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martedì 16 febbraio 2016

Da Trieste a Roma (a Padova per un imminente appuntamento): riparte la casa editrice ItaloSvevo

Ricevo all'ultimo da Matteo Giancotti e riporto il comunicato stampa relativo alla ripartenza in seno ad Alberto Gaffi Editore in Roma della ItaloSvevo, casa editrice fondata nel 1967 a Trieste da Sergio Zorzon (una curiosa storia che mischia librerie, marchi editoriali, aste). In tutta fretta, dato l'avvicinarsi del giorno, segnalo anche il prossimo appuntamento di Padova, dove avrà luogo la presentazione dei due titoli che riaprono le pubblicazioni: Trittico di Hans Tuzzi e Piccolo dizionario delle malattie letterarie di Marco Rossari (entrambi brevi libri di 64 pagine e entrambi in vendita al prezzo di 10 euro).

Venerdì 19 febbraio 2016 - ore 18
ItaloSvevo. Piccola biblioteca di letteratura inutile

Intervengono: 
Giovanna Frene, poeta
Matteo Giancotti, critico
Giovanni Nucci, direttore editoriale ITALOSVEVO
Alberto Gaffi, editore ITALOSVEVO
Modera: Cristiano Draghi, giornalista
L'insegna della libreria nella bancarella
di Galleria Rossoni a Trieste

comunicato stampa
ITALOSVEVO
Piccola biblioteca di letteratura inutile

La casa editrice storica di Trieste riprende vita con una collana raffinata, intelligente e dal sa­pore mitteleuropeo,
per smuovere dalla pe­riferia un impero culturalmente in crisi.

«Anche se Trieste non ha dato grandi valori creativi, è stata un’ottima cassa armonica, è stata una città di una sismograficità non comune: per capirlo, bisogna aver visto le biblioteche finite sulle bancarelle dei librai del ghetto… Tutta una grande cultura non ufficiale, libri veramente importanti e sconosciutissimi, ricercati e raccolti con amore, da gente che leggeva quel libro perché aveva proprio bisogno di quel libro.
Bobi Bazlen

L’energia intellettuale che da sempre caratterizza la città di Svevo, Saba, Bazlen e Stuparich, per una nuova editoria di cultura, intel­ligente e attenta alle esigenze dei lettori più raffinati.
Una collana di volumetti intelligenti e anticonvenzionali per contenere quel­la letteratura, di grande tradizione italiana, che non appartiene alla narrativa e difficilmente trova spazio nelle case editrici.

Volumi di piccolo formato molto cura­ti nella veste grafica, copertina in brossura su carta di pregio con lunghe bandelle, ri­legatura filo refe, tagli laterali in tonso.

Con questo nuovo progetto editoriale ItaloSvevo si vuole catalizzare l’energia culturale che nasce dalla storica tradizione letteraria di Trieste e che tuttora ne fa una delle città più attive e ferventi, per esportarla in tutto il Paese. Il progetto della Italosvevo, la cui direzione editoriale è affidata a Giovanni Nucci, è di andare a cogliere questo fermento là dove storicamente è sempre, con una produzione letteraria particolarmente vivida, colta, intelligente e raffinata. Con un occhio di riguardo alla realtà triestina, pubblicando però indistintamente autori italiani e, se necessario, stranieri.  

La collana che inaugura la rinascita della Italosvevo raccoglierà dei testi chiaramente letterari, ma non propriamente narrativi.  La «Piccola biblioteca di letteratura inutile» si muoverà negli spazi del reportage, delle divagazioni letterarie, divertissement, pamphlet, testi di letteratura filosofica o di saggistica dissacrante, brevi scritti morali. Nel segno della riflessione e della critica, dall’attenzione e dell’intelligenza, del sarcasmo e dell’ironia.

I primi due volumi previsti in uscita il 18 febbraio 2016 sono di due autori quanto mai diversi e distanti per età, genere, provenienza e scrittura. Due testi ugualmente forti.

Hans Tuzzi, tra i più raffinati autori italiani, con Trittico ha voluto dare a questa nuova casa editrice tre racconti morali, incisivi e taglienti, con la forza della coscienza critica, come ci si aspetta da un grande intellettuale.

La grafica curata da Maurizio Ceccato è moderna pur seguendo i dettami della grafica editoriale di più chiara tradizione.

Marco Rossari, traduttore dall’inglese tra i più quotati, scrittore ironico e iconoclasta, pubblica Piccolo dizionario delle malattie letterarie: una lista dei tic, dei mali, dei paradossi, delle fobie e delle compulsività degli scrittori, le diagnosi e i rimedi del mondo letterario impietosamente elencati in ordine alfabetico. Il libro di Rossari ha l’introduzione di Edoardo Camurri, padrino perfetto non solo per questo dizionario, ma per tutta la collana.

“C’è un grande dire del ritorno al vinile nell’editoria, del libro come oggetto e della qualità. Noi faremo libri particolarmente curati, con carta di ottima qualità e copertine molto belle, abbiamo deciso di lasciare le pagine intonse, come si faceva un tempo, da dover tagliare col tagliacarte, per dare l’idea di un oggetto da accudire. Però abbiamo anche la presunzione di pubblicare dei testi diversi da quelli che si trovano solitamente in giro. Stiamo quasi andando a cercare quello che gli altri scartano, magari per mancanza di attenzione, o di coraggio. I grandi movimenti dell’editoria italiana di questi ultimi tempi stanno creando dei nuovi spazi, delle opportunità per un piccolo editore. Ma non avrebbe senso cercare di fare quello che già fanno gli altri, vorremmo dare spazio a quella letteratura che definirei “filosofica” che ha una straordinaria forza nella nostra tradizione letteraria, basti pensare a Manganelli, Calvino, o a Sciascia… per non parlare di certe cose specificatamente triestine di Bazlen, Stuparich o Saba. Magari riusciremo a scovare qualche inedito di autori del passato, ma vorremmo più che altro indirizzarci su testi di autori viventi, magari considerati marginali nell’ottica un po’ univoca del mercato della narrativa. Tanto degli esordienti, o non particolarmente affermati, quanto dei grandi autori che hanno qualcosa di talmente particolare che i loro grandi editori stentano a pubblicare. Noi vogliamo usare la forza di una piccola e nuova casa editrice e unirla con l’incredibile brodo di cultura che ancora oggi si respira a Trieste, nella sua formidabile tradizione culturale e letteraria. E vogliamo andare dove gli altri sentano a volersi spingere.”
Giovanni Nucci


UFFICIO STAMPA
Francesca Comandini +39.340.3828160 press.francescacomandini@gmail.com

RESPONSABILE COMUNICAZIONE TRIESTE

Gianfranco Terzoli +39.3207212610 gianfranco.terzoli@email.it

venerdì 29 gennaio 2016

The hardest part is staying in one place: "Della mutabilità" di Jo Shapcott, prima traduzione italiana a cura di Paola Splendore per Del Vecchio Editore

Quando si scrive o parla, spesso a vanvera e noiosamente, di editoria di poesia non sento quasi mai fare il nome di Del Vecchio Editore. Eppure già da tempo quest'editore ha dimostrato di proporre annualmente in media tre titoli poetici interessanti che vanno ad alimentare il versante delle "forme brevi" di un catalogo che sta prendendo una forma sempre più nitida, "seria" nel senso più bello del termine. Si tratta sinora di sole traduzioni. Hilde Domin, di cui si è già scritto qui, funzionò da apripista. Anche dal punto di vista del progetto grafico complessivo, i libri di quest'editore, usciti dall'occhio di Ifix e Maurizio Ceccato, creano uno squarcio nuovo, sin dalla copertina ma anche per come avvolgono il testo nelle pagine che stanno tra copertina e quarta di copertina. Insomma, si vede che sono copertine e apparati ragionati e lavorati a lungo che non hanno molti uguali nel panorama. E i titoli della collana di poesia sono ancor più dentro quest'avventura grafica ardita. Prendete in mano se vi capita questo recente Della mutabilità della poetessa londinese Jo Shapcott (pp. 200, euro 15, traduzione di Paola Splendore) e una sfogliata varrà più delle mie parole introduttive. (Ho scritto "poetessa". Devo usare "poeta"? Volete aprire l'ennesimo achmatoviano sondaggio su "poeta" vs. "poetessa" per una "donna che scrive poesie"? Davvero è una questione così interessante e cruciale?)

Anche Jo Shapcott rappresenta una prima traduzione italiana di un'autrice che si augura giustamente che la poesia sappia ancora essere pericolosa e scomoda ("Se non turba, non funziona" vuole una sua citazione riportata negli apparati grafici suddetti). E sin dal titolo e dalla bella poesia introduttiva Shapcott "se la prende" con questo concetto fondamentale per la vita di qualsiasi artista e quindi nella vita di qualsiasi forma. Ma anche altrove questo pungolo è presente, come ad esempio nello scritto dedicato a Elizabeth Bishop e più in generale alla poesia. Il contributo intitolato "Confondere la geografia" riportato in apertura del volume conclude infatti così: "Le guerre di questo secolo, la fine dell’impero, l’aeroplano, il tunnel della Manica, il web, il ruolo delle donne, il potere delle multinazionali, la prevalenza di buona letteratura in inglese scritta altrove, le nostre mutate prospettive all’alba del nuovo secolo, tutte queste cose messe insieme ci dicono che la storia insulare dell’Inghilterra, la piccola Inghilterra, è finita. Confini, margini di territori e di lingua, casa e corpo, terra e acqua hanno da sempre offerto rifugi attraenti alle donne scrittrici che hanno capito da tempo che si potrebbe semplicemente lasciare entrare l’altro o setacciare ogni detrito sospinto a riva."

Mutabilità, dunque. Eppure, ha notato correttamente Frances Leviston su "The Guardian", recensendo Of Mutability alla sua uscita, che "molte delle poesie sembrano più interessate all'equilibrio che alla mutabilità: quei momenti in cui forze di cambiamento in opposizione si accoppiano o si negano a vicenda. Bolle e goccioline, le quali dipendono da un perfetto equilibrio e pressione dell'aria interna e esterna che mantenga la loro tensione superficiale, portano molto del peso emblematico, comparendo letteralmente in una fontana o un getto di piscio, o quali metafore dell'esperienza fisica [...] Sono le stesse poesie che possono sentirsi come bolle - formali, delicate e tremanti di schiettezza - e sembra che Shapcott desideri fortemente raggiungere la trasparenza e la semplicità che tali metafore consentono".

‘The hardest part is staying in one place.’ leggiamo nel mezzo della poesia "The Bet": il senso del luogo, nessun senso del luogo e oltre il senso del luogo. "Place to be", per Nick Drake. A metà anni Novanta uscì un libro di Joshua Meyrowitz intitolato proprio Oltre il senso del luogo. In realtà il titolo inglese era No Sense of Place. Parlava di media elettronici e del loro impatto (anche se sarebbe più corretto parlare oggi della sindrome da "evitamento" da loro introdotta) nelle vite delle persone. Oggi tutto questo va rivisto, aggiornato, rianalizzato. Spesso il risarcimento della poesia può essere, come nel caso di Shapcott, il senso di uno o più luoghi, di riappropriazione e abbandono definitivo del senso del luogo/posto. A ben pensare, una poesia interessante accade quando ci informa pienamente di un posto, delle combinazioni tra posto sociale e posto reale e mentale. Quel che Shapcott è brava a fare, in molti di questi testi, è proprio questo.

Chiudo con la title-track e un video con una sua lettura.

DELLA MUTABILITÀ


Troppe delle cellule migliori del mio corpo
prudono, frastagliate, inacerbite
in questa gelida primavera. È il duemilaquattro
e non conosco un’anima che non si senta piccola
nella folla. Rasa a zero.
Abbassa gli occhi questi giorni e vedrai che i piedi
non si fidano del marciapiedi e le tue analisi del sangue
incupiscono il volto del dottore.

Alza lo sguardo e con la coda dell’occhio coglierai
eclissi, foglia d’oro, comete, angeli, lampadari,
raggiungili se vuoi, impara l’astrofisica, o
il canto folk, il sacrificio umano, la mortalità,
a volare, pescare, il sesso senza toccarsi troppo.
Ma non ti preoccupare, però, di andare altro che in cielo.



OF MUTABILITY


Too many of the best cells in my body
are itching, feeling jagged, turning raw
in this spring chill. It’s two thousand and four
and I don’t know a soul who doesn’t feel small
among the numbers. Razor small.
Look down these days to see your feet
mistrust the pavement and your blood tests
turn the doctor’s expression grave.

Look up to catch eclipses, gold leaf, comets,
angels, chandeliers, out of the corner of your eye,
join them if you like, learn astrophysics, or
learn folksong, human sacrifice, mortality,
flying, fishing, sex without touching much.
Don’t trouble, though, to head anywhere but the sky.

 

mercoledì 27 agosto 2014

Nuove poesie di Hilde Domin proposte da Del Vecchio Editore in "Lettera su un altro continente"

"Neue Wege möchte ich finden / schmerzhaft ungegangene / vom Du zum Ich. // Keine Handbreit an mir / die deinem Eintritt widersteht." ("Vorrei trovare nuove strade / dolorosamente inesplorate / da me a te. // Nessuna mano su di me / a opporsi / al tuo ingresso."). Per iniziare ho scelto una delle molte poesie contenute in questo stupendo Lettera su un altro continente (pp. 416, € 16,50, a cura di Paola Del Zoppo, traduzione di Ondina Granato, con testo tedesco a fronte) pubblicato da Del Vecchio Editore, il terzo dedicato a Hilde Domin, dopo le belle sorprese di Alla fine è la parola (2013) e Con l'avallo delle nuvole (2011), usciti sempre per lo stesso editore, quasi a segnare un percorso di progettualità e costanza che di questi tempi sembra uscito più da Marte che dai calderoni dell'editoria italica. (Bellissima anche la veste grafica, tra le più innovative tra quelle intercettate negli ultimi tempi; non a caso dietro c'è la mano e il pensiero di Maurizio Ceccato.) Il volume racchiude tre raccolte: Qui (1964), Figure rupestri (1968) e Ti voglio (1970, poi ampliata nell'edizione tascabile del 1995). Visto che il sottotitolo di Librobreve chiama in causa le palpebre vorrei proseguire con un altro distillatissimo saggio di quello che offre la poesia della Domin, anche nei momenti di massima brevità e "economia" di mezzi:

Strappa la palpebra

Strappa la palpebra:
spavèntati.


Ricuciti la palpebra:
sogna.


Schneide das Augenlid ab

Schneide das Augenlid ab:
fürchte dich.


Nähe dein Augenlid an:
träume.


Ma torniamo al volume che è caratterizzato, a mio modo di leggere, da una scelta di essenzialità, nella lingua e quindi nella poesia, la quale rimane ovunque una profonda, intima necessità della lingua (intendo che non so dire se lingua e poesia sono nate "spaiate" e che spesso dubito siano nate assieme). Apprezzabile è l'inserimento in questa edizione di alcune lettere e di un contributo critico specifico che riporta alla centralità del mito di Sisifo. Immediato e non azzardato diventa allora  un ragionamento che coinvolge anche il quasi coetaneo Camus. Ma se nello scrittore francese Sisifo è il motivo per compiere una ricognizione su una vasta letteratura e filosofia e per enunciare i temi che riguarderanno la scrittura camusiana per gli anni a venire (tra questi l'assurdo e il suicidio), per Domin Sisifo è punto di partenza per provare a dire al condizione del poeta, ovvero Sisifo come "metafora della capacità di resistenza". Proprio questo si evince dalla lettura del contributo utilmente racchiuso in questo libro e intitolato Sisifo: lo sforzo quotidiano di fare l'impossibile, lezione francofortese del 1988. Domin scrive anche che "In questo secolo, secolo dei profughi, il soggetto di Sisifo è di estrema attualità. Il paradosso dell’esistenza viene simboleggiato dal profugo ogni giorno." Ed è proprio in questo punto di questo interessante saggio-lezione che Hilde Domin si confronta non solo con Camus ma anche con Roger Caillois, autore de Le rocher de Sisyphe uscito in Argentina nel 1942, stesso annus horribilis dello scritto di Camus, per la precisione a Buenos Aires dove Caillois si trovava in esilio. In tutto questo ragionamento attorno a Sisifo, resta emblematica la poesia che ricorre alla figura biblica di Abele:

Abele àlzati

Abele àlzati
bisogna ricominciare da capo
ogni giorno bisogna ricominciare da capo
ogni giorno la risposta deve essere ancora davanti a noi
la risposta deve poter essere sì
se non ti alzi Abele
come può la risposta
questa unica risposta importante
cambiare
noi possiamo chiudere tutte le chiese
e abolire tutti i codici
in tutte le lingue della terra
se tu solo ti alzi
e torni sui tuoi passi
la prima risposta falsa
all’unica domanda
da cui tutto dipende
àlzati
affinché Caino dica
affinché possa dirlo
Io sono il tuo custode
fratello
come potrei non essere il tuo custode
Àlzati ogni giorno
affinché possiamo avere davanti a noi
questo sì io sono qui
io
tuo fratello

Affinché i figli di Abele
non abbiano più paura
perché Caino non diventa Caino
Io scrivo questo
un figlio di Abele
e ogni giorno temo
la risposta
nei miei polmoni l’aria diminuisce
mentre aspetto la risposta

Abele àlzati
affinché si possa ricominciare
tra tutti noi

I fuochi che bruciano
il fuoco che brucia sulla terra
deve essere il fuoco di Abele

E nella coda dei razzi
devono esserci i fuochi di Abele


Abel steh auf

Abel steh auf
es muß neu gespielt werden
täglich muß es neu gespielt werden
täglich muß die Antwort noch vor uns sein
die Antwort muß ja sein können
wenn du nicht aufstehst Abel
wie soll die Antwort
diese einzig wichtige Antwort
sich je verändern
wir können alle Kirchen schließen
und alle Gesetzbücher abschaffen
in allen Sprachen der Erde
wenn du nur aufstehst
und es rückgängig machst
die erste falsche Antwort
auf die einzige Frage
auf die es ankommt
steh auf
damit Kain sagt
damit er es sagen kann
Ich bin dein Hüter
Bruder
wie sollte ich nicht dein Hüter sein
Täglich steh auf
damit wir es vor uns haben
dies Ja ich bin hier
ich
dein Bruder
Damit die Kinder Abels
sich nicht mehr fürchten
weil Kain nicht Kain wird
Ich schreibe dies
ich ein Kind Abels
und fürchte mich täglich
vor der Antwort
die Luft in meiner Lunge wird weniger
wie ich auf die Antwort warte

Abel steh auf
damit es anders anfängt
zwischen uns allen

Die Feuer die brennen
das Feuer das brennt auf der Erde
soll das Feuer von Abel sein

Und am Schwanz der Raketen
sollen die Feuer von Abel sein


Poesia scritta con la testa alta e un piede nell'aria ("ich setzte ein Fuss in die Luft"), la lirica dominiana è popolata di simboli, miti, animali, ricorrenze e luoghi che salgono in rami progressivamente sfrondati da ogni punteggiatura. Ricorda Paola Del Zoppo nella sua documentatissima prefazione al volume che "Hilde Domin è ancora poco conosciuta in Italia, e appare necessario riempire il vuoto generato dalla errata o sporadica ricezione delle poetesse e intellettuali tedesche di cultura ebraica, restituendo alla giusta dimensione la concezione della loro poesia nella sua interezza e illuminando una direzione lirica talvolta profondamente diversa rispetto ai – grandissimi – poeti più noti, e cioè quell’atteggiamento definito in Hilde Domin “poetica del ritorno”. È un atteggiamento di energica presa di coscienza e grande coraggio nel riconoscimento della tragedia e nella volontà e capacità di riappropriazione e ribaltamento dei rapporti di forza; una presa di coscienza che trova il suo terreno più fertile nella possibilità espressiva e creatrice della parola poetica, parola madre e creatrice per eccellenza, che si innesta in un non–luogo al di là dei limiti, nell’“aria” [...]".

Solo in chiusura, e prima di lasciarvi ad un video con la sua voce, sia dato qualche cenno sulla biografia della scrittrice, per fornire qualche coordinata storica supplementare e vista anche la sostanziale novità della proposta dell'editore Del Vecchio (come ricorda Paola Del Zoppo, di Hilde Domin in Italia si è iniziato a parlare e scrivere da pochissimo). Partiamo ad esempio dalla formazione, se vogliamo non "ortodossa" per una scrittrice del Novecento, con giurisprudenza, teoria economica e sociologia a Heidelberg (qui conosce Erwin Walter Palm, studente d’archeologia e futuro marito e frequenta il pensiero di Jaspers). Con l'ascesa di Hitler i Palm si spostano prima a Roma, poi a Firenze e infine in Inghilterra. Nel 1940 l'approdo nella Repubblica Dominicana (di qui anche il cognome "Domin", quasi come un segno di gratitudine). Il rimpatrio si situa, come per altri intellettuali e scrittori, nel decennio dei Cinquanta. A questi frangenti risalgono le prime pubblicazioni su rivista (la prestigiosa e fondamentale «Akzente» e «Neue Rundschau») e le prime raccolte poetiche in volume. Nell'anno del crollo del muro di Berlino riceve in assegnamento la cattedra di Poetica all’università di Magonza. Nella città in cui aveva studiato e conosciuto il marito Hilde Domin è morta nel febbraio del 2006.

 

martedì 17 luglio 2012

Leonardo G. Luccone di Oblique Studio

Librobreve intervista #6

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Ho conosciuto Leonardo G. Luccone grazie a una prova di traduzione che ebbi la furtuna di tentare anni fa. Il libro, destinato ad una collana al tempo da lui diretta per l'editore Nutrimenti, era il bel romanzo di Michael Thomas, Man Gone Down, pubblicato nel 2010 con il titolo Un uomo a pezzi (traduzione di Letizia Sacchini). La mia prova fu giustamente segata da Luccone. Dico giustamente perché uno deve imparare a rifiutare una prova di traduzione quando non è in condizione di portare avanti decentemente questo lavoro delicato; e poi non si deve nemmeno necessariamente rispondere a tutte le opportunità che capitano. Queste sono le cose importanti che imparai in quell'occasione, oltre al fatto - scoperta altrettanto importante - che esistono persone che tengono assieme i mestieri e le figure dell'editoria con cure oggi rare. Questo "signore" dell'editoria ("signore" non nel senso di potere esercitato, bensì di nobiltà e senso del mestiere), operativo soprattutto nell'area romana, è anche il responsabile di Oblique Studio. Insomma, fu un incontro molto positivo per me e ora sono contento di ospitarlo su Librobreve.
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I Tredici racconti di John Cheever, una delle ultime traduzioni portate a termine da Leonardo G. Luccone.

LB: Ti sei occupato di molti libri negli ultimi anni, traduzioni ma anche autori italiani. In molti c’è il tuo “zampino” (passami questa parola). Tra questi ci sono libri più o meno brevi. Tra i libri che rientrano nelle preferenze di questo blog, vale a dire quelli di “piccola taglia”, quali ricordi più volentieri? Perché?
RISPOSTA: Direi Zoo col semaforo di Paolo Piccirillo e quello a cui sto lavorando ora. Si tratta di un romanzo stringato e impregnante ambientato nel Polesine. Pistacchio-Toffanello, una coppia di autori che lavora con due voci facendone una. Se tutto va bene uscirà per Rizzoli nel 2014.


LB: Vi ho visto particolarmente coinvolti nell’ultima opera di Emanuele Tonon, La luce prima, uscita per Isbn. Ci racconti cos’ha di speciale il breve libro di quest’autore friulano?
RISPOSTA: La voce di uno scrittore che ha qualcosa da dire. Tonon è incantatorio. È stato per lui un libro necessario. Un libro autentico sull’amore. Forse l’unico negli ultimi anni, nonostante la parola amore impiastri molte pagine.


LB: A navigare nel sito di Oblique, lo studio di “artigianato per l’editoria” e servizi editoriali che hai fondato, si percepisce un’idea forte del mestiere editoriale e una concezione netta, pulita, con linee di forza visibili del “fare un libro”. Puoi parlarne brevemente?
RISPOSTA: Pur avvalendoci di tutte le tecnologie, riteniamo che l’editoria libraria sia un mestiere all’antica che richiede dedizione, rispetto, tenacia e abnegazione. Siamo qui per scelta. Cerchiamo di dire la nostra.


LB: Anche su quanto esce all’estero, e non solo in lingua inglese, hai sempre dimostrato attenzione. Ci sono dei libri (necessariamente brevi!) di cui vorresti caldeggiare la traduzione, sia in ambito fiction che non fiction?
RISPOSTA: Sì, ci sono molte cose brevi e brevissime che vorrei vedere pubblicate. Dei miei due preferiti non posso dirti nulla perché spero di portarle presto in Italia. Una cosa invece te la dico in anteprima. Oblique diventerà editore di ebook. Pubblicheremo anche testi brevissimi.


LB: A volte le riviste sono l’anticamera di una sigla editoriale. La tua vicenda è diversa. Da collaboratore di molte sigle editoriali sei passato, con Maurizio Ceccato, a fondare una rivista-libro assai innovativa negli intenti: Watt, un contenitore di storie e illustrazione che in un certo qual modo si avvicina alla fruizione “rapida” dei libri che trovano spazio in questo blog. Ci racconti cosa sta accadendo, le motivazioni (o le frustrazioni) che ti hanno condotto in questo percorso? Che cosa avete in serbo per i prossimi mesi? 
RISPOSTA: Le motivazioni sono tante e stimolantissime. Diventare editori, ci pensi? Essere responsabili di tutto. Era un desiderio che valeva la pena appagare. Ifix e Oblique sono due realtà talmente diverse tra loro che la loro unione in Watt non poteva che dare scintille inaspettate. Il lavoro creativo e imprenditoriale diviso esattamente a metà nella progettazione, nell’ideazione, nello scouting e nella comunicazione. La cosa più bella è che alla fine nessuno sa più dire chi ha fatto cosa. L’unica cosa che vogliamo fare nei prossimi mesi è non ripeterci e non annoiarci.

martedì 15 novembre 2011

Maurizio Ceccato in "Non capisco un'acca"












Che l’Italia sappia esprimere delle eccellenze nella progettualità grafica e nell’illustrazione editoriale è fuori discussione (per l’illustrazione, ad esempio, vi rimando a Chiara Dattola nel blogroll qui a lato mentre per la riflessione teorica a Riccardo Falcinelli, art director di Minimum Fax, che ha pubblicato Guardare Pensare Progettare. Neuroscienze per il design). E non serve necessariamente risalire a Bruno Munari e Albe Steiner per sostenere questo, oppure, più indietro, pensare a nomi ancora più ingombranti e fondamentali dell'arte del "fare un libro", come Aldo Manuzio o l’incisore-tipografo Giambattista Bodoni del quale Taschen ha recentemente proposto un Manual of Typography da capogiro (già... ci voleva proprio l’editore di Colonia per proporre il manuale dell’engraver di Saluzzo; a proposito, curiosa la prossimità tra il verbo engrave e grave nella lingua inglese... si scava in entrambi i casi!). Vero altresì che, come in tantissimi altri ambiti, l’Italia è stata anche fertile terreno di conquista da parte di grandi personalità che venivano da fuori (i nomi di John Alcorn per Mondadori o Bob Noorda per Feltrinelli salgono rapidamente in cima alla lista). La storia del nostro paese e quella del design (editoriale incluso) sono universalmente note e non serve qui proseguire su questa scia. Recentemente è circolato il numero zero di Watt, la rivista fondata da Leonardo G. Luccone di Oblique Studio e Maurizio Ceccato di Ifix, un microcosmo di narrazione e vera esplosione grafica. Proprio Maurizio Ceccato, per anni art director di Fazi, è una delle personalità di spicco dell’attuale panorama.



Un inciso. Ricordo il sito in cui si presentava con “Maurizio Ceccato è morto”. Lo ritenni un colpo di genio. Non so se fosse quello che intendeva Ceccato, ma mi ha portato a riflettere sul come gestire tra qualche decennio la nostra uscita di scena da una vita che è sempre più in rete. Come farà notizia la morte in rete? Intendo anche e soprattutto la morte di persone non celebri. Sorgeranno forse delle pompe funebri virtuali che si preoccuperanno di ripulire la nostra imbarazzante carcassa internettiana? Se non ricordo male esistono già degli archivi “segreti” (in sostanza dei siti a pagamento) ai quali affidare “in custodia testamentare” eventuali login e password delle nostre identità digitali.


Non capisco un’acca (Hacca, pp. 96, euro 16) non è un libro di grafica editoriale o teoria del design (le tiene già in sé, ampiamente digerite), come la mia introduzione potrebbe lasciar intendere. Questo è un libro d’artista, un’aporia vivacissima fuoriuscita dal cervello di un controllatissimo anarchico della visione. Vi ricordate Palazzeschi? Ripensateci quando vi donate la lettura di queste quasi-filastrocche finalmente libere da “target” anagrafici o di genere (in editoria non è scontato, nei veri artisti invece è già una situazione più frequente!). Inutile aggiungere che la storia dell’inutile, muta lettera H è il filo che lega queste pagine zeppe di meraviglie… ed è anche il nome della casa editrice che pubblica il testo per la quale Ceccato ha già licenziato memorabili esemplari di recente grafica editoriale.


Se vi capiterà, avvicinatevi a questo libro come esplorazione estrema della forma-libro. Ne aveva già accennato anche Matteo Codignola di Adelphi in un’intervista qui pubblicata: il libro è una forma e come tale la possiamo ancora avvicinare. Aggiungo io che possiamo avvicinarla fiduciosi e prudenti, innovando e tramandando, scardinando fellinianamente e oniricamente le regole, per saggiarne ancora nuove possibilità. D’accordo, un libro d’artista rimane un libro d’artista, una cosa diversa dai libri di cui ho scritto fino a qui… ma comunque una delle forme del libro. L’Ariosto scriveva “Chi leva la H all'huomo non si conosce huomo, e chi la leva all'honore, non è degno di honore”. Davvero fa bene, ogni tanto, perdersi nelle storie affascinanti delle lettere (dell'alfabeto). Ecco un bel binomio ipotetico di avvicinamento, Ariosto e Ceccato! Lasciateli divertire!

mercoledì 18 maggio 2011

Carne elettrica. Claro nella collana Gog di Nutrimenti



La copertine delle edizioni italiana e  francese a confronto.

E dopo Madman Bovary venne Chair électrique. La cifra del pun, del gioco linguistico, ritorna nelle titolazioni dei libri di questo funambolico scrittore francese. “Chair” in francese significa “carne”, ma è evidente come il riferimento sia alla “electric chair”, tanto famigerata quanto presenza stranamente insolita nella letteratura americana.
Il pun ci introduce immediatamente nell’universo di Carne elettrica (Nutrimenti, collana Gog, cura di L.G. Luccone, pag. 100, euro 14). Qui la lingua è centrale, protagonista indiscutibile, come è giusto che sia: spesso ce ne dimentichiamo, distratti dalle storie e dal loro appiccicoso protagonismo, ma la lingua e il suo altrettanto appiccicoso protoganismo devono rimanere centrali, se la letturatura ci interessa ancora per davvero. E se questa lingua scoppiettante, nervosa e viscerale passa anche attraverso la traduzione, significa che Stefania Ricciardi ha dato riprova di essere una brava traduttrice (Lolita Pille, il forse sottovalutato Didier van Cauwelaert, Caroline Lamarche e Karine Tuil sono i nomi degli autori su cui si è cimentata), sicuramente consapevole di cimentarsi a sua volta con il traduttore francese di Barth, Pynchon e Rushdie.

Cosa succede in Carne elettrica? Il boia Howard Hordinary rimane disoccupato. Lo stato per il quale lavora abbandona la sedia elettrica per un’altra arma letale: l’iniezione. H.H. passa quindi la vita a collezionare: ecco allora la sua vita popolata con il primo esemplare di sedia elettrica e con altri cimeli del mago Houdini (ancora le iniziali H.H. che ritornano), del quale si dice discendente. Altra presenza fondamentale di questa storia è Thomas Edison. Il nostro Howard trascorre il suo tempo in cantina, in un ossequio feticista verso queste due ingombranti figure: la prima, Houdini, il mago escapologo, è probabilmente una metafora riuscita della scrittura e dell'intimo funzionamento della lingua; la seconda, Edison, fu a capo di quella équipe di scienzati che si prodigò in mille sperimentazioni di questa macchina mortale usando come cavie animali di ogni tipo e viene assunto a principale esponente di una barbarie e di una follia soltanto umana. Al lettore il gusto scoprire i motivi e gli intrecci di Claro. Howard, il nostro disoccupato protagonista, si siede sulla sedia, si procura la scossa e inizia degli allucinati trip che intersecano la sua storia a quelle del mago e dello scienziato.

Qualche post fa, recensendo il libro di Enrico Bellone, ci siamo trovati a parlare di “mente incarnata”. Proviamo a vedere applicata questa suggestione al libro di Claro, proviamo a leggerlo pensando che la scrittura sia il corpo e che la lingua sia una specie di strumento di tortura a disposizione dell’autore sul proprio corpo, tanto che Claro stesso ne ha parlato in termini di romanzo “sur les différentes vitesses qu'un corps peut endurer pour échapper à lui-même”.

E infine lasciatemi divertire! Quando questo blog è partito ho scritto che mi sarei ritrovato talvolta a parlare anche di progetto grafico nel suo complesso. Con la collana Gog di Nutrimenti mi sento di segnalare uno dei più interessanti esperimenti di questi anni: nome della collana (omaggio a Giovanni Papini), carta povera della copertina, lettering dedicato, illustrazioni esterne e interne, una consapevolezza di quella cultura tipografica che ha fatto grande l’Italia nel mondo reperibile persino nei titoli di coda del libro: tutto pare concorrere ad un metodo di lavoro che si può immaginare olistico, dove un continuo scambio tra curatore, traduttore, illustratore e casa editrice consente di offrire qualcosa di più che un semplice testo dentro un semplice packaging. Qui si percepisce ancora passione, amore per il proprio mestiere. Peccato che la collaborazione tra Leonardo G. Luccone e Nutrimenti si sia da poco interrotta. Per Luccone inizia la nuova avventura della rivista Watt, coadiuvato dalla grande esperienza in ambito grafico di Maurizio Ceccato.