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lunedì 1 ottobre 2018

"Paura della libertà" di Carlo Levi ritorna nel catalogo di Neri Pozza

Carlo Levi scrisse i capitoli di Paura della libertà nell'inverno del 1939-40, nelle settimane che vedevano l'esercito tedesco avanzare in Polonia e la Francia, dove risiedeva come esule, prepararsi a una capitolazione assai prossima. Lo scrittore, trentasettenne, si trovava in Bretagna a Le Baule, e provò un urgente bisogno di fissare questa "confessione", come la definisce lui stesso nella nota introduttiva alla prima edizione del dopoguerra. Sempre nella nota scopriamo che quello che ci resta è soltanto un progetto di scrittura interrotto, un abbozzo di un libro che voleva essere molto più ampio, ma che a guerra terminata, nel 1946, anno della prima edizione, si rivelò essere bastevole. Fino a qualche tempo fa, chi voleva tornare su queste pagine fondamentali di Levi doveva passare per l'arancione "Reprints" di Einaudi del 1964, riproposta anche negli anni Settanta e Ottanta. Ora l'opera passa di catalogo e compare in quello di Neri Pozza, con una prefazione di Giorgio Agamben (pp. 160, euro 15), filosofo che, come noto, ha all'attivo una collaborazione con questa casa editrice per la quale dirige anche la collana "La quarta prosa". Per molti versi Paura della libertà è un abbecedario della crisi e della catastrofe mondiale - non soltanto europea, come potrebbe apparire d'acchito - e appare ancor più impressionante se collocato nella stagione in cui fu scritto e se consideriamo la tutto sommato giovane età dell'autore (ma a ben pensarci è solamente oggi che si è "giovani autori" anche a 37 anni e Leopardi del resto, quando spirava a Napoli nel 1837, ne aveva 39). Il tempo forse ricolloca le opere anche in un percorso di riavvicinamento, ma colpisce la latitanza di questo titolo se consideriamo che qui Levi fonda il proprio pensiero su Stato, guerra, arte, massa (da leggere vicino a quanto avevano scritto o andavano scrivendo José Ortega y Gasset o Elias Canetti) e religione, con un millimetrico esordio su sacro, riti e sacrifici nel virgiliano primo capitolo "Ab Jove principium".


La prima edizione del 1946


Eppure c'è da dire che alcuni libri ritornano al momento giusto, quando alcuni detrattori, tra cui i fan di una certa frangia critica marxista, sono a loro volta capitolati. Il solo titolo di quest'opera basta ad aprire una voragine che risucchia anche il presente. I gangli fondamentali di questa riflessione che è storica, filosofica e antropologica consentono l'articolazione e il movimento del pensiero leviano su uno spazio tridimensionale che raduna gli aspetti essenziali dell'umano. E la crisi che individua e di cui ci parla è in fondo una crisi del cuore e del fegato dell'uomo, nulla più. Certo, messa così è semplice e banale, ma basti per dire che non è tanto esternamente che vanno ricercate le cause della decadenza e di una crisi che non si arresta più: la paura della libertà ha condotto a quel mondo che stava sfracellandosi proprio negli attimi in cui Levi vergava le pagine di questo saggio e la paura della libertà è quanto troviamo all'origine di nuove inaudite catastrofi. Paura della libertà è un libro difficilmente collocabile e difficilmente definibile, spinoso. L'autore parlò di "poema filosofico", ma si capisce che ogni definizione sta stretta. Lo considerava una delle sue scritture più importanti. Sarebbe interessante capire quali erano le fonti e le letture che l'autore stava rielaborando in quegli anni, proprio alla luce di quanto espone in questo libro scritto "in quel punto della vita dove non si può più guardare indietro". Carlo Levi ricorda, a tal proposito: "mi trovavo solo su quella spiaggia deserta, in un freddo autunno, pieno di vento e di piogge. Se il passato era morto, il presente incerto e terribile, il futuro misterioso, si sentiva il bisogno di fare il punto”. Dalla scrittura alla pubblicazione vi fu lo iato inenarrabile della guerra, circa 7 anni. Arrivò nel 1946, l'anno dopo il fortunato Cristo si è fermato a Eboli, il cui successo destabilizzò tutti, compresi gli esponenti di spicco dell'ambiente einaudiano. Data la sua caratterizzazione vacillante di confessione e testimonianza, Paura della libertà fu accolto sostanzialmente male e fu un flop, un "long-flop" per certi versi. Eppure la rimanenza sottotraccia, anche tra i "Reprints", ci dice forse che queste pagine hanno sempre parlato a chi si avvicinava loro. Oggi il ritorno su questa prosa riproposta da Neri Pozza, più che a un doveroso tributo o risarcimento, assomiglia a un'ultima chiamata.

venerdì 19 dicembre 2014

"I generi letterari e la loro origine" di Enzo Melandri

"Resta il fatto che il linguaggio, attraverso l’anima, può dire di tutto ciò che esiste al mondo e in questo senso esprimere il mondo, però non può dire il suo rapporto con quel totale che pure, bene o male, esprime". Basterebbero queste poche righe di Enzo Melandri, che quasi riecheggiano anche certi approdi della fisica novecentesca, per convincerci della necessità di affrontare questo piccolo ma fondamentale libro sui generi letterari e sulla loro origine. I generi letterari e la loro origine (pp. 120, euro 13,50, con una prefazione di Giorgio Agamben) è uscito da Quodlibet e, sulla scia del titolo che porta, si apre sotto il segno di Croce e della sua avversione per i generi letterari e, prima ancora, con un'epigrafe benjaminiana che distingue fra genesi e origine: "Quantunque categoria del tutto storica, l'origine non ha nulla in comune con la genesi. L'origine non comprende il divenire di quanto è nato, ma piuttosto sottintende qualcosa di sorgivo nel suo crescere e appassire. L'origine sta come un vortice nel flusso del divenire e trascina col ritmo suo proprio il materiale genetico".

Questa nuova edizione stampata a settembre scorso rientra in un meritorio processo di riproposizione che l'agambiana casa editrice maceratese sta compiendo, sin dalla pubblicazione dell'opera più nota e maggiore del nostro filosofo, per decenni docente nell'ateneo bolognese, La linea e il circolo del 1968. Questo breve testo vide la luce nel 1980 nella rivista "Lingua e stile" edita da Il Mulino e forse fu risultato di riordinamento delle tante e proverbiali schede che puntellavano sempre la scrittura di Melandri.  Non si tratta quindi, almeno originariamente, di un libro, bensì di un corposo studio uscito dapprima su rivista.

Se diciamo che confrontarsi con i generi letterari non è affatto lezioso rischiamo di coprirci di ridicolo, se poi lo facciamo dando notizia di questo libro rischiamo davvero di sprofondare. Eppure c'è qualcosa di mai risolto nel nostro accoglimento del fatto che esistano differenti generi letterari e quest'esistenza di generi differenti rappresenta un problema che - si abbia il coraggio di dire - né la storia della letteratura né la comparatistica hanno affrontato pienamente e con una strumentazione adeguata. Per Melandri questo problema di storia della letteratura ricade in un solco che è precipuamente di filosofia (filosofia del linguaggio, se volete, anche se forse non ha senso continuare a distinguere filosofie tenendole separate con apposite etichette), e ha inoltre a che fare con la natura imprecisa del linguaggio. Un libro che quindi si sofferma sull'impossibilità per il linguaggio di dire il proprio rapporto col mondo, sulla frattura esprimere/dire, sull'impossibilità di far collimare mimesi e conoscenza. Il linguaggio sta allora tra uomo e mondo ma in una relazione col mondo che resta nel non detto.

In queste pagine il traduttore de Il volto demoniaco del potere di Gerhard Ritter (libro importantissimo per provare a capire cosa accadeva in Europa tra le due guerre partendo da Machiavelli, Moro e Erasmo e testimonianza dello spettro larghissimo di interesse della sua speculazione e formazione) porta a compimento un'altra passeggiata contro il simbolico. Confrontandosi con un problema che si ritiene spesso squisitamente letterario, Melandri arriva a tratteggiare i vari generi che passa in rassegna quasi come cicatrici, incidenti, forme sicuramente, ma soprattutto come una sorta di rinculo che ogni colpo di esperienza del limite del linguaggio scarica e incide sulla polpa del linguaggio e delle lingue stesse, all'interno di questa già citata cornice in cui il linguaggio dice il mondo ma mai il suo rapporto con esso. Ne consegue (conseguirebbe) anche un possibile dibattito, oggi forse ignorato e nemmeno tentato, sulla stabilità di queste forme e sul loro futuro. Perché appare chiaro, leggendo questo articolo ora proposto come libro, che ciò che sta a cuore alla speculazione di Melandri, nonostante l'affondo che guarda necessariamente al passato, è invece la futura forma che potrà prendere quel triangolo i cui vertici  costituiti da pensiero, linguaggio ed essere vanno sempre a riposizionarsi e a disegnare nuovi generi di letteratura, nuovi triangoli: isosceli equilateri o scaleni ma, soprattutto, acutangoli retti o ottusangoli. Sono interrogativi che nascono da uno stupore o, come potrebbe dire Valéry, interrogativi che incominciano con un'interruzione.