Mi sembra che ci sia una sola cosa che non va in La metà di bosco, nuovo romanzo di Laura Pugno (Marsilio, pp. 144, euro 16): la copertina. Peccato per l'immagine, con quel verdino che è diventato un cavallo di Troia con cui si penserà di sfondare le porte dell'attenzione del frequentatore di librerie. La dominante cromatica di questo libro mi pare ben lontana da quell'acqua in foto. Dal successo di Paolo Giordano in poi, pare questo un colore imprescindibile nella palette dei grafici editoriali. Ma al di là della dominante cromatica, che come tutte le cose riguardanti i colori risente delle mode o dei casi di successo, mi sembra che quella a lato sia un'immagine ingiusta per invitare ad aprire, leggere, acquistare questo suo ennesimo bel libro in prosa. Forse si è cercata l'abbinata con la copertina del precedente romanzo di Laura Pugno, La ragazza selvaggia, sempre per Marsilio, ma il risultato stavolta mi sembra discutibile. Considerando poi come copertina anche le bandelle, in quella di sinistra il protagonista del romanzo Salvo Cagli (nome e cognome che costituiscono incipit, prime due parole del narratore) diventa inspiegabilmente, o forse per eufonia, "Salvo Calvi". Insomma, dal cognome di un pittore - Corrado Cagli - le cui opere potrebbero avere persino qualcosa a che fare con le atmosfere di questo libro, si passa a un cognome di un importante banchiere, per stare alle prime associazioni. Misteri delle lavorazioni della filiera editoriale o una normalissima disattenzione? Peccato, perché i nomi in questo romanzo contano molto e il protagonista si chiama curiosamente Salvo.
Il lieve disappunto sulla copertina, chiaramente del tutto personale, s'accresce in realtà nella constatazione della piena riuscita di un altro romanzo di Laura Pugno. L'autrice unisce caratteristiche rare: tenuta della tensione per tutta la narrazione, costruzione a sbalzi di scene che alternano un'apparente normalità al perturbante. La fisicità del protagonista si avverte in ogni momento. E ci viene il torcicollo a spostare la nostra testa di qua e di là, a inseguire gli enigmi e la profonda interrogazione che riguarda sia la trama delle relazioni tra i personaggi sia quello che un tempo si sarebbe chiamato "il messaggio" dell'opera. In questo caso, tale messaggio sembra lambire le coste di una riflessione sul rapporto con i morti (più che con la morte) oppure le trasformazioni moderne di certi miti sui morti in superstizioni, credenze. Eppure non c'è un giudizio negativo stavolta nel parlare di superstizioni e credenze. E non a caso l'ambientazione è un'isola greca, anzi due isole greche minori, Halki (esistente) e Krev (inventata), separate da un braccio di mare stretto ma inquietante, vicine a Rodi ma lontane dai flussi vorticosi del turismo insulare greco estivo. Quest'ambientazione lavora in contrasto con il capitale simbolico di quei luoghi, mostrandoli avvolti da una crisi ancora profonda che li tiene separati dal resto del mondo, persino nelle telecomunicazioni. Insomma, è una Grecia che pare regredire in un antico primitivo, anche se i protagonisti si nutrono spesso di moderne scatolette di tonno gocciolante. Il narratore dissemina segnali e avvertimenti di inquietudine, crea due tipi di suspense nella scrittura, una di lungo corso che non è destinata a sciogliersi nemmeno con un finale normalissimo e rassicurante, e una di più breve passo che è destinata a risolversi, talvolta però solo per finta, nel giro di qualche pagina o addirittura all'inizio del capitolo successivo.
Salvo Cagli è un medico dell'Unità del sonno di un ospedale romano e, ironia della sorte, soffre di insonnia. Il suo è probabilmente solo burnout. Partito per una lunga vacanza ristoratrice, arriva prima a Rodi e poi si dirige verso Halki con una nave cisterna di fortuna. Qui sembra risolvere subito il suo problema col sonno e qui ritrova dei conoscenti che lo ospitano in una casa dove si affezionerà a una coppia di ragazzini, Nikos e Cora. Salvo è separato e la mancanza di sua figlia Lili pare insinuarsi nella proiezione verso Cora. Il suo è anche un ritorno ai luoghi dei viaggi dell'infanzia e dell'adolescenza, ma c'è ben poco da ricordare di quelle vacanze giacché tutto è mutato. La sua avventura pare presto trasformarsi in disavventura. La morte di Cora infatti è origine di una serie di eventi e movimenti che lo portano in situazioni di pericolo e al limite, all'interno di un set che lo vede fare la spola tra la più popolata Halki e la misteriosa isola di Krev, dove insiste la "metà di bosco" del titolo e sulla quale indugiano vecchie superstizioni e leggende che sembrano inverarsi. Attorno, tra i diversi profumi o lezzi del fico, si muovono sciami di api selvatiche e uno sciame di personaggi altrettanto enigmatici, che sembrano vivere di reticenze o di conoscenza mai condivisibile del tutto. E tra questi, bisognerà almeno citare la trentenne Magdalini, madre di Nikos, alla sua seconda maternità secca e silente, e il potente compagno tedesco di lei, che si sta comprando isola e isolotti. Senza rivelare troppo di un romanzo assai breve, si potrà dire che la morte di Cora, una morte non definitiva, transitoria, diventa il motore di una storia che ci porta, coi mezzi della letteratura, nei territori dell'incontro con chi è scomparso, ovvero in quei territori dove solamente col sogno ci è dato talvolta di addentrarci. In realtà la letteratura non è nuova a questi incontri, ma il punto di vista di Salvo porta il lettore a un duello quasi sfibrante tra razionalità e sogno, e conferisce alle allucinazioni una cittadinanza onoraria nella prosa. E proprio qui mi sembra che La metà di bosco offra il meglio di sé. Insomma, copertina a parte, è questo un altro importante libro dell'autrice di Sirene (libro con cui, tra l'altro, quest'ultimo lavoro presenta rinvii significativi).
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domenica 2 settembre 2018
"La metà di bosco" di Laura Pugno
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venerdì 27 luglio 2018
"In questa grande epoca" di Karl Kraus tradotto per la prima volta in italiano: mezzi di comunicazione, impoverimento dell'immaginario e frasi fatte
Leggere una grande guerra #29
Pronunciato per la prima volta nel novembre del 1914, a poche settimane dallo scoppio della Prima guerra mondiale, In questa grande epoca appare oggi come un testo di svolta di Karl Kraus, incastrato com'è tra due silenzi, il primo che seguiva la febbrile attività per quel raro (e pressoché unico) esempio di rivista davvero militante e esposta che fu "Fackel" e un secondo silenzio che prelude alla stesura e apparizione nel 1922 della sua opera più nota, Gli ultimi giorni dell'umanità. Il testo del discorso, ricco di quei giochi di parole che erano essenziali nella vita di uno scrittore così attento alle manifestazioni della lingua - e lo stesso titolo del discorso riprende l'epiteto "grande" con cui si era soliti riferirsi all'epoca in quegli anni - è proposto per la prima volta in italiano per la cura e traduzione di Irene Fantappiè all'interno della collana "Gli Anemoni" di Marsilio (testo tedesco a fronte, pp. 104, euro 12), una serie di opere curata da Annalisa Cosentino e Luigi Reitani. La modernità e grande tenuta di questo discorso si può leggere lungo direzioni plurime. È una voce pacifista in un contesto dove molti intellettuali, tra cui Thomas Mann, Robert Musil e Hugo von Hofmannsthal, si dedicavano a difendere le ragioni della guerra, in compagnia di altre voci che rivangavano posizioni neoromantiche per avallare la necessità del conflitto, rifugiandosi "nella frase fatta" con la quale qualsiasi giornalista può tradurre l'indicibile dell'apocalisse che sta imperversando. Inoltre, come evidenzia la curatrice nell'introduzione, la sua diventa una postura "esposta" a costo di passare per il carnefice in un'epoca contraddistinta dal paradigma vittimistico o, peggio, dal paradigma (ignavo?) di chi non sa prendere posizione e assiste in un modo assurdo, tra l'allucinato, l'impotente e il blaterante, agli eventi. Infine, lo scritto di Kraus costituisce soprattutto un affilatissimo, inedito attacco al mondo dei mezzi di comunicazione. Si situa proprio a questa altezza la bruciante necessità di questo discorso con cui Kraus torna a riprendere la parola, ad uscire da un silenzio, prima di sprofondare in un altro silenzio. Per la prima volta in queste pagine si porta a galla l'impoverimento di immaginario del quale i mezzi di comunicazione sono stati i principali responsabili, un inaridimento e desertificazione che, uniti a una capacità mai vista prima di fiaccare le sinapsi del pensiero, sono responsabili del carnaio che si inizia a intravedere proprio in quelle settimane nei chilometri di trincee d'Europa. In un punto si legge che questi mezzi di comunicazione
esagerano le condizioni del mondo dopo averle prodotte. Sarebbe già abbastanza terribile se la stampa fosse solo l’espressione di tali condizioni. Ma ne è la causa. Ha inventato e alimentato lo sterile passatempo dei "conflitti di nazionalità" per far prosperare inosservata gli affari del suo turpe intelletto; raggiunti i propri fini, si sbarazza del suo patriottismo in cambio di futuri guadagni.Kraus colpisce e demolisce a parole quel mondo "giornalistico" che egli stesso, con tutt'altre prerogative, alimenta dalle pagine di "Fackel", la rivista da lui fondata, diretta e per buona parte alimentata in modo solitario, in un fecondo cortocircuito del giornalismo dell'epoca. Nella parte introduttiva del volume, che prevede anche qualche necessario appunto sulle sempre ardue traduzioni da Kraus, Fantappiè puntella così il proprio ragionamento di accompagnamento all'opera:
Le frasi fatte dei giornalisti distruggono la capacità di usare la lingua come strumento dell'immaginazione e quindi del pensiero. Standardizzando il modo in cui si parla nel mondo, i mezzi di comunicazione di massa precludono ai singoli individui un accesso vero alla complessità del reale. Questo ha permesso lo scatenarsi della guerra: l'umanità, ottusa dai refrain vuoti della stampa, non ha saputo immaginarla prima che accadesse; se l'avesse potuta immaginare, la guerra non sarebbe accaduta.
È il 19 novembre 1914 quando In dieser großen Zeit è pronunciato al Wiener Konzerthaus. È doveroso riportare qualche passaggio del discorso per continuare a dare la temperatura di pensiero-scrittura di Kraus:
Il progresso vive per mangiare, e a volte dimostra addirittura di poter morire per mangiare. Sopporta ogni pena al fine di essere felice. Volge il pathos verso le premesse. L’estrema affermazione del progresso ha decretato ormai da tempo che la domanda si regoli sull’offerta, che si mangi perché sia un altro a diventare sazio, e che il venditore ambulante interrompa persino i nostri pensieri offrendoci cose di cui non abbiamo alcun bisogno. Il progresso, sotto i cui piedi l’erba si mette a lutto e il bosco diventa carta da cui crescono fogli di giornale, ha subordinato la vita ai viveri, trasformando noi stessi nelle viti di ricambio dei nostri utensili. Il dente dell’epoca è cavo; poiché quando era sano giunse la mano che vive di otturazioni. Là dove si è spesa ogni forza per togliere ogni asperità alla vita, non rimane nulla che ancora necessiti di essere protetto. In quei luoghi l’individualità può vivere, ma non può più nascere. Potrà forse, coi suoi desideri nevrotici, far comparsa come ospite in zone dove, nel comfort e nella prosperità, circolano avanti e indietro automi privi di volto e di saluto.
Questo breve scritto finalmente proposto in italiano è una porta d'accesso per una lettura inedita e sconcertante di quel primo conflitto mondiale, così come poi sarà anche Gli ultimi giorni dell'umanità. Ma va appunto rilevata ancora una volta la datazione precoce di questo discorso rispetto all'inesauribile "tragedia" krausiana del 1922. La sua portata tracima e va ben oltre, dentro e fuori il secolo, arrivando a toccare delle invarianti di queste epoche, fino a sfiorare questi giorni che ci vedono indaffarati con drammi non dissimili. L'antinicciano Kraus ha fatto confluire in questa manciata di pagine un distillato del suo pensiero sulla contemporaneità, utile per leggere sia gli anni antecedenti al conflitto, la guerra stessa, la crisi economica, politica e morale tra le due guerre e infine il "mondo della comunicazione", così come siamo soliti chiamarlo anche da prima dell'avvento di Internet. Il suo prendere parola avviene affinché si eviti che il tacere possa essere travisato. "Chi ha qualcosa da dire si faccia avanti e taccia!" scrive ad un certo punto. (Per chi volesse approfondire, andando a saggiare ulteriormente lingua e pensiero krausiani, il quotidiano "la Repubblica" ha pubblicato un ampio estratto che si può leggere anche qui.)
mercoledì 11 luglio 2018
"Poetiche e individui. La poesia italiana dal 1970 al 2000" di Maria Borio
Sembra sia diventato un compito difficile scrivere (o dire) qualcosa di sensato, utile e plausibile sulla poesia contemporanea italiana. O meglio, più che difficile, raramente ciò accade. Se ci rifacciamo a un artista come Piero Manzoni dovremmo forse concludere che la critica è merda (così come la poesia stessa), ma non ne sono del tutto convinto, e Manzoni stesso fu, a suo modo, un grandissimo critico. Anche poco tempo fa, scrivendo del libro di Giovannetti La poesia italiana degli anni Duemila, la sensazione è stata quella di un'analisi non particolarmente approfondita: c'era una sorta di intelaiatura di fondo che andava supportata e farcita con degli esempi e il risultato che ne è uscito non aveva né la superficie né la consistenza di uno studio che si possa imporre, in modo duraturo, all'attenzione attuale o futura (chiaramente, come sempre, farà piacere essere smentito). Tuttavia una cosa è certa: se parliamo di "poesia contemporanea italiana" sappiamo all'incirca a cosa ci riferiamo, e non è poco: ci riferiamo a quella che è veicolata solitamente come poesia (non necessariamente in versi), dentro alcuni confini nazionali (ma non necessariamente in lingua) e dentro una cornice temporale data.
L'operazione che intende compiere Maria Borio in questo studio è rimettere mano ai sistemi di "canone" e "genere" oggi in crisi passando per la via della poetica (anzi, delle poetiche), sia questa individuale o di movimento. Nel recente, corposo contributo critico intitolato Poetiche e individui. La poesia italiana dal 1970 al 2000 (Marsilio, pp. 304, euro 30) Borio evidenzia nel sottotitolo il gancio principale: sappiamo che proverà a dire qualcosa di un trentennio, che è sì un periodo lungo a passare, ma più accettabile di certi criteri antologici o critici che ci parlano ancora in secoli. Trent'anni potrebbero essere anche il medio periodo tra due generazioni, e sappiamo quanto l'aspetto generazionale sia ancora centrale nei discorsi poetici. Tuttavia in questo libro decàde un'enfasi totalmente generazionale e tre decenni diventano un arco temporale teoreticamente gestibile, se non si affronta con la pressione di voler dire la parola definitiva. Vengo presto a un punto: non scrivo a caso "parola definitiva", in un contesto che, in estrema sintesi, si potrebbe schematizzare in un quadrante critico dove insistono due assi importanti, affascinanti ma forse - questo è il punto dolente - un pochino troppo innamorati di sé: quello della poesia come medium, che affonda la propria indagine e interpretazione del fatto poetico in un lontanissimo di oralità (componente performativa, cultura orale, concezione della metrica come una sorta di macchina memoriale, con qualche ripresa forse pericolosa del trascorso dei menestrelli) e quello della poesia di ricerca, meglio se di ascendenza francese, la quale come noto in Italia è appannaggio di pochi addetti che operano all'interno del sacro GRA (una poesia insomma che già ad Aosta, a Campobasso o a Siracusa è probabilmente preclusa). Chiaro che una certa teorizzazione forte del fatto poetico comporta un innamoramento e persino un accecamento (paradossale se pensiamo all'etimo di "teoria"). Ma la situazione a grandissime linee potrebbe essere questa, e allora tanto vale tornare a ripassare un po' di falsificazionismo popperiano anche per le teorie sulla poesia, spesso orientante appunto al passato, al problema dell'origine della poesia, come se tutto il nucleo del discorso stesse lì e basta, nel momento "inaugurale" da dove è sgorgato una volta per tutte un fiume di determinismo nel quale o sei dentro o sei fuori. No, non mi piace, se potessi dirlo con una opzione che i social principali si guardano bene dal consentirci di usare.
Il panorama rapidamente schizzato sopra non mi è mai sembrato un grande affare o una coraggiosa scommessa. Una posizione teorica forte e nitida è utile, fosse anche solo come termine di confronto, ma interessa decisamente meno quando procede scevra di una sana componente di dubbio e falsificabilità. Certo, delle indicazioni utili arrivano da entrambi gli assi ricordati sopra, e faremo bene a leggere tanto Gabriele Frasca (poeta, teorico, traduttore) quanto i testi o le traduzioni da Francis Ponge o Christophe Tarkos, ma ciò che mette a disagio è una malcelata pretesa di spiegare tutto o quasi tutto. Il punto di partenza di Maria Borio è chiarito sin dalle prime pagine, e oltre a stabilizzarsi nell'endiadi di poetiche+individui che verrà sviluppata nei singoli capitoli, si potrebbe riassumere in questo passaggio:
Questo potrebbe essere un quadro, tra altri possibili, nel quale accogliere l'uscita di questo volume. In chiusura, quali sono allora i campionamenti che servono all'autrice per disegnare la propria costellazione del trentennio finale del Novecento? Un primo movimento avvicina le esperienze di Dario Bellezza, Cesare Viviani, Valentino Zeichen e le scritture di Patrizia Cavalli, Vivian Lamarque, Iolanda Insana e Biancamaria Frabotta. Un successivo passo sposta la macchina da presa sulla lirica di Milo De Angelis, sulla poesia neo-orfica e neo-romantica e infine su Giuseppe Conte. Sotto il cappello di "contemporaneo referenziale" Maria Borio tratta le esperienze di Maurizio Cucchi, del neo-individualismo e della poesia oggettiva e infine Giampiero Neri. La parte centrale del volume coincide con il decennio degli anni Ottanta dove si collocano le più approfondite considerazioni su Patrizia Valduga, Gabriele Frasca, Valerio Magrelli ma anche le esperienze, rispettivamente di area romana e padovana, delle riviste "Braci" e "Scarto minimo". La parte dedicata agli anni Novanta raccoglie nuove idee e indugia sulle esperienze di Fabio Pusterla, Antonio Riccardi, Umberto Fiori, Antonella Anedda, Franco Buffoni e si chiude con una manciata di pagine importanti dedicate all'opera di Mario Benedetti, la quale, circumnavigando il caso probabilmente più importante di questo trentennio (De Angelis) e la stessa esperienza di rivista di "Scarto minimo" già ricordata, secondo l'autrice sancisce, antieroicamente, il passaggio dalla lirica dell'esistenza a lirica dell'esperienza. E su Benedetti il libro si chiude. Si chiude su una delle esperienze di scrittura inaggirabili del Novecento e dei primi anni Duemila. Tempo fa - cito a memoria, augurandomi sia precisa e buona - Matteo Marchesini parlò in un articolo di "Domenica" de "Il Sole-24 Ore" di ottundimento programmatico per la poesia di Mario Benedetti. Uno spunto per una discussione potrebbe ripartire anche da qui, facendo cozzare l'analisi contenuta nell'ultimo capitolo di questo libro di Maria Borio con quell'avventata formula.
* * * *
Che cos’è la solitudine.
Ho portato con me delle vecchie cose per guardare gli alberi:
un inverno, le poche foglie sui rami, una panchina vuota.
Ho freddo, ma come se non fossi io.
Ho portato un libro, mi dico di essermi pensato in un libro
come un uomo con un libro, ingenuamente.
Pareva un giorno lontano oggi, pensoso.
Mi pareva che tutti avessero visto il parco nei quadri,
il Natale nei racconti,
le stampe su questo parco come uno spessore.
Che cos’è la solitudine.
La donna ha disteso la coperta sul pavimento per non sporcare,
si e distesa prendendo le forbici per colpirsi nel petto,
un martello perché non ne aveva la forza, un’oscenità grande.
L’ho letto in un foglio di giornale.
Scusatemi tutti.
Mario Benedetti, "Che cos'è la solitudine" (da Umana gloria, 2004)
L'operazione che intende compiere Maria Borio in questo studio è rimettere mano ai sistemi di "canone" e "genere" oggi in crisi passando per la via della poetica (anzi, delle poetiche), sia questa individuale o di movimento. Nel recente, corposo contributo critico intitolato Poetiche e individui. La poesia italiana dal 1970 al 2000 (Marsilio, pp. 304, euro 30) Borio evidenzia nel sottotitolo il gancio principale: sappiamo che proverà a dire qualcosa di un trentennio, che è sì un periodo lungo a passare, ma più accettabile di certi criteri antologici o critici che ci parlano ancora in secoli. Trent'anni potrebbero essere anche il medio periodo tra due generazioni, e sappiamo quanto l'aspetto generazionale sia ancora centrale nei discorsi poetici. Tuttavia in questo libro decàde un'enfasi totalmente generazionale e tre decenni diventano un arco temporale teoreticamente gestibile, se non si affronta con la pressione di voler dire la parola definitiva. Vengo presto a un punto: non scrivo a caso "parola definitiva", in un contesto che, in estrema sintesi, si potrebbe schematizzare in un quadrante critico dove insistono due assi importanti, affascinanti ma forse - questo è il punto dolente - un pochino troppo innamorati di sé: quello della poesia come medium, che affonda la propria indagine e interpretazione del fatto poetico in un lontanissimo di oralità (componente performativa, cultura orale, concezione della metrica come una sorta di macchina memoriale, con qualche ripresa forse pericolosa del trascorso dei menestrelli) e quello della poesia di ricerca, meglio se di ascendenza francese, la quale come noto in Italia è appannaggio di pochi addetti che operano all'interno del sacro GRA (una poesia insomma che già ad Aosta, a Campobasso o a Siracusa è probabilmente preclusa). Chiaro che una certa teorizzazione forte del fatto poetico comporta un innamoramento e persino un accecamento (paradossale se pensiamo all'etimo di "teoria"). Ma la situazione a grandissime linee potrebbe essere questa, e allora tanto vale tornare a ripassare un po' di falsificazionismo popperiano anche per le teorie sulla poesia, spesso orientante appunto al passato, al problema dell'origine della poesia, come se tutto il nucleo del discorso stesse lì e basta, nel momento "inaugurale" da dove è sgorgato una volta per tutte un fiume di determinismo nel quale o sei dentro o sei fuori. No, non mi piace, se potessi dirlo con una opzione che i social principali si guardano bene dal consentirci di usare.
Il panorama rapidamente schizzato sopra non mi è mai sembrato un grande affare o una coraggiosa scommessa. Una posizione teorica forte e nitida è utile, fosse anche solo come termine di confronto, ma interessa decisamente meno quando procede scevra di una sana componente di dubbio e falsificabilità. Certo, delle indicazioni utili arrivano da entrambi gli assi ricordati sopra, e faremo bene a leggere tanto Gabriele Frasca (poeta, teorico, traduttore) quanto i testi o le traduzioni da Francis Ponge o Christophe Tarkos, ma ciò che mette a disagio è una malcelata pretesa di spiegare tutto o quasi tutto. Il punto di partenza di Maria Borio è chiarito sin dalle prime pagine, e oltre a stabilizzarsi nell'endiadi di poetiche+individui che verrà sviluppata nei singoli capitoli, si potrebbe riassumere in questo passaggio:
La poetica esplica un progetto artistico che combina una parte empirica - quella dei temi, dello stile - e una parte teorica: una riflessione idealizzante che trascende la prassi, che motiva la funzione dell'opera e la sua interazione con altre forme e linguaggi. [...] La poetica indica, quindi, la necessità di una lettura relazionale: considera l'opera per il suo essere in situazione, parte di un campo complesso di rapporti dialettici tra teoria e prassi, ontologia e fenomenologia.Questo libro diventa quindi un buon ripasso, anche di storia delle idee, di accadimenti editoriali importanti (ad esempio vi è attenzione anche alle traduzioni di certi titoli) e dimostra un occhio di riguardo per l'apporto delle riviste, ma non viene assorbito da un incedere storicista, e problematizza via via i poeti, i movimenti, gli avvenimenti (ad esempio Castelporziano) nel momento in cui si affacciano alla trattazione sistematica. E mediante il ricorso a campionature, per via induttiva, Maria Borio percorre i campi di avvicinamento alle poetiche e agli individui poeti. Insomma, una volta tanto la critica non è impressionistica e mette nero su bianco il proprio metodo, la propria consapevolezza teorica e l'analisi empirica al servizio di un lettore che possa per prima cosa leggere con pari consapevolezza, discutere, accettare o rifiutare le considerazioni e le tesi che s'adagiano nella trama del testo. Non mi sembra poca cosa, a maggior ragione se la situazione relazionale della critica è quella descritta in partenza oppure quel farfugliare da faida che spesso si annida nei thread dei social network più parolai, nella conta o nell'appello dei like. Ne deriva un accavallarsi prensile di teoria e prassi che consente la disposizione dei testi in un campo (e qui Bourdieu non è da solo, c'è anche Anceschi) che è "quello spazio dove si trovano rapporti di somiglianze e differenze, aspetti di famiglia definiti in modo relazionale".
Questo potrebbe essere un quadro, tra altri possibili, nel quale accogliere l'uscita di questo volume. In chiusura, quali sono allora i campionamenti che servono all'autrice per disegnare la propria costellazione del trentennio finale del Novecento? Un primo movimento avvicina le esperienze di Dario Bellezza, Cesare Viviani, Valentino Zeichen e le scritture di Patrizia Cavalli, Vivian Lamarque, Iolanda Insana e Biancamaria Frabotta. Un successivo passo sposta la macchina da presa sulla lirica di Milo De Angelis, sulla poesia neo-orfica e neo-romantica e infine su Giuseppe Conte. Sotto il cappello di "contemporaneo referenziale" Maria Borio tratta le esperienze di Maurizio Cucchi, del neo-individualismo e della poesia oggettiva e infine Giampiero Neri. La parte centrale del volume coincide con il decennio degli anni Ottanta dove si collocano le più approfondite considerazioni su Patrizia Valduga, Gabriele Frasca, Valerio Magrelli ma anche le esperienze, rispettivamente di area romana e padovana, delle riviste "Braci" e "Scarto minimo". La parte dedicata agli anni Novanta raccoglie nuove idee e indugia sulle esperienze di Fabio Pusterla, Antonio Riccardi, Umberto Fiori, Antonella Anedda, Franco Buffoni e si chiude con una manciata di pagine importanti dedicate all'opera di Mario Benedetti, la quale, circumnavigando il caso probabilmente più importante di questo trentennio (De Angelis) e la stessa esperienza di rivista di "Scarto minimo" già ricordata, secondo l'autrice sancisce, antieroicamente, il passaggio dalla lirica dell'esistenza a lirica dell'esperienza. E su Benedetti il libro si chiude. Si chiude su una delle esperienze di scrittura inaggirabili del Novecento e dei primi anni Duemila. Tempo fa - cito a memoria, augurandomi sia precisa e buona - Matteo Marchesini parlò in un articolo di "Domenica" de "Il Sole-24 Ore" di ottundimento programmatico per la poesia di Mario Benedetti. Uno spunto per una discussione potrebbe ripartire anche da qui, facendo cozzare l'analisi contenuta nell'ultimo capitolo di questo libro di Maria Borio con quell'avventata formula.
* * * *
Che cos’è la solitudine.
Ho portato con me delle vecchie cose per guardare gli alberi:
un inverno, le poche foglie sui rami, una panchina vuota.
Ho freddo, ma come se non fossi io.
Ho portato un libro, mi dico di essermi pensato in un libro
come un uomo con un libro, ingenuamente.
Pareva un giorno lontano oggi, pensoso.
Mi pareva che tutti avessero visto il parco nei quadri,
il Natale nei racconti,
le stampe su questo parco come uno spessore.
Che cos’è la solitudine.
La donna ha disteso la coperta sul pavimento per non sporcare,
si e distesa prendendo le forbici per colpirsi nel petto,
un martello perché non ne aveva la forza, un’oscenità grande.
L’ho letto in un foglio di giornale.
Scusatemi tutti.
Mario Benedetti, "Che cos'è la solitudine" (da Umana gloria, 2004)
martedì 17 ottobre 2017
"L'invenzione dell'autore. Privilegi di stampa nella Venezia del Rinascimento" a cura di Sabrina Minuzzi (l'autore è mobile)
Lo statuto di autore o, se preferite usare un'espressione sociologizzante, il costrutto sociale dell'autore non è una questione così scontata e nemmeno si può affermare che sia data una volta per tutte. Nell'ambito librario oggi siamo abituati al suo essere fattore trainante dell'intero sistema e spesso un libro è costruito proprio attorno all'autore, per quanto all'editore interessi sempre un'opera. Non va dimenticato però che sono quasi sempre tre gli elementi testuali che costituiscono la copertina di un libro: oltre all'autore (e eventuali nomi di coautori, curatori e traduttori) ci sono infatti anche il titolo (con eventuale sottotitolo) e il nome dell'editore, con il suo percepito di "marca editoriale". La triangolazione di questi tre elementi costituisce sempre una soglia fondamentale (la prima soglia!) di qualsiasi progetto di libro, naturalmente assieme al lato grafico della faccenda. Ma se le considerazioni sull'editore rimandano alla storia della stampa, dell'editoria, dei cataloghi e delle collane, se quelle sui titoli sono un interessante incrocio di fattori plurimi che vanno dalla creatività vera al calcolo del marketing tout court (compreso quello finalizzato alla SEO - Search Engine Optimization) tutto ciò che riguarda lo statuto dell'autore è un aspetto che rimane mobile e interessante da analizzare, primariamente nel suo sviluppo storico. Etimologicamente autore è colui che accresce, aumenta, fa prosperare (sé stesso e l'editore, verrebbe da dire). Ma naturalmente non è sempre così. Il concetto di autore va di pari passo con gli sviluppi della proprietà intellettuale e sappiamo tutti quanto questi temi siano caldi e attuali e non solo a causa della rete e dei suoi nodi. L'interessantissima campionatura che ci consegna Sabrina Minuzzi col titolo L'invenzione dell'autore. Privilegi di stampa nella Venezia del Rinascimento (Marsilio, pp. 112, euro 12) costituisce una lettura essenziale per affacciarsi su due versanti: da un lato avremo lo specifico corpo di testi analizzato dall'autrice, vale a dire una serie di suppliche orgogliose con le quali una serie di autori dei più vari settori chiedeva di proteggere le opere che consegnavano alla stampa. Dall'altro versante vedremo scaturire, quasi di riflesso e indirettamente, tutta una serie di possibili considerazioni sullo statuto di autore oggi, nel suo divenire negli ambiti intellettuali più disparati, compresi quelli che vanno a incrociare le moderne trattazioni su fiction, non fiction, autofiction ecc.
Restiamo all'oggetto di questa ricerca curata da Sabrina Minuzzi, la quale da anni si occupa di storia del libro e storia della produzione, circolazione e fruizione del libro medicoscientifico nell'ambito specialistico della storia sociale della medicina (per l'editore Unicopli trovate Sul filo dei segreti. Farmacopea, libri e pratiche terapeutiche a Venezia in età moderna). Spesso si crede che l'atto formale di nascita del diritto d'autore sia il "Copyright Act" londinese del 1710. Naturalmente le date e gli atti fondanti sono comodi, ma le idee, comprese quelle giuridiche, sono molte volte nell'aria già da tempo quando trovano un vero riconoscimento databile che ne sancisce l'albore. Così non è errato dire che, in ambito letterario, sia stato Petrarca a contribuire a scolpire il costrutto di autore così come ci è venuto incontro in età moderna (e pensiamo a fenomeni noti come il petrarchismo). Nella Venezia presa in esame da Sabrina Minuzzi l'autore non è ancora un dato così scontato e consolidato. Ci sono i tipografi e sappiamo tutti la centralità della brulicante città lagunare quando si parla di stampa e tipografia. Quella Venezia seppe riconoscere progressivamente determinati privilegi di stampa a chi ne faceva richiesta, fertilizzando il terreno per un graduale riconoscimento alla figura di autore (di qui anche il titolo dello studio che parla addirittura di "invenzione"). Ma non siamo solo di fronte a letterati e artisti, anzi, tutt'altro, e "si ha la netta impressione che l'autorialità si manifesti e prenda forza non solo e non tanto attraverso i creatori di capolavori letterari e di fantasia, quanto attraverso le opere connesse all'universo delle professioni e dei mestieri, che sono anche la maggioranza". Molto più interessanti sono i casi di matematici, musici, agrimensori, maestri calligrafi, medici che trafficavano con le erbe o ragionieri. Il riconoscere a questi soggetti dei privilegi nella stampa delle loro opere di ingegno fece sì che la moderna concezione di autore si formasse e rafforzasse. Tutto ciò rappresenta un altro determinante tassello della costruzione dello statuto e del diritto d'autore, un tassello che merita la giusta attenzione che il libro di Sabrina Minuzzi finalmente riserva. Quanto descritto nel libro accadeva in un contesto che, analizzato da un punto di vista primariamente sociale ed economico, si apriva in modo straordinario e inedito all'invenzione all'incentivazione della "novità" e "utilità". Per forza di cose in questo scenario la stampa gioca un ruolo preminente. Scrive Minuzzi alla fine della nota introduttiva:
Restiamo all'oggetto di questa ricerca curata da Sabrina Minuzzi, la quale da anni si occupa di storia del libro e storia della produzione, circolazione e fruizione del libro medicoscientifico nell'ambito specialistico della storia sociale della medicina (per l'editore Unicopli trovate Sul filo dei segreti. Farmacopea, libri e pratiche terapeutiche a Venezia in età moderna). Spesso si crede che l'atto formale di nascita del diritto d'autore sia il "Copyright Act" londinese del 1710. Naturalmente le date e gli atti fondanti sono comodi, ma le idee, comprese quelle giuridiche, sono molte volte nell'aria già da tempo quando trovano un vero riconoscimento databile che ne sancisce l'albore. Così non è errato dire che, in ambito letterario, sia stato Petrarca a contribuire a scolpire il costrutto di autore così come ci è venuto incontro in età moderna (e pensiamo a fenomeni noti come il petrarchismo). Nella Venezia presa in esame da Sabrina Minuzzi l'autore non è ancora un dato così scontato e consolidato. Ci sono i tipografi e sappiamo tutti la centralità della brulicante città lagunare quando si parla di stampa e tipografia. Quella Venezia seppe riconoscere progressivamente determinati privilegi di stampa a chi ne faceva richiesta, fertilizzando il terreno per un graduale riconoscimento alla figura di autore (di qui anche il titolo dello studio che parla addirittura di "invenzione"). Ma non siamo solo di fronte a letterati e artisti, anzi, tutt'altro, e "si ha la netta impressione che l'autorialità si manifesti e prenda forza non solo e non tanto attraverso i creatori di capolavori letterari e di fantasia, quanto attraverso le opere connesse all'universo delle professioni e dei mestieri, che sono anche la maggioranza". Molto più interessanti sono i casi di matematici, musici, agrimensori, maestri calligrafi, medici che trafficavano con le erbe o ragionieri. Il riconoscere a questi soggetti dei privilegi nella stampa delle loro opere di ingegno fece sì che la moderna concezione di autore si formasse e rafforzasse. Tutto ciò rappresenta un altro determinante tassello della costruzione dello statuto e del diritto d'autore, un tassello che merita la giusta attenzione che il libro di Sabrina Minuzzi finalmente riserva. Quanto descritto nel libro accadeva in un contesto che, analizzato da un punto di vista primariamente sociale ed economico, si apriva in modo straordinario e inedito all'invenzione all'incentivazione della "novità" e "utilità". Per forza di cose in questo scenario la stampa gioca un ruolo preminente. Scrive Minuzzi alla fine della nota introduttiva:
Fu così che a Venezia prima che altrove si creò il clima più favorevole alla nascita dell'autore, il quale prese corpo e si affermò grazie alle proprie invenzioni, materiali e immateriali. Nel Settecento vennero formalizzati la sua esistenza e i suoi diritti. Poi, con la rivoluzione romantica dell'io, l'autore somigliò sempre più a un'invenzione. Ma questa è un'altra storia.Il libro di Sabrina Minuzzi si inserisce nella collana "Albrizziana" dell'editore Marsilio, una serie di pubblicazioni che consta ormai di diversi titoli. Tutti questi costituiscono un bel passaggio per ragionare con più cognizioni attorno a temi di editoria, stampa e autorialità (si prenda ad esempio il volume di prefazioni e dediche di Aldo Manuzio La voce dell'editore). I titoli di "Albrizziana" si possono scorrere a questo link. Messi tutti in fila creano un riverbero profondo con le tante discussioni che riguardano la triangolazione di cui parlavamo sopra, quella ancora così centrale tra autore-titolo-editore. Naturalmente su questo panorama si affacciano nuovi percorsi, come quello del self-publishing. Ma anche questa è un'altra storia, anche se potrebbe essere inquadrata come un'evoluzione delle storie di cui abbiamo sin qui parlato. Se Amazon continuerà la crescita di cui è protagonista, probabilmente ne sentiremo sempre più parlare. E, anche qui, lo sfondo su cui si installa un possibile ragionamento è ancora una volta e prima di tutto economico e sociale.
venerdì 15 settembre 2017
da "In corpore viri" di Gianfranco Ciabatti
Una poesia da #69
La poesia di oggi appartiene a un libro di Gianfranco Ciabatti intitolato In corpore viri pubblicato da Marsilio nel 1998. Oggi lascio qualsiasi rinvio alla figura e all'opera di Ciabatti ai materiali che si possono trovare in rete e a questa bella pagina apparsa otto anni fa su "Nazione Indiana". Volendo c'è un ritratto-scheda sulla poesia di Ciabatti in Dopo la lirica: poeti italiani 1960-2000, l'antologia di Einaudi del 2005 a cura di Enrico Testa. All'epoca Marsilio aveva una bella collana di poesia. A partire da quest'ultima constatazione, avevo scritto una pappardella sulla questione tormentata della poesia e della sua spinosa collocazione editoriale, anche perché settembre e ottobre sono mesi in cui, volenti o nolenti, chi bazzica questi selciati si trova immancabilmente tra i piedi questi discorsi e a breve capiterà sicuramente di parlarne in occasioni pubbliche. Ma ho selezionato tutte le pappardelle al ragù su collane e monili che avevo scritto e cancellato senza pensarci troppo su. E tutto ciò era per dire cosa? Niente, come sempre niente: keep your powder dry. Più opportuno far passare un invito a cercare il libro di Gianfranco Ciabatti, che si trova ancora, almeno in rete. Tanto vale insomma attenersi allo scopo originario di questo genere di post segnaletici, che mi ricordano l'azione del forbire (non perché intenda la poesia come soprammobile, semmai intendo che la poesia è parte del reale tanto quanto i soprammobili). Le indagini sociologiche attorno a poesia e editoria sono sempre ardue, spesso improduttive e a volte perniciose. L'usato, l'antiquariato e il fuori catalogo sono mondi paralleli visitabili (non necessariamente entusiasmanti) fino a quando chi li popola non torna in quelle liste di oracoli provvisori che sono i cataloghi correnti, oppure scompare per sempre nei ripostigli inaccessibili del passato e dell'immondizia: uno su mille ce la fa.
La vita nemmeno la morte
concede in dono.
Fino a un estremo che non vede fine
il corpo conduce forte
la sua lotta.
Lo splendore del sole e la pace dell'ombra
ugualmente
gli vietano la resa
sull'una o l'altra banda della lizza,
in campo aperto
a lungo
lo cimentano.
E allo scadere del combattimento
sarà dolce la vita, o la morte
sarà dolce
come è stata la vita.
(da Gianfranco Ciabatti, In corpore viri, Marsilio, 1998)
La poesia di oggi appartiene a un libro di Gianfranco Ciabatti intitolato In corpore viri pubblicato da Marsilio nel 1998. Oggi lascio qualsiasi rinvio alla figura e all'opera di Ciabatti ai materiali che si possono trovare in rete e a questa bella pagina apparsa otto anni fa su "Nazione Indiana". Volendo c'è un ritratto-scheda sulla poesia di Ciabatti in Dopo la lirica: poeti italiani 1960-2000, l'antologia di Einaudi del 2005 a cura di Enrico Testa. All'epoca Marsilio aveva una bella collana di poesia. A partire da quest'ultima constatazione, avevo scritto una pappardella sulla questione tormentata della poesia e della sua spinosa collocazione editoriale, anche perché settembre e ottobre sono mesi in cui, volenti o nolenti, chi bazzica questi selciati si trova immancabilmente tra i piedi questi discorsi e a breve capiterà sicuramente di parlarne in occasioni pubbliche. Ma ho selezionato tutte le pappardelle al ragù su collane e monili che avevo scritto e cancellato senza pensarci troppo su. E tutto ciò era per dire cosa? Niente, come sempre niente: keep your powder dry. Più opportuno far passare un invito a cercare il libro di Gianfranco Ciabatti, che si trova ancora, almeno in rete. Tanto vale insomma attenersi allo scopo originario di questo genere di post segnaletici, che mi ricordano l'azione del forbire (non perché intenda la poesia come soprammobile, semmai intendo che la poesia è parte del reale tanto quanto i soprammobili). Le indagini sociologiche attorno a poesia e editoria sono sempre ardue, spesso improduttive e a volte perniciose. L'usato, l'antiquariato e il fuori catalogo sono mondi paralleli visitabili (non necessariamente entusiasmanti) fino a quando chi li popola non torna in quelle liste di oracoli provvisori che sono i cataloghi correnti, oppure scompare per sempre nei ripostigli inaccessibili del passato e dell'immondizia: uno su mille ce la fa.
La vita nemmeno la morte
concede in dono.
Fino a un estremo che non vede fine
il corpo conduce forte
la sua lotta.
Lo splendore del sole e la pace dell'ombra
ugualmente
gli vietano la resa
sull'una o l'altra banda della lizza,
in campo aperto
a lungo
lo cimentano.
E allo scadere del combattimento
sarà dolce la vita, o la morte
sarà dolce
come è stata la vita.
(da Gianfranco Ciabatti, In corpore viri, Marsilio, 1998)
On parle de:
Gianfranco Ciabatti,
In corpore viri,
Marsilio,
Una poesia da
sabato 18 marzo 2017
"Lo spregio" di Alessandro Zaccuri
Se è vero che il testo di un romanzo mette in scena una
scissione tra sé e mondo – scissione che prova spesso, talvolta ingenuamente al
giorno d’oggi, a ricomporre sulla pagina – è anche vero che tale scissione può
prendere diverse strade e declinarsi in molteplici aspetti, che possono
manifestarsi come corollari di questo movente originario. E così, come
sempre ravvisiamo la già ricordata primaria scissione, possiamo trovarne molte
altre, ad esempio quella antica tra ragione e sentimento, tra interesse pubblico e
privato, tra libertà e nuove schiavitù, tra vittima e carnefice oppure tra genitori e figli, con tutto il
portato che un discorso generazionale ben intavolato sempre trascina con sé. Fino
a qui siamo nell’ambito del noto e di quanto già la tragedia greca aveva messo sulla scena. Poi, con ogni nuova storia, interviene
il nuovo. L’ultimo romanzo di
Alessandro Zaccuri intitolato Lo spregio (Marsilio,
pp. 120, euro 16), nella sua indovinata brevità, riesce a disporre capitolo dopo capitolo tanti
motivi di interesse. Più che concentrarmi sulla storia e sottrarre ai lettori
la possibilità di venirne a capo, proverò a dire i motivi per
cui questo libro è riuscito a impaginare l’intersecarsi di più linee (e
rapporti) di forza che scorrono tra i personaggi, i tempi e i luoghi. Le scissioni citate poche righe sopra non sono casuali, perché trovano tutte spazio nel libro di Zaccuri. Tutto il
resto va davvero lasciato alla volontà di leggere e scoprire, volontà che – si
dovrà riconoscerlo senza piagnistei prima o poi – rischia di smarrirsi nelle derive mondane dell’oggetto
libro, che può benissimo diventare definitivamente accessorio di moda tra gli altri.
Il punto di partenza della narrazione è fissato nel 1993. Non
vi è un vero protagonista in questo libro, c’è un raro equilibrio tra
personaggi comunque protagonisti. Uno dei protagonisti, il tredicenne Angelo figlio di un gestore di una trattoria posta al confine italo-svizzero, scopre
da un compagno di scuola che le attività collaterali che ruotano attorno al
padre e alla trattoria non sono tutte lecite e lineari. Trattasi di contrabbando
da zone montane di confine e di affitto di qualche stanza a ore per la prostituzione. Tra l’altro il padre,
Franco detto il Moro, non è il padre. Ecco un punto di rottura dell’equilibrio,
una scissione. Ma i due si sono sempre parlati "da uomo a uomo" e così sempre faranno e Angelo inizia presto un proprio percorso, emulativo di quello del padre. L'epigrafe scelta da Zaccuri, da Kafka, vale per i diversi punti di rottura di questo breve romanzo e dice "dopo di che non ci fu lotta, ma solo punizione". Di qui, mediante un iniziale ricorso all’unità di spazio (la
trattoria e le zone circostanti), il testo di Zaccuri si sposta attraverso
i decenni e le trasformazioni dei luoghi e delle persone, prestando attenzione alle mode, agli accessori, alle marche (per altri versi grandi assenti della narrativa italiana). La voce del narratore
è tentata da quel meccanismo di regressione che tanta fortuna ha avuto. In
sostanza il narratore pensa e a volte parla come i personaggi: ad esempio, a
pag. 35, leggiamo “Gli avevano trovato un soffio al cuore, va’ a capire se è vero”, oppure, sempre alla stessa pagina, “Era
suo figlio, facesse quel che voleva”.
Un ulteriore punto di scissione è l’arrivo nella zona di una famiglia
meridionale che riorganizza gli assetti di potere. Tra la famiglia del Moro e
questa famiglia scatta un’alleanza, sancita dall’amicizia tra Angelo e uno dei
figli di Don Ciccio. A questo punto il libro abbandona la propria fedeltà al
luogo e segue i due giovani nelle scorribande della loro amicizia, fino a una “impresa”
rappresentata da un furto di una statua da parte di Salvo e al successivo
spregio dettato da invidia compiuto da Angelo. Questo è un libro dove fanno capolino due statue
ben diverse ma comunque centrali (di qui la copertina). Il passo s’avvia rapidamente
verso l’epilogo tragico e con forza emerge la scena del colloquio tra il Moro e Don Ciccio, nella casa di quest'ultimo. Appaiono centrate bene in questa investigazione di Zaccuri sia la riflessione sui rapporti tra padri e figli lungo i decenni sia la
riflessione sul potere, su come tutto possa esplodere come una
polveriera al minimo cambiamento e all’incontro tra due concezioni del potere
che si trovano a insistere in pochi chilometri quadri. L’epilogo ci mostra il Moro che va a sistemare un conto
corrente bancario con la moglie Giustina, qualche settimana dopo la tragedia. Muore dentro la propria auto, mentre si appresta a metterla in moto, nel frangente in cui la moglie rientra in banca a recuperare il
foulard lasciato sulla sedia. Sono a Paradiso, nel Canton Ticino. A chi leggerà questo libro resta anche la possibilità di decidere se ogni
riferimento alla polisemia dei toponimi sia in questo caso puramente casuale.
On parle de:
Alessandro Zaccuri,
Franz Kafka,
Lo spregio,
Marsilio
lunedì 2 gennaio 2017
"Il Golem" di H. Leivick
H. Leivick, pseudonimo di Leivick Halpern, scrittore bielorusso di lingua yiddish nato nel 1888 a Igumen (ora Cherven, vicino a Minsk), scrisse il poema drammatico in otto quadri Der Goylem tra il 1917 e il 1920. L'opera uscì nel 1921 a New York, città dove lo scrittore si trovava già dal 1913, cioè da quando, in modo a dir poco rocambolesco, era riuscito a fuggire dai lavori forzati in Siberia e imbarcarsi per l'America. Aveva aderito sin dalla gioventù al movimento socialista ebraico e trascorse più di un lustro, tra il 1906 e il 1912, tra carceri moscoviti e lavori forzati. Marsilio Editori, nella collana di classici centroeuropei "Gli anemoni" a cura di Annalisa Cosentino e Luigi Reitani, ramo della collana di "Letteratura universale", propone la traduzione di questo testo che resta uno dei lasciti più noti dell'autore, conosciuto anche per una produzione poetica che lo ha accompagnato per tutta la vita, anche in epoca post-Olocausto (nota è la sua raccolta In Treblinke bin ikh nit geven, "Non sono stato a Treblinka"). Ma si deve proprio al poema drammatico Il Golem, ora di nuovo disponibile in italiano (pp. 240, euro 17, a cura di Laura Quercioli Mincer, una prima versione data 1956 ed è a firma di Giorgetta Kalk Lubatti), la fama che toccò a questo autore che trascorse quasi cinquant'anni della propria vita negli Stati Uniti, fino alla morte nel 1962 a New York. Assieme al di poco antecedente Golem di Gustav Meyrink (1915), Il Golem di H. Leivick costituisce un dittico attraverso il quale studiare come sia stato calato in opere in quegli anni il tema fondante della fecondissima leggenda ebraica relativa al robot antropomorfo fabbricato dal rabbino di Praga Judah Loew ben Bezalel.
C'è qui una variante sul mito e non si tratta di una variante di poco conto, dacché il robot creato dall'argilla non detiene, come il golem del rabbino Maharal, un potere salvifico. Siamo davanti a un peculiarissimo caso di golem "nato stanco", la cui creaturalità è spenta nell'ombra. Quella del nostro poeta-tappezziere (con un secchio di colla e carta da parati è infatti spesso ricordato Leivick per le strade d'America) è una storia duale, di un rapporto padre-figlio assai singolare. E siamo parimenti sbattuti davanti allo stato mentale dell'uomo ebreo dell'Europa orientale nel periodo tra le due guerre, attraverso un testo che nelle otto scene percorre un periplo che lambisce di continuo le concezioni della nostalgia e della violenza nel pensiero e nella storia del popolo ebraico. Tra le molte osservazioni interessanti, Laura Quercioli Mincer, nella sua accuratissima presentazione dell'opera, ha scritto:
(Sotto il film muto Der Golem del 1920, diretto da Henrik Galeen e Paul Wegener, mentre qui una registrazione di una lettura dell'autore. Se si intende percorrere un percorso misto tra le arti, cinema e fumetti inclusi, ci si potrà solo sbizzarrire per capire fino a dove questo simbolo dell'anima e dello stesso popolo ebraico si è diramato, non trascurando, per il Diciannovesimo secolo, Frankenstein di Mary Shelley o per il Ventesimo autori come Jorge Luis Borges e Cynthia Ozick.)
C'è qui una variante sul mito e non si tratta di una variante di poco conto, dacché il robot creato dall'argilla non detiene, come il golem del rabbino Maharal, un potere salvifico. Siamo davanti a un peculiarissimo caso di golem "nato stanco", la cui creaturalità è spenta nell'ombra. Quella del nostro poeta-tappezziere (con un secchio di colla e carta da parati è infatti spesso ricordato Leivick per le strade d'America) è una storia duale, di un rapporto padre-figlio assai singolare. E siamo parimenti sbattuti davanti allo stato mentale dell'uomo ebreo dell'Europa orientale nel periodo tra le due guerre, attraverso un testo che nelle otto scene percorre un periplo che lambisce di continuo le concezioni della nostalgia e della violenza nel pensiero e nella storia del popolo ebraico. Tra le molte osservazioni interessanti, Laura Quercioli Mincer, nella sua accuratissima presentazione dell'opera, ha scritto:
Nell'opera di Leivick, dunque, il fanttoccio-Messia creato dal Maharal di Praga sa di non essere mai pronto, cerca di ritrarsi dal suo compito, si rifiuta di vivere; con disperazione di bambino implora il suo creatore di lasciarlo fra le tenebre del non-essere.Il poema drammatico di H. Leivick, che non "soffre" una normale lettura "da libro", una lettura finanche dimentica della potenzialità performativa del testo e della sua possibile destinazione d'uso in teatro, fu messo in scena in ebraico a Mosca nel 1925, proprio nella città dove l'autore aveva conosciuto la prima parte della proprie esperienza carceraria. Del resto i suoi effetti speciali (quasi splatter, come nota la curatrice) e la sua durata non ne fanno un testo presto pronto per la scena. Tuttavia, per chi volesse approfondire, anche la sua fortuna scenica offre diversi gradi di interesse. Quella del golem continua a dimostrarsi una leggenda feconda. Anche la stessa storia della parola "golem" (nella Bibbia citata solo una volta in un salmo) è degna di interesse, ad esempio quando incrocia il peculiare caso di naming dei primi computer israeliani, Golem 1 e Golem 2. Ma è evidente che il mito del golem e delle sue molteplici apparizioni letterarie sa contenere, come tutti i miti, le linee di forza principali lungo le quali si sviluppa la vicenda umana.
(Sotto il film muto Der Golem del 1920, diretto da Henrik Galeen e Paul Wegener, mentre qui una registrazione di una lettura dell'autore. Se si intende percorrere un percorso misto tra le arti, cinema e fumetti inclusi, ci si potrà solo sbizzarrire per capire fino a dove questo simbolo dell'anima e dello stesso popolo ebraico si è diramato, non trascurando, per il Diciannovesimo secolo, Frankenstein di Mary Shelley o per il Ventesimo autori come Jorge Luis Borges e Cynthia Ozick.)
giovedì 19 novembre 2015
"Cella" di Gilda Policastro
Primo: c'è una parola che m'è subito parsa ricorrente o quantomeno insistente in questo terzo romanzo di Gilda Policastro intitolato Cella (Marsilio, pp. 180, euro 17). Quale potrebbe essere? Si tratta della parola "romanzo". Sembra infatti che l'insistenza su questo lemma ponga la scrittura in un dialogo metaletterario e camuffato sulle possibilità del "romanzo". Avevo chiesto all'autrice un file con il testo del libro per poter verificare, con una statistica lessicale. Il risultato è questo: “Dice che è il nome di un cavallo da romanzo. Nella vita di Elena niente somiglia più a un romanzo, oppure, se a un romanzo somiglia, è uno di quei romanzi che non concludono, con la storia tutta ingarbugliata.” (pag. 11); “Forse l’amore adesso si misura in minuti. Dice, mamma, sapessi quanto si aspettano le donne, nei romanzi. Legge sempre. Legge, va a cavallo, oppure manda uno dei suoi frenetici messaggi.” (pag. 12); “Elena dice che potrei scrivere romanzi, passo le ore a rimuginare su particolari insignificanti. A distanza di giorni le chiedo, all’improvviso, se si ricorda un frammento di qualche conversazione casuale, orecchiata per strada, dal medico, in coda alle poste.” (pag. 31); “Giovanni e le donne. Un giorno lo potrei scrivere su questo, un romanzo.” (pag. 32); “Quando Elena ha cominciato il liceo ho preso in mano qualche romanzo. Ma mi annoiavano queste donne a loro volta annoiate, uomini sempre indecisi, che ne amavano una e poi andavano con le altre. Era lì che avevano copiato, quelli come Giovanni.” (pag. 39-40); “Non riesco ad amarla, come la donna di quel romanzo. Non riesco a dirle che le voglio bene, forse non gliene voglio perché è figlia sua, forse non gliene vorrei in ogni caso.” (pag. 102); “Loro si piacquero subito, avevano i libri, parlavano di quelli. Soprattutto i romanzi russi, ma anche la poesia: le prestò un’antologia che non aveva voluto darmi («cosa te ne faresti, tu»), 100 poeti della DDR” (pag. 111). Insomma l'impressione è che il romanzo ne dissemini molti altri, in più accezioni. Significa qualcosa tutto ciò? Forse l'ossessione del romanzo? La sua banalizzazione? La sua presunta morte? I suoi limiti? Si sa che più si nomina una cosa più si svuota. Si trova anche un'accezione di "foto-romanzo". Questo libro inoltre è intervallato da due foto su cui torneremo.
Secondo: la storia. Chi narra è una donna del Sud che diventa amante mai renitente di un medico benestante, conosciuto e stimato tanto da fare, come molti altri suoi colleghi, il passo della politica. Un cacciatore di donne seriale, anche. Lei proviene da una storia familiare incasinata, con un padre che mise presto nei guai tutta la famiglia. Già, la famiglia: si avverte in tutto questo libro, assai poco "famigliare", come Policastro desideri scrivere di famiglia sopra ogni altra cosa, prima ancora che di sesso. Il sesso non è granché, anche se trapunta un po' tutta la linea della narrazione (viene in mente Girotondo di Arthur Schnitzler, uno dei più grandi "pezzi" che sul sesso siano stati scritti lo scorso secolo). L'iniziazione dell'io narrante avviene presto, in uno studio dentistico dove viene spedita diciasettenne per racimolare soldi. Di lì a poco l'incontro con Giovanni e la nascita di Elena, figlia che nel carattere risentirà del concepimento e personaggio attraverso il quale emerge lo sguardo felice e feroce dell'autrice su chi è più giovane. Giovanni si allontanerà dalla "famiglia" e diventerà latitante per aver curato, nell'ambito della propria professione, una terrorista (è frequente questo inserto relativo alla lotta armata nei romanzi degli ultimi dieci o quindici anni). Così, con l'imbarazzo tipico che mi assale ogni volta che affronto il temibile "riassunto di un'opera", ho riassunto io. In una intervista a puntate apparsa su "Vibrisse", il bollettino di Giulio Mozzi, Gilda Policastro ha così riassunto: "una donna senza nome racconta la sua condizione di prigioniera: il paese con le sue restrizioni, le frequentazioni di personaggi squallidi come il dentista che la molesta da adolescente, la famiglia con un padre che a un certo punto, per questioni di debiti, se ne va. L’incontro con Giovanni Principe, figura di riferimento per la sua professione di medico e il suo impegno in politica, sembra offrirle una possibilità di emancipazione. Viaggiano, incontrano persone colte come il professore, con cui la donna sarà quasi obbligata a iniziare una relazione. Ma anche Giovanni Principe, a un certo punto, come il padre, la abbandona. La donna si ritrova sola, con una figlia che non riesce ad amare e per la quale è motivo di imbarazzo e di inquietudine, specie dopo il tentato suicidio. Fino all’arrivo di una brigatista, che rimette in discussione tutto il suo vissuto, suggerendole una possibile via d’uscita nel confronto a più voci col suo passato”.
Terzo. Le opere di Louise Bourgeois che inframezzano il testo in due punti potrebbero far pensare a Sebald. Sono foto nel romanzo. In realtà, più che all'autore di Austerlitz, anche qui Policastro s'invia in una metariflessione che riguarda i limiti - e quindi le possibilità - dell'opera, necessariamente multimediale. Non c'è relazione stretta tra storia e opera, almeno nel senso comune che potremmo immaginarci di "relazione stretta".
Quarto: dal punto di vista della scrittura osserviamo un telaio che quasi si regge sulla ricerca di un appiattimento funzionale per tendere il testo e quindi, in ultima analisi, una sorta di strategia della tensione. L'anticipazione del complemento oggetto è un tratto frequente, ma anche la posticipazione come avete notato nei numerosi esempi del primo paragrafo. I dialoghi si fondono senza punteggiatura nel corpo dei brevi capitoli. Se in qualche punto si ha l'impressione di un'ingerenza del lessico specialistico della psicologia, alla fine è più nei territori della letteratura greca che vanno ricercati gli assi (del resto questa ha alimentato larga parte di psicologia, psichiatria o psicanalisi e tutti i nostri complessi).
Quinto: Sade. Non lo dico per le scene di sessualità brutale che apostrofano questa narrazione o per circonvoluzioni fuorvianti attorno a quel che si chiama "sadismo". Sade è stato alla fine uno dei più lucidi "idraulici dell'animo". "Tutto ciò che mi impedisce di abitare la mia tristezza mi è insopportabile" vuole l'epigrafe scelta da Policastro, da Roland Barthes. Lo capiremo leggendo il libro. Il sesso perverso e reificato non è certo la questione centrale di Cella e non è nemmeno il colore primario di un libro che raduna in meno di duecento pagine un pensiero sulle relazioni famigliari, sull'amore, sulla perversione intesa come ingrediente sempre dato nell'esistenza umana. Basta, mi fermo qui. Cinque stazioni come cinque sono le lettere del breve titolo - nome della protagonista - per fissare una nota di lettura puntiforme su un libro che parla soprattutto di potere, più di quanto parli di impotenza. Penso potreste trovarlo notevole per come stempera tanti grumi di temi caldi dell'oggi. Ciascuno a suo modo. E forse, ci penso ora mentre lo scrivo, anche Pirandello c'entra: per come tratta le celle del suo spazio scenico, per il suo speculare attorno alla maschera, alla tortura, alla stanza della tortura (indimenticabile quello studio di Giovanni Macchia sul drammaturgo).
Secondo: la storia. Chi narra è una donna del Sud che diventa amante mai renitente di un medico benestante, conosciuto e stimato tanto da fare, come molti altri suoi colleghi, il passo della politica. Un cacciatore di donne seriale, anche. Lei proviene da una storia familiare incasinata, con un padre che mise presto nei guai tutta la famiglia. Già, la famiglia: si avverte in tutto questo libro, assai poco "famigliare", come Policastro desideri scrivere di famiglia sopra ogni altra cosa, prima ancora che di sesso. Il sesso non è granché, anche se trapunta un po' tutta la linea della narrazione (viene in mente Girotondo di Arthur Schnitzler, uno dei più grandi "pezzi" che sul sesso siano stati scritti lo scorso secolo). L'iniziazione dell'io narrante avviene presto, in uno studio dentistico dove viene spedita diciasettenne per racimolare soldi. Di lì a poco l'incontro con Giovanni e la nascita di Elena, figlia che nel carattere risentirà del concepimento e personaggio attraverso il quale emerge lo sguardo felice e feroce dell'autrice su chi è più giovane. Giovanni si allontanerà dalla "famiglia" e diventerà latitante per aver curato, nell'ambito della propria professione, una terrorista (è frequente questo inserto relativo alla lotta armata nei romanzi degli ultimi dieci o quindici anni). Così, con l'imbarazzo tipico che mi assale ogni volta che affronto il temibile "riassunto di un'opera", ho riassunto io. In una intervista a puntate apparsa su "Vibrisse", il bollettino di Giulio Mozzi, Gilda Policastro ha così riassunto: "una donna senza nome racconta la sua condizione di prigioniera: il paese con le sue restrizioni, le frequentazioni di personaggi squallidi come il dentista che la molesta da adolescente, la famiglia con un padre che a un certo punto, per questioni di debiti, se ne va. L’incontro con Giovanni Principe, figura di riferimento per la sua professione di medico e il suo impegno in politica, sembra offrirle una possibilità di emancipazione. Viaggiano, incontrano persone colte come il professore, con cui la donna sarà quasi obbligata a iniziare una relazione. Ma anche Giovanni Principe, a un certo punto, come il padre, la abbandona. La donna si ritrova sola, con una figlia che non riesce ad amare e per la quale è motivo di imbarazzo e di inquietudine, specie dopo il tentato suicidio. Fino all’arrivo di una brigatista, che rimette in discussione tutto il suo vissuto, suggerendole una possibile via d’uscita nel confronto a più voci col suo passato”.
Terzo. Le opere di Louise Bourgeois che inframezzano il testo in due punti potrebbero far pensare a Sebald. Sono foto nel romanzo. In realtà, più che all'autore di Austerlitz, anche qui Policastro s'invia in una metariflessione che riguarda i limiti - e quindi le possibilità - dell'opera, necessariamente multimediale. Non c'è relazione stretta tra storia e opera, almeno nel senso comune che potremmo immaginarci di "relazione stretta".
Quarto: dal punto di vista della scrittura osserviamo un telaio che quasi si regge sulla ricerca di un appiattimento funzionale per tendere il testo e quindi, in ultima analisi, una sorta di strategia della tensione. L'anticipazione del complemento oggetto è un tratto frequente, ma anche la posticipazione come avete notato nei numerosi esempi del primo paragrafo. I dialoghi si fondono senza punteggiatura nel corpo dei brevi capitoli. Se in qualche punto si ha l'impressione di un'ingerenza del lessico specialistico della psicologia, alla fine è più nei territori della letteratura greca che vanno ricercati gli assi (del resto questa ha alimentato larga parte di psicologia, psichiatria o psicanalisi e tutti i nostri complessi).
Quinto: Sade. Non lo dico per le scene di sessualità brutale che apostrofano questa narrazione o per circonvoluzioni fuorvianti attorno a quel che si chiama "sadismo". Sade è stato alla fine uno dei più lucidi "idraulici dell'animo". "Tutto ciò che mi impedisce di abitare la mia tristezza mi è insopportabile" vuole l'epigrafe scelta da Policastro, da Roland Barthes. Lo capiremo leggendo il libro. Il sesso perverso e reificato non è certo la questione centrale di Cella e non è nemmeno il colore primario di un libro che raduna in meno di duecento pagine un pensiero sulle relazioni famigliari, sull'amore, sulla perversione intesa come ingrediente sempre dato nell'esistenza umana. Basta, mi fermo qui. Cinque stazioni come cinque sono le lettere del breve titolo - nome della protagonista - per fissare una nota di lettura puntiforme su un libro che parla soprattutto di potere, più di quanto parli di impotenza. Penso potreste trovarlo notevole per come stempera tanti grumi di temi caldi dell'oggi. Ciascuno a suo modo. E forse, ci penso ora mentre lo scrivo, anche Pirandello c'entra: per come tratta le celle del suo spazio scenico, per il suo speculare attorno alla maschera, alla tortura, alla stanza della tortura (indimenticabile quello studio di Giovanni Macchia sul drammaturgo).
martedì 22 settembre 2015
Esce finalmente per Marsilio il libro su Dante di Ezra Pound, un sogno editoriale che fu di Vanni Scheiwiller
Certi libri possono rimanere opere irrealizzate per decenni e poi essere finalmente pubblicati, in un modo bellamente intempestivo, anche se, volendo trovarci l'aggancio, sappiamo che quest'anno ricorrono i 750 anni dalla nascita di Dante. Il caso di questo Dante di Ezra Pound (pp. 252, euro 20, a cura di Corrado Bologna e Lorenzo Fabiani), finalmente realizzato da Marsilio, sta lì a ricordarci come questo possa ancora accadere. Si tratta di un libro composito a lungo sognato da Vanni Scheiwiller, che ne desiderava l'uscita entro l'anno 1965, settecentenario della nascita di Dante. Poi, per i casi della vita, il libro non si poté più realizzare. Poeta e figura controversa, in grado di attraversare un intero secolo e oltre sempre da protagonista, vero "ponte" in senso diacronico e geografico, diatopico, data la sua capacità di tenere piedi, occhi e orecchie in più continenti (oltre all'America e all'Europa non va dimenticato infatti il rapporto di Pound con l'estremo oriente e il legame con Ernest Fenollosa), Ezra Pound non ha smesso di inondare con la sua presenza molti dibattiti. Questo volume è tutto incentrato sul trasporto verso Dante e Cavalcanti e sugli scritti che a più riprese uscirono spesso su riviste. Nel suo incedere e nel suo confezionamento non dimentica di ricordare le accuse di pressappochismo e dilettantismo rivolte a Pound da parte di una stizzita "nazionale filologi". Ben vengano però anche un certo pressappochismo e dilettantismo, ben vengano persino nuovi "Bignami" del nostro tempo (se con questa immagine intendiamo dei libri "sintetici" che abbiano la forza di attraversare con le vertigini del coraggio territori vasti e desolati), ben venga l'errore interpretativo clamoroso se la mente che si esercita su una materia può aggiungere elettricità e movimento alla poesia, alla critica, insomma se sa porre una nuova giusta domanda alla vita.
Parlare di "riscoperta" di Dante nel ventesimo secolo è curioso e tutto ciò si ricollega a discorsi già fatti sul canone. Sfido chiunque a trovare un autore che più di Dante sia rimasto saldamente ancorato attraverso molti secoli a un canone, italiano e mondiale, della letteratura. Eppure parlare di riscoperta di Dante ha senso - una riscoperta messa in atto da altri, e si pensi solo al geniale scritto di Mandel’štam allora - e ci ricorda che il blasone del canone può rapidamente diventare toilet paper se non proviamo a sfoderare continuamente una spada di intelligenza sulle opere, a tenere alta la guardia dell'attenzione, tanto più nella vorticosa, divoratrice e coprofaga realtà d'oggi. Con i suoi scritti danteschi Pound mise in atto un'operazione che si sviluppò su diverse strade e lo fece anche tramite una rete di corrispondenza e relazioni umane che ebbe del prodigioso. Il mondo se ne accorse e quest'energia è quanto ha spinto avanti la sua lettura di Dante.
Ecco allora che nei decenni dell'avvilente avviamento benigniano alla propedeutica dantesca, questo sogno editoriale di Scheiwiller realizzato cinquant'anni più tardi da Marsilio ci rinvigorisce e funziona come antidoto contro molti veleni: contro un'idea statica di letteratura e del testo letterario (non cade mai a caso il binomio Eliot-Pound), contro la morte del pensiero perpetrata da tanta parte dell'accademia (cose risapute, ma meglio ricordarcelo visto che l'accademia succhia anche non poche risorse), contro la pavidità sempre latente che ci opprime quando viviamo le situazioni della letteratura, contro il calcolo perverso e alla fine controproducente in cui si culla l'editoria letteraria sedicente tale, ma anche contro chi, con un po' di esterofilia fuori tempo massimo, addita la lingua italiana come incapace di fare cose con le parole e poeticamente svantaggiata rispetto ad altre. Una bella pagina di critica e di poesia insomma, qui per forza saldamente legate come in fondo dovrebbero essere, ma anche una bella pagina di storia editoriale che molto ha a che fare con Venezia. Bello che sia così e non è cosa di tutti i giorni.
Parlare di "riscoperta" di Dante nel ventesimo secolo è curioso e tutto ciò si ricollega a discorsi già fatti sul canone. Sfido chiunque a trovare un autore che più di Dante sia rimasto saldamente ancorato attraverso molti secoli a un canone, italiano e mondiale, della letteratura. Eppure parlare di riscoperta di Dante ha senso - una riscoperta messa in atto da altri, e si pensi solo al geniale scritto di Mandel’štam allora - e ci ricorda che il blasone del canone può rapidamente diventare toilet paper se non proviamo a sfoderare continuamente una spada di intelligenza sulle opere, a tenere alta la guardia dell'attenzione, tanto più nella vorticosa, divoratrice e coprofaga realtà d'oggi. Con i suoi scritti danteschi Pound mise in atto un'operazione che si sviluppò su diverse strade e lo fece anche tramite una rete di corrispondenza e relazioni umane che ebbe del prodigioso. Il mondo se ne accorse e quest'energia è quanto ha spinto avanti la sua lettura di Dante.
Ecco allora che nei decenni dell'avvilente avviamento benigniano alla propedeutica dantesca, questo sogno editoriale di Scheiwiller realizzato cinquant'anni più tardi da Marsilio ci rinvigorisce e funziona come antidoto contro molti veleni: contro un'idea statica di letteratura e del testo letterario (non cade mai a caso il binomio Eliot-Pound), contro la morte del pensiero perpetrata da tanta parte dell'accademia (cose risapute, ma meglio ricordarcelo visto che l'accademia succhia anche non poche risorse), contro la pavidità sempre latente che ci opprime quando viviamo le situazioni della letteratura, contro il calcolo perverso e alla fine controproducente in cui si culla l'editoria letteraria sedicente tale, ma anche contro chi, con un po' di esterofilia fuori tempo massimo, addita la lingua italiana come incapace di fare cose con le parole e poeticamente svantaggiata rispetto ad altre. Una bella pagina di critica e di poesia insomma, qui per forza saldamente legate come in fondo dovrebbero essere, ma anche una bella pagina di storia editoriale che molto ha a che fare con Venezia. Bello che sia così e non è cosa di tutti i giorni.
giovedì 22 maggio 2014
Tradurre in italiano Wittlin, Szymborska e gli altri. Un'intervista con Silvano De Fanti
Librobreve intervista #39
Intendo inaugurare con questa intervista a Silvano De Fanti, professore di lingua e letteratura polacca all'università di Udine, una serie di chiacchierate con protagonisti della traduzione in italiano. Mi fa piacere iniziare con Silvano De Fanti (che a breve ritornerà ancora su queste pagine per un'interessante segnalazione), dalla lingua polacca e da un testo di Józef Wittlin finalmente riproposto. Mi auguro poi di offrire presto ai lettori nuove interviste con gli altri traduttori che hanno già accettato l'invito.
LB: Da poche settimane è uscito per Marsilio Il sale della terra di
Józef Wittlin da lei tradotto. Il libro, del 1935, era stato proposto
nel 1939 da Bompiani. Poi si può dire che è scomparso. Quale itinerario e
quale processo lo fa riaffiorare ora, dopo moltissimi anni, al di là
delle ovvie motivazioni contingenti legate al centenario del primo
conflitto mondiale?
R:
In effetti il romanzo era scomparso nel dopoguerra, e per giunta dopo
aver portato il suo autore Józef Wittlin alla candidatura per il Nobel
nel 1939. Scomparso dall'Italia – ma questo non fa specie né testo – e
dal resto del mondo, Polonia compresa. Il Sale della terra ha condiviso
la sorte del suo autore. Costretto a fuggire negli Stati Uniti in tempo
di guerra assieme ad altri colleghi di penna di origine ebraica, dopo
qualche anno il suo nome e la sua opera vennero messi all'indice in
Polonia. La nascita della collana Anemoni pubblicata dalla casa editrice
Marsilio, dedicata ai classici della letteratura dell’Europa centrale e
diretta da due studiosi di rara competenza come la boemista Annalisa
Cosentina e il germanista Luigi Reitani mi hanno dato l'opportunità di
riproporre quel testo ingiustamente poco noto, ma estremamente attuale
anche oggi, a prescindere dall'ambientazione bellica. Che poi il
progetto sia stato accolto dall’editore lo si deve naturalmente anche
alla motivazione contingente che lei cita. Del resto nel nostro ambiente
si sa che a volte l'occasione fa l'uomo traduttore...
LB: Se paragoniamo il protagonista del romanzo di Wittlin, Piotr, ad altri celebri personaggi prodotti dalla letteratura della Grande Guerra, che cosa emerge di singolare e nuovo in questo analfabeta quarantenne sconvolto dalla cartolina-precetto e allo stesso tempo in grado di sconvolgere, con il mondo di cui è il portato, la burocrazia dell'esercito austro-ungarico?
R: Direi che prima di tutto
va tolto di mezzo ogni tentativo di paragonare Piotr a Svejk. Si tratta
di un raffronto compiuto in passato anche da acuti intellettuali (per
esempio lo scrittore tedesco Doblin) ma non azzeccato, sebbene lo stesso
Wittlin avesse messo in scena un adattamento dell'opera di Hasek. Tra di
loro passa la differenza che esiste tra un logorroico e un semi-muto,
tra un finto tonto e il vero scemo del villaggio, come effettivamente
Piotr era considerato dai suoi stessi compaesani. Piotr è l’immagine
dell'inadeguatezza più totale, è l’uomo selvaggio allo stato pre-morale,
la cui comunicazione verbale è estranea ai codici comunicativi dei rari
interlocutori. Di un tale personaggio Wittlin aveva bisogno per farsi
accompagnare nella sua disamina, cinica e umoristica allo stesso tempo,
non solo del fenomeno della guerra, ma anche di qualsiasi evento che
ponga l’uomo in una situazione del tutto alienante. Si tratta dunque, a
mio modo di vedere, di un approccio che anche oggi ha la sua validità:
l’arretratezza culturale diffusa che impedisce di scorgere e comprendere
la vacuità e la dannosità di valori mediaticamente divulgati come
valori imprescindibili.
![]() |
Andrzej Strug |
LB:
La "sbornia" da centenario della Grande Guerra ha già iniziato a
produrre effetti visibili nelle librerie. Tuttavia, come anche la
pubblicazione di Marsilio dimostra, c'è qualche spazio forse per
sfruttare questa ricorrenza e riproporre dei libri fuori dai circuiti
dell'editoria e della traduzione. Sempre con riferimento alla Prima
guerra mondiale e alla letteratura polacca gliene vengono in mente
altri? E in poesia si mosse qualcosa di significativo in quegli anni?
(Ricordiamo che Wittlin stesso è poeta...)
R: Me ne viene
in mente soprattutto uno, assolutamente non tenuto in conto
dall'editoria europea, pubblicato due anni prima del Sale della terra.
Si tratta de La croce gialla di Andrzej Strug, opera di stampo
espressionista e pacifista, che sul canovaccio di un accattivante
intrigo internazionale mostra gli elementi nascosti dei meccanismi e le
conseguenze fisiche e morali della guerra. Può apparire singolare che i
migliori libri di prosa sulla prima guerra mondiale – eccezion fatta per
alcuni importanti racconti di scrittori affermati come Zeromski e
Reymont – siano apparsi in Polonia soltanto negli anni '30 (ma senza
avere caratteri di memorialistica), dopo una lunga elaborazione e in un
clima sociale che faceva presagire un prossimo atroce conflitto. Per la
Polonia la conclusione della guerra aveva significato la riconquista
dell'indipendenza dopo centoventi anni di dominio straniero, e fu
proprio la poesia, che nel secolo precedente si era assunta l'onere di
servire la causa della patria, a rappresentare l’atmosfera di frenetica
passione vitale seguita alla riconquista della libertà. A parte appunto,
fra gli altri, Wittlin, che dopo il conflitto mondiale aveva visto di
persona “in casa sua” la guerra civile fra polacchi e ucraini,
lasciandone un resoconto estremamente umano e doloroso nel ciclo degli Inni. Chissà se anche oggi c'è un qualche Wittlin a osservare ciò che succede in Ucraina...LB: Se paragoniamo il protagonista del romanzo di Wittlin, Piotr, ad altri celebri personaggi prodotti dalla letteratura della Grande Guerra, che cosa emerge di singolare e nuovo in questo analfabeta quarantenne sconvolto dalla cartolina-precetto e allo stesso tempo in grado di sconvolgere, con il mondo di cui è il portato, la burocrazia dell'esercito austro-ungarico?
LB: Questa serie di interviste sta coinvolgendo più traduttori italiani. A lei vorrei banalmente chiedere se si diverte quando traduce. Sempre? Talvolta? Mai?
![]() |
Olga Tokarczuk |
LB:
Come sta la letteratura polacca oggi? Può menzionare autori o titoli
che secondo lei meriterebbero presto una traduzione in italiano?
R:
La letteratura polacca sta bene, ma soprattutto in casa propria. Quando
si avventura all'estero - e in Italia va peggio che altrove – ha
bisogno di grossi arieti per scardinare i portoni di ferro
dell’editoria. A volte non basta nemmeno aver vinto il premio Nobel, la
poesia di Wislawa Szymborska ha potuto trovare sbocco in Italia più per
la citazione televisiva di Saviano che per il Nobel stesso. Comunque
direi che si traduce abbastanza anche in Italia, ma solitamente l'eco
mediatico è languente, quindi la letteratura polacca rimane alla fin
fine una letteratura di nicchia per pochi raffinati intenditori. Farei
almeno una citazione: il romanzo Bieguni (è il nome di una
vecchia setta di credenti) di Olga Tokarczuk, di cui sono già usciti
alcuni libri. Questo romanzo, interessantissimo, è stato proposto ad
alcune case editrici. Ma la lunghezza del testo atterrisce gli editori.
Per i lettori d'oggi sarebbe una fatica immane...
LB: Ne Lo chalet della memoria lo
storico americano Tony Judt racconta di come provò a farsi passare una
depressione di mezza età tentando di imparare una lingua "minore" come
il ceco. Quando lessi questo sorrisi perché avevo provato qualcosa di
simile col polacco, non proprio a mezza età visto che di anni ne avevo
credo ventisette, e forse, stando ai parametri di Judt, non ero neanche
così depresso visto che interruppi presto lo studio. Potrebbe funzionare
il polacco, secondo lei? O meglio il ceco come Tony Judt?
R:
Non so proprio se una lingua minore serva a diluire la depressione. Di
certo Judt ha scelto male: se avesse imparato il ceco prima o poi
avrebbe per forza di cose parlato con un ceco. E si sarebbe accorto –
troppo tardi – che quel ceco, come tanti altri, era piuttosto depresso
di natura, forse proprio a causa della sua lingua. Se avesse scelto il
polacco, alla fin fine gli sarebbe venuta la voglia di dar vita a
un'insurrezione nazionale. Se avesse scelto l'ungherese, avrebbe
scoperto – come Piotr Niewiadomski – che lì dentro c'è il diavolo. E
forse avrebbe fatto la scelta migliore.
lunedì 24 giugno 2013
Patria. Ricordo di Silvio Lanaro
Era già da qualche giorno che riflettevo su una cosa: credo di non essere tra i fortunati che nella vita possano dire di aver incontrato un maestro. Certo, altre fortune e altre disavventure mi riguardano, ma non quella di poter usare serenamente l'espressione "il mio maestro". Mi dispiace. Poi stamattina mio fratello, appassionato lettore di cose di storia, mi ha mandato un messaggio: "Hai visto? Silvio Lanaro è morto". Questo accadere simultaneo dei miei pensieri e l'apprendere della notizia della morte di quello che è stato, in ambito universitario, il professore più importante, mi ha fatto riflettere e scrivere di getto queste righe. Perché Silvio Lanaro per me è stato quasi un maestro. Certo non si può dire che io sia stato allievo di Silvio Lanaro e nemmeno si può dire che lui sia stato mio maestro. Troppo breve e troppo unidirezionale è stata la nostra frequentazione, quantomeno de visu. Maestro e allievo si scelgono assieme, devono potersi chiamare per nome, in quel rapporto che proprio oggi, in burocratiche e cianotiche discussioni di didattica e tecnologie applicate alla didattica, andrebbe nuovamente riscoperto, senza la paura di sembrare "inattuali". Non sono contrario alla tecnologia applicata alla didattica (proprio ieri sera leggevo con interesse un articolo sul ruolo che possono rivestire i videogiochi nell'apprendimento scolastico). Tuttavia, credo sia sempre più urgente la riscoperta dell'importanza di chi ti insegna a pensare criticamente, una volta per tutte e una volta per sempre (e quindi continuamente), per comprendere fino in fondo l'importanza di tale rapporto, anche al di fuori dei dipartimenti di filosofia, dove il binomio maestro-allievo sembra ancora tenere, seppur in pose che spesso mi appaiono affettate (e con il proverbiale prosciutto affettato sugli occhi). Silvio Lanaro è stato, più semplicemente, mio professore di storia contemporanea nel corso di laurea in Scienze della comunicazione a Padova. Non posso scrivere "mio maestro", ma dico che mi sarebbe piaciuto averlo avuto come maestro (e quindi essere stato suo allievo), anche per la voce, la mimica, la prossemica, gli scatti e i baffi, per i sorrisi e le incazzature. Anche per il suo non detto. In fondo un maestro è anche questo: anima e corpo e tra questi una voce che trapassa.
Ricordo le sue lezioni ascoltate dai banchi scricchiolanti dell'aula N del Liviano. Correva l'anno accademico 1998-99, era già caldo (quindi credo fosse il secondo semestre). Aveva preparato un corso monografico intensissimo sugli intellettuali e la crisi degli anni Trenta. Un percorso ardito e ordito tra dati economici, letteratura, importanti libri di scienza sociale pubblicati in quegli anni. Percorreva le pagine di Keynes e Polanyi, Kelsen e Schmitt, Croce e Gentile, Koestler e Orwell, Céline e Hamsun, Gide e Malraux, Lederer e Adorno, i viaggi in Unione Sovietica dei coniugi Sidney e Beatrice Webb, il cinema della Riefenstahl e quello di Loach, le opere e la riflessione di architetti "fascisti" oggi studiati in tutto il mondo come Marcello Piacentini: difficile non appassionarsi a un corso così sapientemente intelaiato e raccontato dalla sua voce microfonata. Un giorno disse, con quella sua immodestia deliziosa per la quale penso talvolta che mi sarebbe piaciuto averlo davvero come maestro, che avremmo dovuto girare molto in Europa per trovare lezioni belle come le sue. Non ne ho la controprova, ma mi sono fidato, quasi come si fida un allievo, come ci si fida di un maestro che racconta commosso che su quegli stessi banchi, il 9 novembre 1943, in tanti ascoltarono dal rettore Concetto Marchesi il discorso inaugurale dell'Anno Accademico 1943-44. La precisione statistica unita alla sua abilità linguistica (in questo sicuramente vicino all'amico Mario Isnenghi) trasformavano ogni lezione in attenzione, una forma di "educazione all'attenzione", per usare la formula efficace che Simone Weil vuole a definizione di "cultura". La storia non era mai disgiunta da una riflessione sul mestiere di storico. Erano belle pure le sue arrabbiature, se l'attenzione mancava, quando gli studenti iniziavano a far brusio e a preoccuparsi un po' troppo per orari di autobus o treni da prendere al volo.
Tutta la sua produzione è meritevole di attenzione, lettura e rilettura. Non spetta certo a me, ora, stabilire l'orografia della sua bibliografia, che tutta s'attesta ad altezze rimarchevoli. Penso ora al bellissimo saggio su L'idea di contemporaneo che chiude con una sorta di lectio magistralis il manuale Storia contemporanea Donzelli (un esperimento che rappresentò un modo nuovo di intendere la manualistica storica). Accanto ad opere ponderose come la cura del volume dedicato al Veneto per la Storia d'Italia. Le Regioni di Einaudi, alla più recente raccolta di saggi intitolata Retorica e politica uscita due anni fa per Donzelli, al fondamentale Nazione e lavoro (uno dei suoi libri più discussi) e al più volte ristampato Storia dell'Italia repubblicana, ritorno col pensiero ad alcuni suoi libri più brevi e altrettanto belli e azzardo l'ipotesi che in questi libri più brevi Lanaro esprimesse ancor meglio la sua statura di storico. Si prenda ad esempio L'italia nuova. Identità e sviluppo (1861-1988), uscito nella collana "Nuovo Politecnico" di Einaudi, uno studio dove si abbraccia la grande capacità di sintesi, la crepuscolare (e perciò più acuta, dolorosa e intensa) abilità di far cozzare proficuamente il dato numerico con quello letterario, le statistiche nude e crude suonate come una partitura accanto all'analisi di un romanzo o ad un'opera di inventiva (ora mi ritornano alla mente le sue scorribande sull'opera di Vitaliano Brancati o la grande lettura dedicata al fenomeno Guareschi), per giungere a quel suo contributo di epistemologia storica intitolato Raccontare la storia. Ma per ricordare Silvio Lanaro oggi, vi lascio con il suo libro forse più breve ed enigmatico. Uscì nel 1996 per Marsilio con il titolo magnificamente inattuale, e forse genialmente surrettizio, di Patria. E quel titolo ovviamente non era né inattuale né surrettizio. Il sottotitolo: Circumnavigazione di un'idea controversa. Il periplo compiuto da Lanaro con quell'opera assai breve era notevole. E rilanciava nel dibattito la patria. E non mi riferisco alla generica idea di patria, bensì alla parola "patria". Mirabile fu la perlustrazione di una letteratura mai scandagliata in precedenza e relativa al caso francese. Proprio quel volume costituisce oggi uno dei più bei lasciti di un maestro così lontano dal conformismo giornalistico di tanti sedicenti storici; quelle tesi sulla non ancora possibile agonia della patria e, anzi, sul ruolo primario della patria a garanzia e protezione delle parabole umane suonano oggi ancor più chiare, nitide, proprio come la bellissima citazione di Piero Calamandrei che Lanaro isolò per chiudere quel libro. Forse Patria ora si può intendere come un estremo tentativo di salvare dalla pattumiera lessicografica della storia una parola che non ha affatto esaurito il proprio battito. Che io sappia, non sono molti gli storici che dobbiamo ringraziare per un simile gesto, in fondo così generoso e curativo dei malesseri europei e internazionali.
Ricordo le sue lezioni ascoltate dai banchi scricchiolanti dell'aula N del Liviano. Correva l'anno accademico 1998-99, era già caldo (quindi credo fosse il secondo semestre). Aveva preparato un corso monografico intensissimo sugli intellettuali e la crisi degli anni Trenta. Un percorso ardito e ordito tra dati economici, letteratura, importanti libri di scienza sociale pubblicati in quegli anni. Percorreva le pagine di Keynes e Polanyi, Kelsen e Schmitt, Croce e Gentile, Koestler e Orwell, Céline e Hamsun, Gide e Malraux, Lederer e Adorno, i viaggi in Unione Sovietica dei coniugi Sidney e Beatrice Webb, il cinema della Riefenstahl e quello di Loach, le opere e la riflessione di architetti "fascisti" oggi studiati in tutto il mondo come Marcello Piacentini: difficile non appassionarsi a un corso così sapientemente intelaiato e raccontato dalla sua voce microfonata. Un giorno disse, con quella sua immodestia deliziosa per la quale penso talvolta che mi sarebbe piaciuto averlo davvero come maestro, che avremmo dovuto girare molto in Europa per trovare lezioni belle come le sue. Non ne ho la controprova, ma mi sono fidato, quasi come si fida un allievo, come ci si fida di un maestro che racconta commosso che su quegli stessi banchi, il 9 novembre 1943, in tanti ascoltarono dal rettore Concetto Marchesi il discorso inaugurale dell'Anno Accademico 1943-44. La precisione statistica unita alla sua abilità linguistica (in questo sicuramente vicino all'amico Mario Isnenghi) trasformavano ogni lezione in attenzione, una forma di "educazione all'attenzione", per usare la formula efficace che Simone Weil vuole a definizione di "cultura". La storia non era mai disgiunta da una riflessione sul mestiere di storico. Erano belle pure le sue arrabbiature, se l'attenzione mancava, quando gli studenti iniziavano a far brusio e a preoccuparsi un po' troppo per orari di autobus o treni da prendere al volo.
Tutta la sua produzione è meritevole di attenzione, lettura e rilettura. Non spetta certo a me, ora, stabilire l'orografia della sua bibliografia, che tutta s'attesta ad altezze rimarchevoli. Penso ora al bellissimo saggio su L'idea di contemporaneo che chiude con una sorta di lectio magistralis il manuale Storia contemporanea Donzelli (un esperimento che rappresentò un modo nuovo di intendere la manualistica storica). Accanto ad opere ponderose come la cura del volume dedicato al Veneto per la Storia d'Italia. Le Regioni di Einaudi, alla più recente raccolta di saggi intitolata Retorica e politica uscita due anni fa per Donzelli, al fondamentale Nazione e lavoro (uno dei suoi libri più discussi) e al più volte ristampato Storia dell'Italia repubblicana, ritorno col pensiero ad alcuni suoi libri più brevi e altrettanto belli e azzardo l'ipotesi che in questi libri più brevi Lanaro esprimesse ancor meglio la sua statura di storico. Si prenda ad esempio L'italia nuova. Identità e sviluppo (1861-1988), uscito nella collana "Nuovo Politecnico" di Einaudi, uno studio dove si abbraccia la grande capacità di sintesi, la crepuscolare (e perciò più acuta, dolorosa e intensa) abilità di far cozzare proficuamente il dato numerico con quello letterario, le statistiche nude e crude suonate come una partitura accanto all'analisi di un romanzo o ad un'opera di inventiva (ora mi ritornano alla mente le sue scorribande sull'opera di Vitaliano Brancati o la grande lettura dedicata al fenomeno Guareschi), per giungere a quel suo contributo di epistemologia storica intitolato Raccontare la storia. Ma per ricordare Silvio Lanaro oggi, vi lascio con il suo libro forse più breve ed enigmatico. Uscì nel 1996 per Marsilio con il titolo magnificamente inattuale, e forse genialmente surrettizio, di Patria. E quel titolo ovviamente non era né inattuale né surrettizio. Il sottotitolo: Circumnavigazione di un'idea controversa. Il periplo compiuto da Lanaro con quell'opera assai breve era notevole. E rilanciava nel dibattito la patria. E non mi riferisco alla generica idea di patria, bensì alla parola "patria". Mirabile fu la perlustrazione di una letteratura mai scandagliata in precedenza e relativa al caso francese. Proprio quel volume costituisce oggi uno dei più bei lasciti di un maestro così lontano dal conformismo giornalistico di tanti sedicenti storici; quelle tesi sulla non ancora possibile agonia della patria e, anzi, sul ruolo primario della patria a garanzia e protezione delle parabole umane suonano oggi ancor più chiare, nitide, proprio come la bellissima citazione di Piero Calamandrei che Lanaro isolò per chiudere quel libro. Forse Patria ora si può intendere come un estremo tentativo di salvare dalla pattumiera lessicografica della storia una parola che non ha affatto esaurito il proprio battito. Che io sappia, non sono molti gli storici che dobbiamo ringraziare per un simile gesto, in fondo così generoso e curativo dei malesseri europei e internazionali.
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