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giovedì 1 dicembre 2016

"Nemici" di Anton Čechov tradotto da Leone Ginzburg (sull'orecchio dei traduttori)

Nei mesi scorsi ha fatto abbastanza discutere la nuova traduzione einaudiana di Anna Karenina a cura di Claudia Zonghetti. Non conoscendo il russo (e nemmeno così bene il romanzo tolstojano, se è per questo) ho approfittato dello pseudodibattito che si è creato attorno a questo "evento" editoriale (perché evento è, dal momento che non si propone una nuova traduzione di Anna Karenina ogni due anni). Così ho letto i vari interventi e interviste, comprato il libro tradotto da Claudia Zonghetti e archiviato tra i buoni propositi quello di leggerlo per primo appena chiuderò questo blog. Alla prima occasione poi mi sono procurato questo Nemici di Anton Čechov pubblicato da Quodlibet nella collana di ebook "Note azzurre". Che cosa c'entra quel dibattito con questo libretto e i suoi apparati? Nei modi in cui provo a farmi un'idea di certi dibattiti sulle traduzioni, il passaggio per questa pubblicazione c'entrava, perché l'ebook di cui accanto vedete la copertina mi sembra valido per più motivi: i) il racconto di Cechov in sé, ovviamente; ii) la nota del traduttore Leone Ginzburg (che fra l'altro altro, come noto, fu traduttore della Karenina prima di compiere vent'anni, consegnando il proprio lavoro all'editore Slavia che lo pubblicò nel 1929), iii) il modo in cui è strutturata la nota iniziale di Giovanni Maccari e iv) il fatto che il tutto, in poche pagine, fosse venduto a 1,99 euro, quando un libro scarno del genere, se confezionato su carta in un determinato modo, può arrivare a costare anche 9 o 10 euro (il punto non è pagare a volte 10 euro per libri sottili, il punto per me era iniziare a analizzare la convenienza e l'opportunità di certi ebook). Mi interessava in particolar modo il discorso di Ginzburg concentrato sulla traduzione e sulla traduzione di Čechov segnatamente. 

Quali sono i passaggi fondamentali del testo di Ginzburg? Sono quelli dove analizza la situazione delle traduzioni dal russo del suo tempo prendendosela in particolar modo con un certo Kociemski, caso emblematico dell'ignoranza e della superficialità che ancora aleggia nel campo della slavistica. E poi sono quelli contenenti le osservazioni sulla lingua cechoviana. Di certo è impressionante notare ancora una volta la mole di lavori e progetti intrapresi o tratteggiati da questo intellettuale internato nella località abruzzese di Pizzoli già nel 1940 e morto dopo tortura dei tedeschi a 35 anni neanche compiuti nel carcere di Regina Coeli. Il campione della sua prosa che troviamo nella nota posta in coda a questa pubblicazione è un esempio fulgido di rigore e puntualità che fa sbiancare i contemporanei lettori (l'effetto con me è stato questo e penso potrebbe essere l'effetto anche con altri).

E il racconto di Čechov? Si tratta di uno dei grandi capolavori del corpus cechoviano, autore che assieme a altri ha perlustrato la forma racconto ricavandone esiti ancora oggi invidiabili e ineguagliati. Ho come l'impressione che il talento - se ha ancora senso parlare di qualcosa del genere per gli scrittori - sia più facilmente individuabile in uno scrittore di racconti. Qui siamo alle prese con un medico, Kirilov, che nel momento in cui perde il figlio di sei anni è trascinato da un trafelatissimo Abogin capitatogli in casa a uscire per recarsi in soccorso della moglie, che in realtà ha solo finto un malore per fuggire con l'amante. Tra i due nascerà un alterco. La traduzione di Ginzburg è quella finita nel volume Narratori russi che Tommaso Landolfi curò nel 1948 all'interno della collana "Pantheon" di Bompiani. Oppurtuno ricordare che Čechov non fu tra gli autori più frequentati da Ginzburg e ciò, ai nostri occhi e orecchi, aumenta la preziosità di questa sua versione e di questa proposta editoriale.

E la nota iniziale di Giovanni Maccari, infine? Il suo è uno scritto che si sviluppa in più direzioni, tra l'analisi stilistica, la traduttologia e, inevitabilmente, la storia della ricezione letteraria. Il titolo del racconto diventa la lente per ingrandire la tesi, ovvero che il nemico "è l'altro quando le circostanze rendono impossibile assimilarlo a sé". La sua nota è, forse indirettamente, un opportuno stimolo per lasciar fuori certe piaghe dei nostri dibattiti e meccanismi percettivi del testo letterario, come potrebbe essere quella dell'autobiografismo nella scrittura. Ci invita ad ammirare come Anton Čechov costruisca racconti, situazioni, dialoghi e personaggi per poter fare qualcosa di ben preciso: osservarli. Questo aspetto dell'osservazione cechoviana mi sembra uno dei suoi lasciti più determinanti e fecondi: si scrive anche per osservare degli effetti, per produrre un esperimento, sensate esperienze per dimostrare qualcosa. Il progetto di un'opera esiste e preesiste, ma lo scopo dell'osservazione può avversarsi strada facendo nella scrittura e, parimenti, nella lettura. Di qui ne consegue la rilevanza di qualsiasi discorso sulla traduzione: rendere questo atteggiamento di osservazione che uno scrittore costruisce - nel caso di questo racconto cechoviano osservazione concentrata sull'"egoismo degli infelici" - è uno dei plurimi compiti di un traduttore. Insomma, per impostare un dibattito sulla traduzione da una lingua poco praticata come il russo è meglio provare ad allenarsi su questa snella pubblicazione di Quodlibet anziché correre dietro alle reazioni suscitate dalla nuova versione di Anna Karenina di Claudia Zonghetti. Non è sempre vero il vecchio motto delle pubbliche relazioni che dice "l'importante è che se ne parli", no. Infine mi pare che sia Ginzburg su Čechov che Zonghetti su Tolstoj pongano giustamente un problema di "orecchio". Non è un fatto secondario parlare di orecchio quando si traduce e questo posso finalmente affermarlo anche senza conoscere il russo.

martedì 3 settembre 2013

I "Fuochi d'artifizio" di Corrado Govoni sparati in e-book. Un'intervista a Francesco Targhetta

Librobreve intervista #22


Chissà se il lettore dalla palpebra pesante apprezza gli e-book, chissà se gli e-book rendono la palpebra più o meno pesante. Finora se ne è parlato poco qui. Tanto vale cominciare, con un e-book quantomeno singolare. Invio le domande di questa intervista a Francesco Targhetta mentre è alle prese - così mi scrive - con la stesura della quarta di copertina per la nuova edizione dei Fuochi d'artifizio di Corrado Govoni da lui curata. Si curva tra i miei muscoli facciali un punto interrogativo: ma come la quarta di copertina? Il libro è infatti in uscita in questi giorni per Quodlibet esclusivamente in formato e-book, nella collana "note azzurre" diretta da Giuseppe Dino Baldi, Elena Frontaloni e Paolo Maccari. Proprio grazie all'interessamento di Paolo Maccari è oggi possibile leggere, in rosso e in verde, come prevedevano gli inchiostri dell'edizione originale, una delle opere principali dell'eccentrico poeta-contadino ferrarese. Introduco così questa chiacchierata, all'insegna delle improbabili "quarte di copertina degli e-book". E per citare il nome del file con le risposte giunto al mio pc: Govoni for president!

Corrado Govoni
LB: Andiamo diritti al sodo (e anche al soldo): perché fa bene leggere/rileggere Govoni e perché, a tuo avviso, l'editoria potrebbe iniziare a occuparsi di questo grande del Novecento con più sistematicità, senza troppi timori?

RISPOSTA: Leggere Govoni fa bene perché la sua è una poesia di continuo stupore, che nasce a contatto con le cose di ogni giorno e i paesaggi più familiari. I suoi versi esplodono di oggetti, colori, immagini, a cui solo di rado, nelle poesie più tarde, si aggiungono riflessioni personali e la presenza dell’io. In un tempo di iper-intellettualismo e iper-egotismo, una scrittura che lascia così tanto spazio alle cose e alla sensibilità del lettore mi sembra molto salutare. L’editoria ha sempre tenuto a distanza Govoni perché ha scritto troppo, stando (apparentemente) sempre in superficie. Troppo naïf, insomma, e troppo dispersivo. Lui se ne rese conto e subì l’emarginazione, sviluppando verso il mondo editoriale e culturale un’acredine violenta che di certo non gli giovò. Ma ormai è riconosciuto come uno dei poeti più influenti del primo ‘900. Fare ordine nella sua vastissima produzione non è facile, ma i grandi editori (a partire da Mondadori e da un auspicabile Meridiano) dovrebbero e potrebbero iniziare a lavorarci.

Il celebre Autoritratto
LB: Quando hai iniziato a posare gli occhi sul poeta di Tamara e come si sviluppa il tuo percorso govoniano? 

RISPOSTA: Govoni è un poeta che compariva (e compare tuttora), per la sua disposizione visiva e metaforica, in molte antologie delle scuole medie, e fu già allora che mi incuriosii ai suoi versi (quelli di Crepuscolo ferrarese, mi pare). L’approfondimento avvenne all’università. Mentre lavoravo alla tesi sulla simbologia religiosa nei poeti crepuscolari mi resi conto che le opere di Govoni erano introvabili; per consultarle dovetti andare alla biblioteca Ariostea di Ferrara. Un giorno andai in corriera a Tamara, dove una maestra locale mi portò a vedere la casa dove Govoni era nato e quella dove era vissuto prima del trasferimento a Milano, e poi un negozio di abbigliamento (di quelli piccoli, da paese di campagna: immensamente triste) che esponeva alcuni suoi libri in vetrina, disposti sopra abiti per anziane e sottovesti. Meraviglia. Lì cominciai ad appassionarmi alla figura di questo poeta-contadino del tutto fuori dagli schemi, e decisi di incentrare sulle sue prime quattro raccolte il mio progetto di dottorato.

LB: Proprio in questi giorni, in edizione e-book nella collana "Note Azzurre", Quodlibet pubblica i Fuochi d'artifizio da te curato. Ci parli di questo libro, che tra l'altro nel catalogo Quodlibet segue le Poesie elettriche uscite qualche anno fa? 
RISPOSTA: È il terzo libro di Govoni (che allora aveva appena 20 anni), ed è senz’altro uno dei più sconvolgenti, non solo perché uscì stampato con inchiostro verde. Offriva, nel 1905, una poesia mai sentita prima in Italia: visionaria e assieme provinciale, piena di errori e immagini scioccanti, tra liriche che descrivono in modo allucinato i pranzi contadini della domenica e fantasie macabre à la Rollinat (una quartina: «Una vedova in una stanza osserva attenta / la sua dentatura guasta in uno specchio. / Nella sala d’un ospedale un uomo canta / mentre i chirurgi gli cavano un occhio»), versi sulla nonna e vaneggiamenti di tisici, l’euforia della fiera e la tristezza dei conventi, e tutto assieme, senza nemmeno una divisione in sezioni. Si tratta, come cerco di spiegare nell’introduzione, di una specie di libro-labirinto, che costruisce sul caos e sul disorientamento il proprio stesso senso. Govoni divenne, dopo la pubblicazione, un caso letterario: molti, sulle riviste, lo criticarono aspramente fino alla derisione, sostenendo, con toni denigratori, che si trattasse soltanto dei deliri di un campagnolo un po’ tocco. C’era anche questo, eh. Ma non solo. Govoni aveva una conoscenza diretta e approfondita dei simbolisti franco-belgi che pochi altri in Italia avevano al suo tempo.

LB: Un altro libro di Govoni da te curato anni fa per San Marco dei Giustiniani è Gli aborti. Potresti collocare brevemente anche quel titolo? Qual è, a tuo avviso, l'opera più importante del Govoni poeta?
RISPOSTA: Gli aborti (1907) sono il libro successivo ai Fuochi. Marino Moretti, all’uscita della raccolta precedente, scrisse che Govoni, ai suoi occhi, non avrebbe potuto andare oltre, ma avanzò il sospetto che forse, in realtà, lo aveva già fatto. E infatti Gli aborti superano le oltranze dei Fuochi. Anzitutto perché riuniscono sotto lo stesso tetto due libri diversi (Le poesie d’Arlecchino e I cenci dell’anima: si tratta, quindi, di una doppia raccolta, la prima di soli sonetti e la seconda in versi liberi), e poi perché il furore visionario raggiunge apici impareggiabili. È un libro che oggi si definirebbe dark, con alcuni passaggi persino splatter, tutto concentrato a esplorare le zone d’ombra, le brutture, i canali di scolo, le creature della notte, e a riportarle sulla pagina deformate e sfatte. Govoni qua esaurisce il codice del decadentismo più noir elevandolo all’ennesima potenza. Ci sono vedove morte per annegamento, preti impiccati, ubriachi sgozzati, rospi, pipistrelli, fantasmi, mendicanti, malati, pazzi suicidi, città fatte di lupanari e obitori, mentre il sorriso dell’amata viene paragonato a «dei legumi gettati / dalla finestra del castello dentro la palude». Per me è un libro meraviglioso (in un’accezione quasi barocca, se vuoi): lo si apre a caso e si rimane incantati. Ma la raccolta più importante di Govoni, e nel complesso quella più riuscita, rimane L’inaugurazione della primavera del 1915.

LB: Ti chiedo adesso una risposta secca, poco più di un monosillabo: ci consigli anche il Govoni prosatore?
RISPOSTA: No. A Govoni mancava del tutto il talento narrativo. Nei racconti e nei romanzi si ritrovano le stesse immagini presenti nei versi, ulteriormente diluite.


Guido Gozzano
LB: "...abbassamento di tono apportato al verso tradizionale e la quasi parodia della rima ricca di tipo dannunziano o parnassiano". Poi, sempre Montale su Govoni, recensendo un'antologia curata da Spagnoletti: "Ho suggerito che probabilmente non si formerà una leggenda di Govoni.". Aveva visto bene? Se sì, perché? Il ponte (fondamentale?) tra Govoni e Gozzano, come si salda (se si salda)?
RISPOSTA: Uhm, dunque: l’abbassamento ci fu senz’altro, favorito da un mix di autodidattismo, irresponsabilità giovanile e marginalità provinciale (ma era anche nel dna di una nuova generazione). La quasi-parodia rimica mi convince meno: il contropelo ironico in Govoni manca. C’era in Gozzano, ma Gozzano fu tutt’altra cosa. E lo fu, come suggerisce proprio Montale in quella recensione, perché Gozzano era un poeta nella storia, che poté chiudere un periodo e aprirne un altro, lasciando ben visibili gli snodi, e con una notevole coscienza di sé. Govoni, nella fase più importante della sua produzione (1903-1915), agì di istinto, senza filtri. Leggeva e scriveva di getto, in furie grafomani che il suo Fondo testimonia. Ne è perciò rimasta un’immagine, e una poesia, più anarchica, meno inquadrabile, meno riducibile a formula; costretta, per essere spiegata, all’antologizzazione e all’epitome (come scrive Montale, con un giudizio critico che è diventato una condanna). Di Gozzano Govoni anticipò alcune immagini, prese a prestito dai francesi che leggevano entrambi, ma in comune non hanno nient’altro: la strada di Govoni è lirica e impressionistica, quella di Gozzano narrativa e prosastica.


Il libro curato
da Paolo Maccari
LB: Abbiamo già scritto e ripetuto che Fuochi d'artifizio esce soltanto in e-book. Quali idee e aspettative ti sei fatto in merito a questa scelta?
RISPOSTA: L’idea della pubblicazione digitale dei Fuochi era già nel progetto accademico originario che portò, nel 2008, a riproporre Gli aborti. Poi però, per varie ragioni, ci furono ritardi e non se ne fece niente. Grazie a Paolo Maccari, che aveva curato la riedizione delle Rarefazioni e parole in libertà (sempre per San Marco dei Giustiniani), Quodlibet si è interessata alla ripubblicazione del libro, mantenendo l’idea dell’uscita solo in e-book. E in effetti Govoni a me sembra un autore ideale da divulgare in digitale, non solo per la modernità e la stravaganza delle sue edizioni (i Fuochi sono un libro di 95 poesie stampate in verde e rosso: quale editore avrebbe mantenuto questi criteri su carta?), ma anche per l’interesse che dimostrò verso l’aspetto grafico della poesia (penso ai calligrammi delle Rarefazioni, ma non solo).