a questo ammirando la pubblicazione dei primi studi italiani di Otto Pächt, La scoperta della natura (Einaudi, pp. LVIII - 108, euro 24, con contributi di Enrico Castelnuovo e Jonathan J. G. Alexander, a cura di Fabrizio Crivello). 

Avevo intercettato Pächt principalmente per quella grande monografia, un libro di base, sulla miniatura medievale, uscita da Bollati Boringhieri. Quello era un libro davvero meraviglioso, che solo dallo stupore poteva sorgere. Ma Otto Pächt non è soltanto miniatura, ed è curioso constatare che lui stesso fosse molto preoccupato di un legame troppo forte tra il suo nome e la storia della miniatura. E allora sono fondamentali questi studi ("Raffigurazioni di animali", "Illustrazioni di erbari" e "I primi paesaggi del calendario") per introdurci a quell'evento epocale che fu la comparsa della pittura di paesaggio come genere indipendente.  Solo con lo stupore allora s'innesta la fecondità nello studio, come di fronte ai dipinti della Torre dell'Aquila nel Castello del Buonconsiglio di Trento, dove la raffigurazione della natura, del mutare delle stagioni, fa una comparsa che oggi potremmo persino definire irruenta nella storia dell'arte: contadini, alberi, piante, fiori, attrezzi, animali dipinti con quell'indole esplorativa che si può ammirare anche nel Codice Cocharelli, il manoscritto genovese ricordato da Castelnuovo nel suo scritto, dove l'osservazione ravvicinata di insetti, conchiglie, crostacei, farfalle, falene bruchi e scarabei segna la sua enigmatica epifania. Il tutto va naturalmente rapportato all'immaginario simbolico dell'uomo medievale e al coefficiente di rottura di questo atteggiamento pittorico (ma soprattutto mentale), che sicuramente aveva in nuce le future fondamentali maturazioni dell'osservazione dell'ambiente fisico.

Il libro è quindi una piccola grande meraviglia, per gli occhi e per l'avventura del pensiero che scorre a ritroso nei secoli. C'è un aspetto che trovo interessante sottolineare. Il titolo originale è in inglese: Early Italian Nature Studies and the Early Calendar Landscape. Perché? Sappiamo che Pächt fu esponente della "seconda scuola di Vienna", quindi studioso di lingua tedesca. Naturalmente c'è di mezzo lo squasso della seconda guerra mondiale, l'emigrazione, compresa quella intellettuale di lingua tedesca che fecondò con i propri esodi università e centri di ricerca di tutto il mondo. Diventa allora opportuno ricordare il passo di Carl Nordenfalk riportato da Castelnuovo nel brano introduttivo:

Il nazismo e la seconda guerra mondiale da esso provocata furono certo tra le più grandi catastrofi dell'umanità, ma ebbero anche una conseguenza inaspettata. Per Pächt come altri grandi studiosi di lingua tedesca fu l'obbligo di misurarsi con l'inglese. L'abituale modo di scrivere e di creare espressioni come Auseinanderhervorgegangensein o simili parole composte - tanto ricche di significati che bisognava leggerle due volte per capirle - semplicemente non potevano essere tradotte in inglese.

Per noi italiani questo libro costituisce l'ennesimo stimolo a ripensare cos'è stato il suolo che ci tiene assieme, la sua arte, le evoluzioni del pensiero che ha ospitato nel transito all'epoca post-medievale, pur nelle sue vicende alterne di suolo di conquista e spartizione, attraverso molti secoli. Sono discorsi fatti e rifatti, forse lessi ormai. Ma davvero non sembra un'esagerazione pensare che una fetta consistente di Pil potrebbe oggi essere costruita attorno alla miniera d'oro sulla quale siamo seduti, spesso volgarmente sdraiati, ruzzolando a volte a pancia in su come dei porci sugli escrementi che noi abbiamo prodotto, dimenticando, speculando o banalmente ignorando.

sabato 7 aprile 2012

da "Pasque", di Andrea Zanzotto

Una poesia da #2



Tra la raccolta che lo consacra, La beltà del 1968 (pensate anche al dato cronologico dell'anno se vi capita di leggere questa raccolta), e la trilogia che lo consolida, composta da Il Galateo in bosco (1978), Fosfeni (1983) e Idioma (1986), Zanzotto infila un'altra trilogia (forse meno studiata e meno evidente) i cui vertici sono costituiti dal poemetto post-allunaggio Gli Sguardi i Fatti e Senhal di un anno successivo a La beltà, Pasque del 1973 e il felliniano Filò (1976). 


Recentemente è uscito l'Oscar Mondodori Tutte le poesie. Si tratta di un libro perfetto sia per chi vuole avvicinare Zanzotto sia per chi l'ha già avvicinato. Non temete in un doppione se magari avete le singole raccolte o il Meridiano. Attraversare Zanzotto in un'edizione pratica come questa ha un suo fascino, saltare da Vocativo a Meteo magari... Perché? La prefazione di Stefano Dal Bianco è un passo fondamentale della recente critica (anche se concorderete che dopo L'eutanasia della critica descritta da Lavagetto si fa sempre più fatica a usare il termine critica con disinvoltura). Interessante ad esempio quando Dal Bianco segnala di Pasque la vicinanza al Montale coevo di Satura, con il rimando al saggio di Zanzotto su Montale Sviluppo di una situazione montaliana (Escatologia-Scatologia). Domani è Pasqua. Allora vi propongo questa.


D'UN FIATO



Il cappuccino o altra simile bevanda,
bumba non ghiotta, ma bevanda.
Occupi tutta l'area il campo
dell'apparato egoico minacciato!
Lavarlo quetarlo nel cappuccino
o limonè: abboccato buono!
Sorbire lenti, il vacuo
se ne avvantaggia, la nessuna
sostanza, il nessun sostrato;
lo spiegherà tutto d'un fiato
miss psicotricot psicorammendo,
l'offre in grosse partite il mercato,
sbroglia dai soriti del tremendo. E intanto
piante e sole e primavera attaccano,
attivissime in amori acupunture
vita-mors mors-vita, varietà
di sistemi echi premi. Primavera
in cui ben sai ben sai
la privata iniziativa più che mai
inizia, è privata, sé con sé
punge, è in amore è un amore, mellita.
«Sii dunque un mellito te stesso; godi del cappuccino;
iniziativo, inìziati» così
la fräulein si vocalizza usignuolizza in inviti
(e lui Leary Burroughs e Michaux
nel fossato butta via butta giù
barbume barbume che non ci sta più;
ritto impettito egli s'accinge a be'
bumba bon-abboccato sotto il sole che
monda e inonda. Ed egli farà
anzi sarà: domani: sarà-domani il che in cui
∞ s'industria s'appunta
s'affissa si ficca farà
carriera. Anzi lo è.)
MISS - «Né sciarade né gabbiose formule di struttura:
     salite salite- scendete scendete
     salatevi insalubritevi inzuccheritevi
     un poco qui con me?»
----- «Garson, un cappuccino, silvuplè»

giovedì 5 aprile 2012

La collana "Mercanti nel tempio" di Amos Edizioni

Librobreve intervista #5
Storie di collane micro#6

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Pubblico una breve intervista concessa da Michele Toniolo, che da anni gestisce con cura e attenzione singolari Amos Edizioni. La derivazione biblica del nome, già rilevabile in Amos, ritorna anche in una collana recentemente proposta, Mercanti nel tempio, che è la ragione per la quale l'ho contattato.
Molte sono le pubblicazioni degne di nota di questo editore veneziano, ma su tutte qui vorrei ricordare le Poesie complete dell'autore de La lluvia amarilla, lo spagnolo Julio Llamazares, nella traduzione del poeta Sebastiano Gatto. A tal proposito segnalo che Llamazares sarà in Italia a breve, invitato per un piccolo tour proprio dal suo editore e accompagnato dal suo traduttore. Il giorno 16 aprile, alle 20:30, sarà allo spazio Paraggi di Treviso, mentre il giorno successivo, alle ore 11:00, sarà ospite all'Università Ca' Foscari, assieme a Jacqueline Risset e a George Elliot Clarke. Per chi può, un paio di occasioni davvero ghiotte.
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LB: Qual è il retroterra, lo spunto dal quale nasce l'idea di questa collana?
RISPOSTA: Il retroterra di Mercanti nel tempio è semplice: questa collana prende spunto dal passo evangelico della cacciata dei mercanti dal tempio. Il tema, che a prima vista sembra piccolo, in realtà è molto complesso ed esteso. È pienamente letterario.

LB: Quali titoli avete pubblicato sinora? Come vengono scelti?
RISPOSTA: Sono stati pubblicati tre testi finora. Casa occupata di Alice Novac, Là c'era una coppia... di Vladimir Makanin, La mendicante di Locarno di Heinrich von Kleist. Là dove sia possibile, a fronte della traduzione in italiano, si presenta anche il testo in lingua originale. I testi pubblicati sono inediti in Italia oppure, è il caso di Kleist, sono pubblicati in una nuova traduzione. Vengono scelti da me, per la semplice ragione che lavoro da solo in casa editrice. 

LB: È possibile avere delle anticipazioni sulle prossime uscite?
Uscirà nel 2012 la traduzione di un racconto (Morte di un pensionato) di uno scrittore e filosofo russo, Vladimir Kantor. E un testo dello scrittore americano Frank Norris. 

LB: Come viene messo assieme il gruppo di persone che lavora alla collana (curatori, prefatori, progettisti grafici)?
RISPOSTA: Il progetto grafico è per sottrazione; non sono un grafico, quindi le copertine sono bianche, senza immagini. I due disegni che costituiscono il logo della collana, invece, e che sono posti all'interno, all'inizio e alla fine di ciascun libro, sono stati realizzati da un grafico mestrino, Filippo Millosevich, che si è ispirato al tema della cacciata dei mercanti dal tempio. Quanto a traduttori e curatori li scelgo di volta in volta, a seconda dell'autore. 

LB:  La collana è composta da libri assai brevi. In questi spazi (vedi intervista a Matteo Codignola di Adelphi) abbiamo già parlato della difficoltà di riconoscimento e di visibilità del "libro breve" in libreria, anche quando porta in sé opere di grande valore. Qual è la vostra esperienza in merito? Noto che il prezzo che applicate è molto onesto se paragonato a certi microlibri che, pur non presentando particolare ricercatezza nella carta o nella copertina, sono venduti a prezzi a mio avviso eccessivi. È verosimile che esista una sorta di meccanismo inverso per cui certi libri brevi, per "emergere", debbano essere comunque posizionati ad un prezzo elevato?
RISPOSTA: Non so se la visibilità di un libro sia una questione di prezzo o dimensioni. (Ma non dovrebbe essere una questione di qualità?). Alla fine essa dipende dal libraio. Spesso ci dimentichiamo che il mestiere di editore e di libraio è innanzitutto un mestiere sociale; che non esclude l'elemento culturale e commerciale. Non abbiamo a che fare con lettori o clienti, ma con persone. Questo dovrebbe contare.