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giovedì 7 aprile 2016

Il canto della perla (Acta Thomae 108-113)

Riletture di classici o quasi classici (dentro o fuori catalogo) #29


Il canto - o inno - della perla è un titolo moderno. Si tratta di una breve storia in versi composta originariamente in siriaco e giunta a noi anche in greco. E in greco è il testo a fronte che troviamo in questa edizione pubblicata da Il Melangolo nel 2005 (pp. 56, euro 10, a cura di Carlo Angelino, libro ancora in commercio). La copertina riporta tra parentesi "(Acta Thomae 108-113)" poiché tra questi fogli degli "Atti" apocrifi dell'apostolo Tommaso tale testo è collocato. Negli "Atti" ci si riferisce a questo testo come "Canto dell'apostolo Giuda Tommaso nella terra degli Indiani". Il canto della perla è proposto a noi lettori italiani del Ventunesimo secolo come "capolavoro della poesia religiosa gnostica [...] testo fondamentale della storia delle origini cristiane e l'essenziale anello di congiunzione fra il cristianesimo e la religione di Mani." Tutto questo concorre a farne storicamente un denso incrocio, caricato di valenze plurime, collocato in quei primi secoli sincretici dopo Cristo sui quali non torniamo mai abbastanza.

La favola simbolica consegnata a queste pagine è tracciata attorno a un immaginario che riprende vari elementi della letteratura cristiana delle origini e della coeva letteratura gnostica, che proprio tra il secondo e quarto secolo dopo Cristo toccò apice e fervore. Tra i simboli vanno ascritti la perla del titolo, oggetto che il protagonista deve recuperare in Egitto per poter tornare a Oriente ed essere erede del regno del Padre, il mare, il serpente, una sbuffante creatura degli inferi che custodisce la perla, e l'Egitto stesso, spesso considerato nell'antichità regno del materiale ma anche della morte, una sorta di meta di pellegrinaggio d'oltretomba, che ricollega questo Canto con un fitto reticolo di miti greci, babilonesi e naturalmente al Libro dell'Esodo. C'è la figura centrale del figlio, protagonista mandato in viaggio, il ricorso al "travestimento" in una terra straniera, l'essere comunque riconosciuto come straniero dalla popolazione locale che cerca di addomesticarlo con carni e bevande, il cadere prigioniero e servitore di quel popolo e di un altro re (e qui s'infittisce una serie di immagini relative al sonno e al torpore, a quella stanchezza che è così prossima alla dimenticanza e alla morte), la dimenticanza del motivo della missione e l'avvicinarsi del fallimento di questa, ai quali però pone rimedio una tempestiva lettera mistica e salvifica, inviata dai genitori informati dell'accaduto e levatasi in forma di aquila, chiusa con un sigillo forte che solo il protagonista sa rompere.

E la perla del titolo, che come ricordato è titolo moderno? Gli esegeti del testo hanno molto dibattuto sulla valenza allegorica e simbolica della perla, oggetto della ricerca, cercando di allontanare via via un parallelismo tra la sua ricerca e una concezione cristiana di viaggio e esilio terreno come espiazione e prova di sofferenza. Il rimando all'"anima" rappresentata dalla perla è lì, nella sua evidenza sferica. Sono molte le strade che ci possono ricondurre a quei primi secoli dopo Cristo, in cui si situa anche questo breve testo privo di cosmogonia che per alcuni studiosi è da datare prima degli "Atti" dell'apostolo Tommaso. Senza poter approfondire le diramazioni che dalla Genesi e dalla Lettera ai Filippesi portano e riconducono alle diverse storie dei "messaggeri di salvezza" e anche a questo testo delle origini del cristianesimo, Carlo Angelino ha concluso la sua nota scrivendo
[...]  vale piuttosto la pena di sottolineare come all'origine di questi testi vi sia un'identica esperienza del Religioso e un identico statuto di pensiero, dei quali è soggetto la Sapienza stessa, ovvero l'idea che la sapienza di cui è partecipe l'uomo mortale, altro non sia che la stessa sapienza non-mortale di dio prigioniera del mondo mortale; senza questa idea filosofica, nessuna cristologia sarebbe stata possibile, e neppure la favola che il Canto della perla ci narra con la stessa seduzione e lo stesso mistero delle età che confinano con la nascita del primo uomo.
Da questo passo che si ferma sul "primo uomo" - quest'io del mondo appartente al divino (e che fra l'altro ha interessanti analogie con il libro di Albert Camus intitolato proprio Il primo uomo e incentrato sul rapporto tra figlio e padre morto durante la Prima guerra mondiale) - sarebbe quanto mai opportuno concludere che anche la gnosi e lo studio di quei secoli che la avvolgono debbano finalmente uscire dalle assurde nebbie esoterico-iniziatiche che, ancora compiaciute quasi duemila anni dopo, talvolta persistono nel loro orizzonte. Lo studioso italiano a cui dobbiamo di più in questo versante, Luigi Moraldi, ricorda ad esempio come la basilica di Aquileia conservasse illustri tentativi di penetrazione cristiana mediante i simboli della gnosi, "simboli fantastici, affascinanti, profondi". Un messaggio troppo arduo da comprendere, al quale si preferì un armamentario più alla mano (per chi desidera, si può leggere qui, alla fine).

lunedì 19 ottobre 2015

"L'airone" di Giorgio Bassani: le allucinazioni della tassidermia trascinate per la bassa ferrarese

Riletture di classici o quasi classici (dentro o fuori catalogo) #28


Non c'entra nulla la copertina dell'edizione Universale Economica Feltrinelli, è fuorviante, scentrata e in fondo assai brutta. Bisognerebbe suggerire a chi si occupa di grafica editoriale di farsi almeno raccontare il libro su cui lavora o di cercare qualche stralcio di trama in rete, a maggior ragione se veste i libri di una casa editrice che a suo tempo, come altre, fece scuola anche nella grafica editoriale. Poi si sa che le banche dati di immagini usate per la grafica sono simpatiche e comode: si digita una parola-chiave, "airone" ad esempio, e il motore di ricerca restituisce un'infinità di immagini di aironi, in ogni salsa. L'airone, animale cacciato, simbolo e titolo di questo romanzo, deve finire imbalsamato. Una statuina su un piedistallo non ci azzecca per niente e qualcuno avrebbe potuto fermare questa copertina, dal momento che nelle case editrici maggiori dovrebbero ancora funzionare dei meccanismi di ridondanza ciclica e controllo, in un processo che si crede ancora "di squadra" (o forse non lo è più?). Nel romanzo, bellissimo, troviamo quest'uccello dentro la descrizione di un volo strano, stanco, e certo non fermo con il becco verticale. L'airone appare al centro della narrazione, poco prima di essere abbattuto nelle valli della bassa ferrarese, e poi lo immaginiamo nel bagagliaio di un'automobile, in attesa di essere sottoposto a tassidermia ("Veniva avanti con fatica evidente, arrancando. Il collo lungo a esse, stretto fra le scapole; le vaste ali marrone, di una pesantezza da stoffa, aperte a tirarsi sotto la pancia il maggior volume di aria possibile: sembrava non farcela a tagliare di traverso il vento, e anzi in procinto ad ogni istante di venire travolto, d'essere spazzato via come uno straccio"). Insomma, non ci siamo proprio con quest'immagine che illustra l'edizione economica de L'airone di Giorgio Bassani (pp. 134, euro 7), quinto libro del secondo ciclo de Il romanzo di Ferrara. Ci tenevo a dirlo, perché è un libro importante.

Succede che si possano tirar fuori le cose migliori insistendo con una storia tutta tesa nell'arco di una giornata. Come scrivevo un anno fa circa, il Calvino più interessante resta a mio avviso quello inquieto e destabilizzato de La giornata d'uno scrutatore. D'accordo, mi diranno i più accorti, prima c'era stata la giornata dell'Ulisse joyciano, ma vorrei evitare di risalire a tanto e mi tengo i casi in cui il romanzo breve (o il racconto lungo e la novella, come in Pirandello) si sforza di dare tutto in un giorno. Così accade anche nella storia di Edgardo Limentani, proprietario terriero ferrarese che si sveglia prestissimo in una domenica d'inverno del 1947 per riprendere un'abitudine da tempo tralasciata: la caccia in botte nelle valli del Po. Assistiamo, attraverso il solito ralenti notomizzante bassaniano, ai gesti che seguono una precoce sveglia, veniamo a conoscenza delle sue difficoltà di liberare l'intestino (e sarà una costante per tutta la fastidiosa giornata che lo attende, che ha per contrappeso l'abbuffata nauseata e annaffiata dal molto vino del pomeriggio). E - solo per completare il tratteggio della trama - lo seguiamo lasciare presto la casa dove abitano la moglie ormai distaccata, la figlia e la vecchia madre e dirigersi verso le valli della bassa ferrarese. La tenuta denominata "Montina", Codigoro, Pomposa e Volano: l'azione si svolge circa in questo poligono. La caccia in valle in compagnia di una guida messa a disposizione da un cugino recentemente riallacciato inizia tardi, molto più tardi rispetto a quanto previsto da una decente tabella di marcia di cacciatore in valle. Già in questo indugiare della prima parte del romanzo si profila il senso di malessere e disgusto acuto che porterà il protagonista al suicidio, gesto in realtà non narrato ma descritto meticolosamente nella preparazione (il libro si tronca infatti con un abituale colloquio a tarda sera tra il protagonista e la madre e, a conti fatti, il suicidio vero e proprio non è narrato). La caccia termina nel primo pomeriggio, quando il protagonista si dirige con molta fame verso un ristorante gestito da un ex fascista, mangia e beve e si corica a letto, al piano di sopra, per dormire in realtà pochissimo, disturbato da un sogno in cui entra la prostituta intravista durante il pasto. Di qui il ritorno all'aperto, la parte più bella e decisiva del libro, il guadagno di una felicità nella risolutezza di compiere un gesto. Spicca la stupenda scena della vetrina del negozio dell'imbalsamatore, e il lento, buio ritorno alla casa, quando Edgardo salterà la cena.


L'airone è naturalmente il termine di similitudine col protagonista. La "famosa vita" (stupenda quest'espressione usata da Bassani, a maggior ragione per il punto del soliloquio in cui la gioca) è assimilabile al volo di quell'uccello intravisto in valle. Romanzo del paesaggio depresso e bonificato accorciato dalla scarsa luce, in cui la geografia della bassa ferrarese e delle valli del Po si trasforma in un'ossessione e in uno specchio, ora concavo ora convesso, in grado di avvicinare alla morte allontanando dalla vita (eppure, proprio in virtù di questa detta lentezza, di compiere quasi il miracolo del viceversa), L'airone assomma in sé alcuni tratti salienti della prosa del Novecento, da Pirandello a Camus, iniettando nell'Italia della fine dei Sessanta - con questo libro Bassani vinse il Campiello nel 1969 - un ripensamento di quella membrana d'anni tra la fine della guerra e l'avvio repubblicano. La lenta e straziante scena dell'airone abbattuto dalla guida Gavino, ex partigiano, narra dell'incrocio di quattro occhi animali malati e resta un frangente alto, in volo, nella prosa del secolo scorso. Ciò che Bassani ha saputo colpire e centrare davvero con questo romanzo è il sentimento che può scaturire dal vero incontro di occhi umani e animali a tiro, ma anche dall'incrocio con gli occhi di animali sottoposti a tassidermia, in un processo progressivamente allucinatorio. Inoltre - e non è poco - Bassani ha saputo porre, con questo romanzo tutto incentrato sul morire, sulla purezza-bellezza-durezza delle ossa dei morti, una nuova domanda davvero animale alla "famosa vita".

mercoledì 27 agosto 2014

Nuove poesie di Hilde Domin proposte da Del Vecchio Editore in "Lettera su un altro continente"

"Neue Wege möchte ich finden / schmerzhaft ungegangene / vom Du zum Ich. // Keine Handbreit an mir / die deinem Eintritt widersteht." ("Vorrei trovare nuove strade / dolorosamente inesplorate / da me a te. // Nessuna mano su di me / a opporsi / al tuo ingresso."). Per iniziare ho scelto una delle molte poesie contenute in questo stupendo Lettera su un altro continente (pp. 416, € 16,50, a cura di Paola Del Zoppo, traduzione di Ondina Granato, con testo tedesco a fronte) pubblicato da Del Vecchio Editore, il terzo dedicato a Hilde Domin, dopo le belle sorprese di Alla fine è la parola (2013) e Con l'avallo delle nuvole (2011), usciti sempre per lo stesso editore, quasi a segnare un percorso di progettualità e costanza che di questi tempi sembra uscito più da Marte che dai calderoni dell'editoria italica. (Bellissima anche la veste grafica, tra le più innovative tra quelle intercettate negli ultimi tempi; non a caso dietro c'è la mano e il pensiero di Maurizio Ceccato.) Il volume racchiude tre raccolte: Qui (1964), Figure rupestri (1968) e Ti voglio (1970, poi ampliata nell'edizione tascabile del 1995). Visto che il sottotitolo di Librobreve chiama in causa le palpebre vorrei proseguire con un altro distillatissimo saggio di quello che offre la poesia della Domin, anche nei momenti di massima brevità e "economia" di mezzi:

Strappa la palpebra

Strappa la palpebra:
spavèntati.


Ricuciti la palpebra:
sogna.


Schneide das Augenlid ab

Schneide das Augenlid ab:
fürchte dich.


Nähe dein Augenlid an:
träume.


Ma torniamo al volume che è caratterizzato, a mio modo di leggere, da una scelta di essenzialità, nella lingua e quindi nella poesia, la quale rimane ovunque una profonda, intima necessità della lingua (intendo che non so dire se lingua e poesia sono nate "spaiate" e che spesso dubito siano nate assieme). Apprezzabile è l'inserimento in questa edizione di alcune lettere e di un contributo critico specifico che riporta alla centralità del mito di Sisifo. Immediato e non azzardato diventa allora  un ragionamento che coinvolge anche il quasi coetaneo Camus. Ma se nello scrittore francese Sisifo è il motivo per compiere una ricognizione su una vasta letteratura e filosofia e per enunciare i temi che riguarderanno la scrittura camusiana per gli anni a venire (tra questi l'assurdo e il suicidio), per Domin Sisifo è punto di partenza per provare a dire al condizione del poeta, ovvero Sisifo come "metafora della capacità di resistenza". Proprio questo si evince dalla lettura del contributo utilmente racchiuso in questo libro e intitolato Sisifo: lo sforzo quotidiano di fare l'impossibile, lezione francofortese del 1988. Domin scrive anche che "In questo secolo, secolo dei profughi, il soggetto di Sisifo è di estrema attualità. Il paradosso dell’esistenza viene simboleggiato dal profugo ogni giorno." Ed è proprio in questo punto di questo interessante saggio-lezione che Hilde Domin si confronta non solo con Camus ma anche con Roger Caillois, autore de Le rocher de Sisyphe uscito in Argentina nel 1942, stesso annus horribilis dello scritto di Camus, per la precisione a Buenos Aires dove Caillois si trovava in esilio. In tutto questo ragionamento attorno a Sisifo, resta emblematica la poesia che ricorre alla figura biblica di Abele:

Abele àlzati

Abele àlzati
bisogna ricominciare da capo
ogni giorno bisogna ricominciare da capo
ogni giorno la risposta deve essere ancora davanti a noi
la risposta deve poter essere sì
se non ti alzi Abele
come può la risposta
questa unica risposta importante
cambiare
noi possiamo chiudere tutte le chiese
e abolire tutti i codici
in tutte le lingue della terra
se tu solo ti alzi
e torni sui tuoi passi
la prima risposta falsa
all’unica domanda
da cui tutto dipende
àlzati
affinché Caino dica
affinché possa dirlo
Io sono il tuo custode
fratello
come potrei non essere il tuo custode
Àlzati ogni giorno
affinché possiamo avere davanti a noi
questo sì io sono qui
io
tuo fratello

Affinché i figli di Abele
non abbiano più paura
perché Caino non diventa Caino
Io scrivo questo
un figlio di Abele
e ogni giorno temo
la risposta
nei miei polmoni l’aria diminuisce
mentre aspetto la risposta

Abele àlzati
affinché si possa ricominciare
tra tutti noi

I fuochi che bruciano
il fuoco che brucia sulla terra
deve essere il fuoco di Abele

E nella coda dei razzi
devono esserci i fuochi di Abele


Abel steh auf

Abel steh auf
es muß neu gespielt werden
täglich muß es neu gespielt werden
täglich muß die Antwort noch vor uns sein
die Antwort muß ja sein können
wenn du nicht aufstehst Abel
wie soll die Antwort
diese einzig wichtige Antwort
sich je verändern
wir können alle Kirchen schließen
und alle Gesetzbücher abschaffen
in allen Sprachen der Erde
wenn du nur aufstehst
und es rückgängig machst
die erste falsche Antwort
auf die einzige Frage
auf die es ankommt
steh auf
damit Kain sagt
damit er es sagen kann
Ich bin dein Hüter
Bruder
wie sollte ich nicht dein Hüter sein
Täglich steh auf
damit wir es vor uns haben
dies Ja ich bin hier
ich
dein Bruder
Damit die Kinder Abels
sich nicht mehr fürchten
weil Kain nicht Kain wird
Ich schreibe dies
ich ein Kind Abels
und fürchte mich täglich
vor der Antwort
die Luft in meiner Lunge wird weniger
wie ich auf die Antwort warte

Abel steh auf
damit es anders anfängt
zwischen uns allen

Die Feuer die brennen
das Feuer das brennt auf der Erde
soll das Feuer von Abel sein

Und am Schwanz der Raketen
sollen die Feuer von Abel sein


Poesia scritta con la testa alta e un piede nell'aria ("ich setzte ein Fuss in die Luft"), la lirica dominiana è popolata di simboli, miti, animali, ricorrenze e luoghi che salgono in rami progressivamente sfrondati da ogni punteggiatura. Ricorda Paola Del Zoppo nella sua documentatissima prefazione al volume che "Hilde Domin è ancora poco conosciuta in Italia, e appare necessario riempire il vuoto generato dalla errata o sporadica ricezione delle poetesse e intellettuali tedesche di cultura ebraica, restituendo alla giusta dimensione la concezione della loro poesia nella sua interezza e illuminando una direzione lirica talvolta profondamente diversa rispetto ai – grandissimi – poeti più noti, e cioè quell’atteggiamento definito in Hilde Domin “poetica del ritorno”. È un atteggiamento di energica presa di coscienza e grande coraggio nel riconoscimento della tragedia e nella volontà e capacità di riappropriazione e ribaltamento dei rapporti di forza; una presa di coscienza che trova il suo terreno più fertile nella possibilità espressiva e creatrice della parola poetica, parola madre e creatrice per eccellenza, che si innesta in un non–luogo al di là dei limiti, nell’“aria” [...]".

Solo in chiusura, e prima di lasciarvi ad un video con la sua voce, sia dato qualche cenno sulla biografia della scrittrice, per fornire qualche coordinata storica supplementare e vista anche la sostanziale novità della proposta dell'editore Del Vecchio (come ricorda Paola Del Zoppo, di Hilde Domin in Italia si è iniziato a parlare e scrivere da pochissimo). Partiamo ad esempio dalla formazione, se vogliamo non "ortodossa" per una scrittrice del Novecento, con giurisprudenza, teoria economica e sociologia a Heidelberg (qui conosce Erwin Walter Palm, studente d’archeologia e futuro marito e frequenta il pensiero di Jaspers). Con l'ascesa di Hitler i Palm si spostano prima a Roma, poi a Firenze e infine in Inghilterra. Nel 1940 l'approdo nella Repubblica Dominicana (di qui anche il cognome "Domin", quasi come un segno di gratitudine). Il rimpatrio si situa, come per altri intellettuali e scrittori, nel decennio dei Cinquanta. A questi frangenti risalgono le prime pubblicazioni su rivista (la prestigiosa e fondamentale «Akzente» e «Neue Rundschau») e le prime raccolte poetiche in volume. Nell'anno del crollo del muro di Berlino riceve in assegnamento la cattedra di Poetica all’università di Magonza. Nella città in cui aveva studiato e conosciuto il marito Hilde Domin è morta nel febbraio del 2006.

 

giovedì 1 maggio 2014

Traviso per Edizioni Prufrock spa


"Après un certain âge, tout homme est responsable de son visage."
Albert Camus, La chute

Il booktrailer di Traviso, un breve libro che uscirà a giugno
per Edizioni Prufrock spa. 

Ringrazio Luca Rizzatello e Nicola Cavallaro che con questo volume 
hanno deciso di inaugurare una nuova collana di testi poetici della casa editrice.