martedì 31 luglio 2012

Pertiche

Dovrebbe risultare disponibile tra circa un mese, per la prima decade di settembre 2012, secondo quando comunicato nella pagina del sito dell'editore, un mio breve libro di poesia intitolato Pertiche (La Vita Felice, pp. 80, euro 12). Ringrazio da qui Diana Battaggia di La Vita Felice, l'artista Ivan De Menis per l'immagine di copertina e Gian Mario Villalta per le pagine introduttive delle quali riporto lo stesso stralcio presente nel sito dell'editore.


[...] nei luoghi dove vive Cellotto la pertica è un’unità di misura geometrica che riguarda gli appezzamenti di terra. Misura orizzontale, quindi, rasoterra, a cui si contrappone la verticalità di una pertica che invece sta infissa nella terra di quel tanto che occorre a sorreggersi e a reggere, a marcare un confine o stabilire un punto notevole dal quale traguardare altre distanze. Il sempre rinnovato punto di partenza di queste poesie credo sia proprio qui, e da qui detti il suo passo versuale e verbale: riconoscere, definire uno spazio, con questo singolare sistema di misurazione orizzontale/verticale, entro il quale catturare un tempo che moltiplica e confonde i suoi contorni.
Prevale [...] il senso di una fatica, di una spossatezza, inoltre, nel costante sforzo di collocarsi, di indovinare una geometria di punti che, collegati, tengano insieme parole e cose, volti, alberi, animali. E quasi scompare la dimensione del passato, inteso come qualcosa di certo, che si possiede individualmente e si condivide con altri.
[...] nel respiro più ampio del poemetto (ultima sezione), nel procedere delle concentratissime stanze di sei versi, si riassumono i tratti stilistici salienti della parola di Cellotto. [...] Da qui, dal recupero di una voce che ha bisogno di corporeità vera e di vero silenzio, si può rileggere dall’inizio, cogliendo con maggiore intensità il dramma di una voce che sfugge nella mente, in quella dimensione pseudonirica che sta sul limite del risveglio.

dalla prefazione di G.M. Villalta




ZIMMER FREI

A Luigi Ghirri



Le cose possono esistere quel tanto
che basta e stare così.
Come l’enorme parcheggio per camion
del ristorante-pizzeria, con camere,
chiuso per sempre, sia
la statale la Valsugana
o la Romea, quel binario
unico che s’infila contro
le auto e l’umido in prati, o il delta
del Po. I colori
esistono quel poco
che a loro basta; sostano come
le arance d’inverno e i meloni
tagliati in estate, lungo
le statali, nelle cassette
rivivono un raggio di capelli
di chi vende, di chi passa e vede, di chi
resta. Poi le frecce, le linee gialle
sull’asfalto, le macchie d’olio già
continenti in assetto di guerra,
un pettine sulle strisce pedonali
cancellate quel tanto che basta:
segnaletiche provvisorie che c’erano
e ci sono ancora.

giovedì 26 luglio 2012

La pianura in fiamme: 15 libri per l'estate, a partire da Juan Rulfo


Quanti di voi si saranno innamorati di Pedro Páramo di Juan Rulfo? Non so perché quando penso a Rulfo faccio involontari collegamenti epidermici con un altro grande (italiano) dall'altalenante fortuna, quel Silvio D'Arzo del quale sarebbe bene ricordare più diffusamente la bibliografia, e non soltanto quel racconto lungo e "perfetto" secondo Montale che fu Casa d'altri (se vi capita trovate magari ancora L'osteria, L'aria della sera e altri racconti o Essi pensano ad altro). Ma parlavo di Rulfo, il grande messicano presente nella selezione di questo mese con La pianura in fiamme, un autore ora circondato da un'aureola leggendaria ora dimenticato. Scrittore-fotografo che tuttavia si è difeso egregiamente negli anni, anche grazie al suo silenzio, incarnato nei suoi testi. Non amo la parola atmosfera riferita a un'opera di narrativa, la trovo spesso inutile, quasi irritante. Eppure per Rulfo spenderei più serenamente la parola atmosfera, magari nel suo senso scientifico. Il titolo in questione torna in commercio dopo prolungata assenza, in una nuova traduzione di Maria Nicola. In questi diciasette racconti ritroverete/scoprirete il Rulfo da amare, inevitabilmente un Rulfo nuovo, le cui coordinate temporali e geografiche poco serviranno perché questo Messico di Rulfo vi accoglierà sempre in un pianeta di cronotopi che si tengono nel testo, in quell'arte del racconto che pure si sostanzia proprio a quella latitudine, in quell'epoca storica e in quella cultura (e ci guardiamo bene dall'aprire nuovamente la parentesi sulla ricezione di Rulfo, sulle alterne vicende, ma preferiamo rimandare alla "semplice" lettura o alla grandissima risorsa costituita della rilettura, allo stile incarnato da/in questo scrittore, alle parole che gli dedicò, tra gli altri, Susan Sontag). E dico questo consapevole che il Messico, proprio qui, ne El llano en llamas (notate cosa perdiamo, purtroppo, in traduzione) è più centrale che mai, anche dal punto di vista sociale e politico, e non certo per tentare una banalissima e inutile universalizzazione della prosa di Rulfo. E poi c'è un dato che culturalmente e pure editorialmente va colto: dell'America Latina stiamo pian piano scoprendo un rilievo prima mai sfiorato coi polpastrelli della lettura. Pensate soltanto a Roberto Bolaño o a Juan Carlos Onetti, e poi magari tornate di qua dall'oceano, con Silvio D'Arzo: scrittori dell'atmosfera terrestre.

Con i rimanenti titoli ho cercato di variare: ancora narrativa, ma anche poesia e critica, fino alla scoppiettante "prosa scientifica" delle conferenze di Feynman, riproposte in edizione economica. Per chi ha apprezzato Brecce o altri rari titoli comparsi negli ultimi anni, imperdibile il ritorno in libreria di Michaux, con Passaggi, dove troverete interessantissimi contributi sulla pittura e sul volto umano.

Buon proseguimento d'estate e buone letture, brevi o lunghe che siano.

1. Juan Rulfo, La pianura in fiamme, Einaudi
2. Herman Bang, La casa bianca, Iperborea
3. Vladimir Majakovskij, La nuvola in calzoni, Einaudi
4. Antonia Pozzi, Guardami: sono nuda, Barbes
5. Isaak Babel', I racconti di Odessa, Bur
6. Ugo Cornia, Il professionale. Avventure scolastiche, Feltrinelli
7. Giorgio Orelli, La qualità del senso. Dante, Ariosto e Leopardi, Casagrande
8. Armando Massarenti, Perché pagare le tangenti è razionale, ma non vi conviene, Guanda
9. Henri Michaux, Passaggi, Adelphi
10. Michel Foucault, Sull'origine dell'ermeneutica del sé, Cronopio

11. Carlo M. Cipolla, Il pestifero e contagioso morbo, Il Mulino 
12. Raymond Carver, America oggi, Minimum Fax
13. Paul Ricoeur, Ricordare, dimenticare, perdonare. L'enigma del passato, Il Mulino
14. Richard P. Feynman, Il senso delle cose, Adelphi
15. Franco Arminio, Stato in luogo, Transeuropa

martedì 17 luglio 2012

Leonardo G. Luccone di Oblique Studio

Librobreve intervista #6

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Ho conosciuto Leonardo G. Luccone grazie a una prova di traduzione che ebbi la furtuna di tentare anni fa. Il libro, destinato ad una collana al tempo da lui diretta per l'editore Nutrimenti, era il bel romanzo di Michael Thomas, Man Gone Down, pubblicato nel 2010 con il titolo Un uomo a pezzi (traduzione di Letizia Sacchini). La mia prova fu giustamente segata da Luccone. Dico giustamente perché uno deve imparare a rifiutare una prova di traduzione quando non è in condizione di portare avanti decentemente questo lavoro delicato; e poi non si deve nemmeno necessariamente rispondere a tutte le opportunità che capitano. Queste sono le cose importanti che imparai in quell'occasione, oltre al fatto - scoperta altrettanto importante - che esistono persone che tengono assieme i mestieri e le figure dell'editoria con cure oggi rare. Questo "signore" dell'editoria ("signore" non nel senso di potere esercitato, bensì di nobiltà e senso del mestiere), operativo soprattutto nell'area romana, è anche il responsabile di Oblique Studio. Insomma, fu un incontro molto positivo per me e ora sono contento di ospitarlo su Librobreve.
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I Tredici racconti di John Cheever, una delle ultime traduzioni portate a termine da Leonardo G. Luccone.

LB: Ti sei occupato di molti libri negli ultimi anni, traduzioni ma anche autori italiani. In molti c’è il tuo “zampino” (passami questa parola). Tra questi ci sono libri più o meno brevi. Tra i libri che rientrano nelle preferenze di questo blog, vale a dire quelli di “piccola taglia”, quali ricordi più volentieri? Perché?
RISPOSTA: Direi Zoo col semaforo di Paolo Piccirillo e quello a cui sto lavorando ora. Si tratta di un romanzo stringato e impregnante ambientato nel Polesine. Pistacchio-Toffanello, una coppia di autori che lavora con due voci facendone una. Se tutto va bene uscirà per Rizzoli nel 2014.


LB: Vi ho visto particolarmente coinvolti nell’ultima opera di Emanuele Tonon, La luce prima, uscita per Isbn. Ci racconti cos’ha di speciale il breve libro di quest’autore friulano?
RISPOSTA: La voce di uno scrittore che ha qualcosa da dire. Tonon è incantatorio. È stato per lui un libro necessario. Un libro autentico sull’amore. Forse l’unico negli ultimi anni, nonostante la parola amore impiastri molte pagine.


LB: A navigare nel sito di Oblique, lo studio di “artigianato per l’editoria” e servizi editoriali che hai fondato, si percepisce un’idea forte del mestiere editoriale e una concezione netta, pulita, con linee di forza visibili del “fare un libro”. Puoi parlarne brevemente?
RISPOSTA: Pur avvalendoci di tutte le tecnologie, riteniamo che l’editoria libraria sia un mestiere all’antica che richiede dedizione, rispetto, tenacia e abnegazione. Siamo qui per scelta. Cerchiamo di dire la nostra.


LB: Anche su quanto esce all’estero, e non solo in lingua inglese, hai sempre dimostrato attenzione. Ci sono dei libri (necessariamente brevi!) di cui vorresti caldeggiare la traduzione, sia in ambito fiction che non fiction?
RISPOSTA: Sì, ci sono molte cose brevi e brevissime che vorrei vedere pubblicate. Dei miei due preferiti non posso dirti nulla perché spero di portarle presto in Italia. Una cosa invece te la dico in anteprima. Oblique diventerà editore di ebook. Pubblicheremo anche testi brevissimi.


LB: A volte le riviste sono l’anticamera di una sigla editoriale. La tua vicenda è diversa. Da collaboratore di molte sigle editoriali sei passato, con Maurizio Ceccato, a fondare una rivista-libro assai innovativa negli intenti: Watt, un contenitore di storie e illustrazione che in un certo qual modo si avvicina alla fruizione “rapida” dei libri che trovano spazio in questo blog. Ci racconti cosa sta accadendo, le motivazioni (o le frustrazioni) che ti hanno condotto in questo percorso? Che cosa avete in serbo per i prossimi mesi? 
RISPOSTA: Le motivazioni sono tante e stimolantissime. Diventare editori, ci pensi? Essere responsabili di tutto. Era un desiderio che valeva la pena appagare. Ifix e Oblique sono due realtà talmente diverse tra loro che la loro unione in Watt non poteva che dare scintille inaspettate. Il lavoro creativo e imprenditoriale diviso esattamente a metà nella progettazione, nell’ideazione, nello scouting e nella comunicazione. La cosa più bella è che alla fine nessuno sa più dire chi ha fatto cosa. L’unica cosa che vogliamo fare nei prossimi mesi è non ripeterci e non annoiarci.

giovedì 12 luglio 2012

da "L'ora del tempo", di Giorgio Orelli, cinquant'anni più tardi

Una poesia da #8

Dopo i primi libri usciti in edizioni oggi difficilmente reperibili tra gli anni Quaranta e Cinquanta, Giorgio Orelli (ticinese di Airolo, nato nel 1921) pubblicò la plaquette Nel cerchio famigliare per Scheiwiller nel 1960 e nel 1962 L'ora del tempo per la collana "Lo Specchio - I poeti del nostro tempo" di Mondadori. Orelli è esponente luminoso di quella fila di poeti svizzeri di lingua italiana sempre più folta, che oggi ci regala anche interessantissimi esordi, come ad esempio Yari Bernasconi, recentemente ospitato su queste pagine. Nell'ultimo emistichio di secolo Orelli ha lasciato sulla propria scia libri importanti. Per la poesia basterà ricordare Spiracoli (1989) e l'indimenticabile - sin dal titolo - Il collo dell'anitra (Garzanti, 2001, forse si trova ancora qualche copia in circolazione). Per la critica, oltre a Il suono dei sospiri sul Petrarca volgare, credo sia normale nutrire una certa curiosità per La qualità del senso, fresco di stampa per l'editore Casagrande di Bellinzona, su Dante, Ariosto e Leopardi. Saggio, almeno il primo, di "lavoro sporco", continiano, sulla materia fonica anche grezza (quasi a cogliere un parallelismo tra quei bagliori minimi del suono e quelli visivi del piumaggio del collo di certi uccelli, come lo stesso Orelli ricordava in occasione de Il collo dell'anitra). Credo sia normale questa curiosità, dal momento che Orelli non è certo un autore prolifico. Già Zanzotto ricordava la scarsa frequenza del suo pubblicare ed è sufficiente dare una scorsa alla bibliografia di Orelli per accertare questo dato rilevato da un suo coetaneo. E proprio per questo motivo ha senso riprendere in mano, anche da questo spazio, la sua poesia, quella poesia che approdò ad una collana importante esattamente cinquant'anni or sono. Il vivere della poesia attraverso i decenni e i secoli è davvero problematico. Non è affatto scontato. Pensiamo a quel che è cambiato in questi cinquant'anni. Un mondo e una cultura che sostanziavano quella scrittura sono naufragati. Eppure, nella poesia di Orelli, sembra che i giorni si tengano per mano fino all'oggi e abbiano pure una mano protesa anche al domani. Non è tanto una questione di intramontabilità della grande poesia, non soltanto questo almeno. Appare più come una questione di resistenza, di apertura al dialogo con i presenti che seguono l'atto della scrittura, un rinnovamento. Insomma, quasi una palingenesi della poesia stessa, senza per forza dover scomodare l'estetica eliotiana de Il bosco sacro.


(Scelta del testo più difficile del solito, stavolta. Paese, Assenza, Colgo questo paese: tutte poesie che avrei riportato volentieri. Poi oggi mi è capitato di parlare con un appassionato di pesca a mosca di quei particolari insetti che si possono contemplare nei/sui torrenti, quei tricotteri, plecotteri, effimere che depongono le uova vicino alle rocce immerse in acqua per poi spiccare un volo incerto dopo la schiusa. Allora, anche per questo ritornare di insetti e acqua, la scelta è alla fine caduta sulla poesia seguente).












IL LAGO




La biglia azzurra, la biglia turchese.


Orsola ha fabbricato il suo paese
di ferro arrugginito sulla riva
dove gli alberi stirano le tenaci radici
e baccelli di morte primavere
non si sfanno.


Non delirio: una quiete
che mi concede di lanciare un ciottolo
con più forza di te, 
e sedermi, scrutare le tue scarpe
troppo presto levate,
se ancora non c'è verde che le accolga,
e come ammonitrici.
                                       Tonfano le campane
da un pianeta. L'insetto caduto
nel tuo grembo s'accende di barbagli
azzurri, l'ingombra
d'esilissime zampe.
Cresce in cielo l'azzurro che viene
dal Nord, dai miei paesi. Ed un battello
desta (sempre?) un subbuglio stralunato
di nascosti tacchini.
Corri, e la gonna rosa
stendi come a raccogliere
le prime onde. Io ti guardo da prua.

sabato 7 luglio 2012

Un instant-book di Simone Weil? Manifesto per la soppressione dei partiti politici

Quando un editore rimette in circolo un titolo del genere, cambiandone la veste grafica, in un periodo in cui, alle ultime consultazioni elettorali, si è verificato quel che si è verificato, è normale pensare che stia facendo un'operazione instant, sulla scia dell'apparente fuoriuscita dei partiti dalla scena italiana. Che i partiti stiano scomparendo è fatto da dimostrare, così come è opportuno dimostrare subito che il Manifesto per la soppressione di partiti politici (già uscito nel 2008, ora riproposto da Castelvecchi, pp. 60, euro 6, con la prefazione di André Breton, una versione pdf del testo originale è reperibile qui) non merita di cucirsi addosso quest'abito instant. Naturalmente un titolo del genere, per altro abbastanza fedele all'originale, potrebbe lasciar intendere qualcosa di simile. Eppure credo non ci possa essere errore più grave di sradicare questa riflessione dal momento in cui è stata concepita e scritta, in una situazione storica, antropologica e culturale profondamente diversa, dove i partiti avevano tutt'altro peso e configurazioni, una diversa età anagrafica, in una realtà che è poi via via cambiata costantemente, in accelerazione. Da allora, anche questo costrutto teorico-reale di partito, che da più parti è stato osannato e vilipeso, è mutato profondamente. Pochi anni fa Mauro Scalise scrisse un libello dal titolo eloquente: Il partito personale. Già soltanto questi due libri, quello di cui parliamo e quello di Scalise, nelle loro posizioni, segnano il percorso fatto dal costrutto di "partito". Il partito fu anche presente in una delle nostre migliori storie repubblicane, quella Repubblica dei partiti di Pietro Scoppola che, assieme a Storia dell'Italia repubblicana di Silvio Lanaro, costituisce uno dei principali assi viari per lo studio post 1946. Questo mi serve per dire che dei partiti non possiamo liberarcene così facilmente e siamo/saremo chiamati a capire le ragioni dello scritto di Simone Weil, non certo a farne un'operazione banalmente attualizzante, per di più se vogliamo conservarne intatti l'incisività e il graffio nel presente (basti solo pensare alla deriva localistica, anche in senso nazionale e/o regionale dei partiti e paragonarla alle Internazionali ancor vive nella prosa della Weil).


Allora cosa salviamo di questo scritto del 1940 uscito poi sul numero 26 della rivista "La Table Tonde", nel 1950? Tutto, naturalmente, ma in particolar modo un ragionamento centrale sulla vaghezza della dottrina. Vi siete mai chiesti quale dolore e dissipazione esista nella vaghezza, nella vaghezza di cui parla Simone Weil? Qui non c'entra nulla il "vago" leopardiano. Parliamo di tutt'altra vaghezza, una vaghezza mortifera che genera veri mostri. Proprio laddove affronta questo concetto fondamentale della sua Note (e non "manifesto"), Simone Weil scrive:


Il fine di un partito politico è cosa vaga e irreale. Se fosse reale, esigerebbe un enorme sforzo di attenzione, in quanto una concezione del bene pubblico non è cosa facile da elaborare. L'esistenza del partito è palpabile, evidente, non esige alcuno sforzo per essere riconosciuta. È inevitabile, così, che in realtà il partito sia esso stesso il suo proprio fine. 

Da qui si dipanano i successivi ragionamenti sulle tendenze essenziali dei partiti: totalitarie, repressive del senso di verità e giustizia, orientate a quell'educazione partitica che è la vera menzogna del secolo scorso e della quale la Weil è stata tra le prime ad accorgersene. A tratti si spinge oltre, come quando sconfina all'arte e alla letteratura parlando di Gide e Maurras come fondatori di "partiti". Pensiamo, come suggerisce Breton nella nota iniziale, a quando sorge questo scritto, dopo il mortifero 1940 francese, e allora capiremo meglio anche che questa soppressione altro non sarà che una lunga e maturata operazione di "disinganno collettivo". Insomma, i motivi per trasformare questa "Nota" in un'opportunità di ripensamento dell'ipocrisia partitica e dell'ipocrisia che sta dietro all'etichetta "partito" ci sono tutti e sono ben maggiori di quelli che lascerebbero scivolare questo sofferto scritto nel mare degli instant-books. Il ragionamento di Simone Weil è radicale, distruttivo. Non so se sia quello di cui oggi abbiamo bisogno in primis, sicuramente necessitiamo urgentemente di un ripensamento preciso dell'ectoplasma partitico, che si faccia forte dei nuovi saperi e di una cultura e realtà mutate velocissimamente in poco tempo. In questo l'urgenza, meritevole, della riproposizione del libro. Ma è estate, non è un libro da spiaggia questo, seppur piccolino e leggero. Mal che vada si può leggere in campagna, ascoltando le cicale e i piccoli grilli; soprattutto quest'ultimi, facendo attenzione a non sottovalutarli e ignorarli.