venerdì 30 marzo 2018

"Bestia da latte" di Gian Mario Villalta

"Mi sono fatto l'idea che la maldicenza, la litigiosità, la cattiveria che regnavano in casa sua e in tutte le altre del paese non lo avessero mai intaccato. Gli ho sempre riconosciuto una pulizia interiore, una sincerità disarmante, anche quando, più avanti negli anni, quella sincerità diventò spesso un'arma per cercare di sedare le mie inquietudini. Non riusciva a capire che la sincerità e la verità non sono la stessa cosa, e che la sincerità di chi ha potere su di te appare come un'esibizione di forza, oltre che risultare a volte più dolorosa di un insulto." (Il protagonista del libro sta ricordando qui la figura paterna.) È un passo tra altri simili e altrettanto cruciali di Bestia da latte, nuovo "romanzo" di Gian Mario Villalta (SEM, pp. 160, euro 16), un libro finalmente disturbante. Qualcuno - librai compresi - lo fa passare come un'opera che, con buon tempismo, si cimenta sul bullismo, un bullismo tra le mura domestiche tra l'altro, ora che il bullismo è materia scolastica quotidiana (non più prettamente maschile e con varie declinazioni cyber). In realtà il bullismo può essere l'esca per far presa nelle redazioni dei giornali, il tema per gli uffici stampa e la promozione, poi bisogna vedere se i librai cercano il solito libro che non disturbi nessuno e che venda bene. Il libro di prosa più bello che Villalta ha scritto sin qui è però un nuovo affondo nell'universo imperscrutabile dell'infanzia e qualcuno dovrà registrare ormai che, soprattutto nella prosa, lo scrittore di Pordenone ha dalla sua una continuità, intimità e felicità di frequentazione con i temi e i tempi dell'infanzia che pochi altri autori hanno mostrato sin qui: narrativa dell'infanzia, non narrativa per l'infanzia.

Che cosa succede quando un uomo adulto, ripercorrendo la propria infanzia su una sollecitazione quasi casuale, arriva piano piano a capire di essere stato lasciato solo? Solo nella paura e nell'angoscia quotidiana causata da una violenza soverchiante, onnipervasiva e perpetrata con metodo e imprevedibilità da un cugino più grande, che viveva nella stessa casa, abbandonato dai genitori. Che cosa succede quando costui - il nostro narratore - capisce di aver avuto paura, davvero tanta paura? E che cos'è un'infanzia felice? Oppure, per ricordare un precedente libro di Villalta, che cosa succede alla fine di un'infanzia felice? Come si diventa adulti o come si aspetta di diventare adulti? Qual è il nostro rapporto con la responsabilità, con quello di cui ci sentiamo responsabili? Ad un certo punto il protagonista riconosce:
E ho scoperto una contraddizione che devo riconoscere e non smettere mai di affrontare: siamo consapevoli soltanto di una piccola parte di ciò che ci accade, mentre invece ci sentiamo per intero responsabili di noi stessi, anche di quello che è un destino, che cioè non dipende da noi e non possiamo modificare. E questa è per tutti una responsabilità troppo grande.
In un altro punto il narratore riconosce semplicemente ciò: "Non ero affatto trascurato, ero solo." Questo libro colloca le relazioni familiari e le loro altalene, i luoghi dei paesi di quello che si chiamava più volentieri Nordest finché tirava, gli attrezzi (finalmente un ingrassatore, caricato a mano e non con la spatola, fa la comparsa in un libro!) all'interno di un discorso ampio e problematico di memoria individuale e collettiva. Quando però un libro impagina quella realtà patriarcale, incastrata tra una società ancora prettamente agricola sorpresa e sconquassata dal boom, nel momento in cui tutto il mondo attorno letteralmente esplode, ecco che questo libro può arrivare a disturbare, ponendo quegli interrogativi che certa prosa mondata e sterilizzata ormai non sa più porre. E per restare al momento nodale in cui è ambientata la parte preponderante della vicenda narrata, non vi è controllo nello scoppio, non vi è previsione, sembra venir meno anche un patto col destino, per quanto lo scoppio stesso sia parte del destino. La patina mitologica del boom economico trova finalmente in queste pagine, almeno per quel che riguarda il versante orientale d'Italia, una rappresentazione più riuscita, efficace e in fin dei conti ben più utile della marea di cantilene che da decenni trasciniamo stancamente per narrare quell'esplosione economica e sociale collocata negli anni Sessanta.

Siamo nel momento delle prime industrie e dell'esplosione edilizia, delle nuove case in costruzione e del ricordo che lasciano quegli spazi ancora freschi di malta, della vita violenta e a suo modo comunque incantata di certe aree di Friuli o Veneto: qui si inserisce la narrazione, qui i molti interrogativi disseminati, qui un tentativo di rielaborazione tra altri possibili. E una parte di questo tentativo di rielaborazione può coincidere con il riconoscimento del momento in cui gli animali di casa, le "bestie", iniziano a essere divisi in due categorie, le "bestie da latte" e quelle "da carne", in un processo che spezza l'antico rituale di violenza e sacrificio tra uomo e animale e che porta a far puzzare le stalle di liquami fermentati: non c'è più tempo e spazio per la maturazione del letame, affinché questo assuma un odore quasi gradevole. Nello scenario contemporaneo, contraddistinto sovente da una prosa che giochicchia con la fascinazione per scenari rurali e selvaggi, la durezza di questo libro è un toccasana: la corona delle montagne friulane sta lì, rifulgente o ombrosa di notte. Eppure il padre del protagonista in montagna non ci va mai.

Restiamo al libro, con una digressione narratologica e di genere (letterario). In copertina si parla di "romanzo". Bene, siamo sereni: è un romanzo. Tutti salvi: editori e magari anche i librai. Tuttavia il patto che Villalta narratore costruisce con il proprio lettore - anche nel precedente Scuola di felicità (Mondadori, 2016), a ben ricordare - è quello di un narratore che sa che sta narrando una storia e che non si nasconde davanti a chi la legge. Il protagonista compie un'operazione sulla propria memoria e sta scrivendo queste pagine per il proprio figlio Leonardo, che subentra nella narrazione verso la fine, gettando a sua volta una ulteriore scia di interrogativi essenziali che si conficcano nella materia di penombra di cui sono fatti i nostri pensieri, su tutto quel passato che il lettore ha sino a quel punto conosciuto, per capi e sommi capi e su tutto quel presente dell'infanzia che emerge per contrasto, anche attraverso la materia dei sogni. Insomma, il narratore parla di "pagine" quasi a suggellare la consapevolezza di qualcosa che potrebbe assomigliare a un memoriale ma che memoriale non è e non è nemmeno "romanzo" (a proposito di "pagina", così dice l'epigrafe da Pitture nere su carta di Mario Benedetti: "Non so, dove e quando, casa / degli uomini e delle bestie, // del loro nulla, come / sia nostro mondo, da lastre // a bastoncelli, la nostra luce / nell'universo, e questa pagina"). Certo, si tratta di una storia e come nelle storie c'è una svolta, c'è persino una suspense nei momenti in cui si racconta di violenze crude e gratuite, oppure di gesti definitivi fortuitamente mancati. E il movente della narrazione è una madre anziana che, sentita spesso al telefono, nel presente in cui avviene la scrittura, sollecita il ricordo del narratore: è quella stessa madre che rientrerà più volte in una narrazione di una famiglia larga e popolata, nella quale si avvita e svita continuamente una triangolazione tra memoria, immaginazione e scrittura (perché questo è un libro scritto e la scrittura con le sue temperature è purtroppo così poco centrale nei traffici dei nostri discorsi sul romanzificio). Si tratta di un patto apparentemente più semplice di quello di un narratore che si nasconde. Diverse spie nel testo ci dicono di questa strategia discorsiva consapevole (il narratore sa di essere narratore): il narratore che sa e dice di essere narratore allarga e restringe lo sguardo sulla propria materia attraverso digressioni, prolessi, ellissi, divieti, sopralluoghi lirici.

In copertina, il particolare della scultura Patrick di Bruno Walpoth, chiude perfettamente il circuito con un testo nel quale il protagonista è chiamato Zhoca dal cugino violento. Zhoca è un epiteto dialettale diffuso nelle aree del Veneto e Friuli, rimanda appunto al ceppo di legno, ma è passato a significare, tra lo scherzoso e l'offensivo, "la testa", una testa poco prensile, ottusa, inadatta o persino inetta, testa da battipali insomma. Il narratore si preoccupa di fornire anche le istruzioni per la pronuncia, rifacendosi alla lingua spagnola. Non è l'unico punto in cui il dialetto appare nel libro e sarebbe il caso di spendere qualche parola di più su questo aspetto, ma ci fermiamo qui.

lunedì 26 marzo 2018

Poesie inedite di Silvia Sferruzza





"al cor gentil ratto s'apprende" è il titolo dello spazio che Librobreve dedica alle poesie inedite. Qui si ospitano testi che probabilmente andranno a costruire nuovi libri di poesia. Si propone come rubrica di solo testo, priva di foto glamour degli autori. L'unica immagine rimarrà quella del ratto qui sopra, identificativa di ogni post, un portafortuna che dedico agli ospiti. La pubblicazione avviene su invito e pertanto non ha senso inviare i propri testi all'autore del blog se non vi è stato prima un dialogo e accordo tra Alberto e chi ha scritto le poesie. Non ho previsto commenti o preamboli ai testi. I lettori invece possono commentare. 


Tre testi inediti di Silvia Sferruzza.


*

Male di terra

Scendendo dal mezzo sembra che tremi:
ondeggia estrema e lo stomaco nota
che è dura, più scura che rossa,
difficile da digerire.
Infuria di calma e inserta risposte
a domande mai poste: in lei
sula e tutta porto di mare
si cela
materia che sfida gli stati.
Mal d’aria terrosa,
che invade le case e infarina i balconi,
paglia che infuoca che frigge
le code, le colpe, gli incagli leggeri
e pesanti, segreti scirocchi
e cantilene
– scroscianti carboni bagnati
le trombe d’aria dell’insularità –
annacquate dal troppo tacere.
Brulla di calore e sete propri,
aspra di montagne nude,
tarsia di mandorle crude
e di alberi fiori di agavi,
le spalle al mare scontrose
porge e ritira, ospite antica
di sé, e di sé diffidente:
alza la voce, sfinisce i lavori,
i colori sbiadisce e ama i contorni.
In sé sola si chiude e insulta di pioggia
le derive ignare e dipendenti,
trasforma i dettagli in continenti.

Se figlio di nuvole cariche
più carico torna il sereno,
erede è del vero del vento,
di vento ripieno.

*

I piedi neri della sera
son sporchi perché ha camminato tanto
son nudi perché ha camminato nuda
son seri e sono pieni di pensieri
che forse diventano pani
quando le mani
li infornano col lievito notturno.

*

Le mie sigarette
sono strette parole
che troppo spesso lascio da sole
a fumarsi di vento,
che spengo con sabbia prematura
e prevengo con cure avventate
son arnie salate
che più covano e pungono
più torna la sete.

*

giovedì 22 marzo 2018

"Dal modernismo a oggi" di Romano Luperini: la spinta a storicizzare la contemporaneità tra le avvisaglie di un populismo letterario

Si conclude con un utile interrogarsi su possibili nuove forme di populismo in letteratura questo libro di Romano Luperini, alla fine di un agile paragrafo in cui il decano della critica aveva preso in considerazione i libri caldi del 2017 (Le otto montagne di Cognetti, La più amata di Ciabatti, ma anche il Brucio tutto di Siti). È un interrogarsi significativo e utile, giacché da un pezzo sta insidiandosi un pensiero di letteratura legata ai buoni sentimenti, alle pratiche edificanti che si posizionano in una comfort zone che sta tra il sempreverde fascino per il selvaggio, i toni più artatamente accesi o un incomprensibile new ruralism di altri libri di successo presso premi e lettori, promossi dagli editori con maggiore blasone. L'industria editoriale del romanzo in effetti può ormai prevedere una certa pulizia e standardizzazione del prodotto finito, secondo prassi che si sono consolidate e secondo una serie di operazioni di finissaggio, così come ce ne sono in tutte le industrie, dai telefonini alle scarpe. Ma la letteratura non è un regno rassicurante, tutt'altro, mai stato questo; i libri sono ancora una merce che potrebbe vantare (o soffrire di) una qualche peculiarità, se non altro perché sembrano più a diretto contatto con le idee, la pelle e il sangue degli uomini (è un'illusione questa?). Fa bene dunque Luperini a sigillare così quest'ultimo libro. Ma sarà davvero un ultimo libro per lui questo qui, come si era già promesso? Lascio la domanda proprio perché Luperini parla di una promessa non mantenuta all'inizio di Dal modernismo a oggi. Per storicizzare la contemporaneità (pp. 152, euro 16, da poco uscito per Carocci). La promessa non mantenuta è quella che non sarebbe più tornato con un libro di saggi, proprio a seguito di alcune riflessioni, rilasciate nei penultimi scritti, sulla prensilità della forma saggistica, sulla sua necessità e sulla possibilità di aver altro valore da quello che impronta il percorso di ricerca e di pubblicazioni di uno studioso all'interno del circuito dell'accademia. 

Tutto parte insomma da una promessa non mantenuta. Ma dove si arriva partendo da una promessa non mantenuta? Il libro raccoglie alcuni scritti di diversi momenti, anche cosiddetti occasionali, raggruppati sotto il cappello di un titolo che esprime un arco temporale abbastanza lungo unitamente alla necessità e allo stimolo continuo di storicizzare il contemporaneo. Al di là del titolo, che crea la cornice temporale di questi scritti, che cosa vuol dire "storicizzare"? Volendo complicare la faccenda, che cos'è oggi l'idea di contemporaneo o di contemporaneità? Su quali livelli si assesta? A quali livelli si sgretola? Almeno una cosa, però, la sappiamo: storicizzare vuol dire collocare - o tentare di collocare - le opere, il pensiero, i dibattiti all'interno del loro tempo e, conseguentemente, all'interno del nostro. Si tratta quindi di un'azione doppia e bifronte, che sfuma nella critica, nell'epistemologia, nella riflessione storica. Sfuma e sfugge in tanti rivoli. Ed è così che Luperini abbraccia un'eterogeneità di autori e correnti, dai vociani a Saviano, infilando all'interno un saggio come "Federigo Tozzi e le emozioni" (mi è parso molto bello proprio questo scritto), un altro su Mario Luzi e la crisi del genere lirico in uno dei contributi più approfonditi e ampi, uno su Sanguineti definito anche "l'ultimo intellettuale", uno sul già citato Siti o un altro ancora sul caso Ernaux, esempio di successo dell'autobiografismo, mediante il quale è redatto un bilancio delle sperequazioni economiche dell'epoca attuale e dello scenario che ne è derivato, chiuso tra cinismo e ironia sarcastica, due atteggiamenti parimenti improduttivi, anche nell'ottica di una rivolta che per ora non arriva.

Il volume si presenta come agile ma al contempo assai densa lettura, che si interrompe davvero ai giorni nostri, con un'intervista di Filippo La Porta reperibile anche in rete nel sito "laletteraturaenoi" a questo indirizzo e con la valutazione dei romanzi del 2017 di cui si diceva poco sopra. Siamo quindi davvero nell'"oggi" del titolo. Ma come arriva Luperini a chiudere questa cavalcata storicizzante? Lo abbiamo già anticipato e, oltre agli scritti sugli autori citati, il lettore troverà capitoli dedicati alla poesia di Umberto Saba, con approfondimenti sulla psicanalisi nella cultura letteraria, la peculiare posizione di Trieste in questo flusso e la configurazione dello spettro sabiano, oscillante tra spinte di modernismo e antimodernismo. Infine, in questo 2018 che chiude il quinquennio del centenario della Grande guerra, giova ritrovare anche l'acuto bignami su "La Voce", "Lacerba", Papini, Slataper, Jahier e Serra, ancora una volta con il suo Esame di coscienza di un letterato.

mercoledì 21 marzo 2018

"La poesia all'arte/dialoghi": una lettura a Palazzo di Francia a Treviso a cura di CartaCarbone Festival




Sabato 24 marzo - ore 20:45
Palazzo di Francia - via Roggia 12, Treviso

Lettura di poesie di: 
Erika Crosara
Maddalena Lotter 
Cristina Micelli

Di seguito potete leggere un testo delle tre autrici invitate, che si ringraziano per la collaborazione assieme a Paola Bellin, che ha cortesemente curato questo post.



Erika Crosara (testo inedito; la poesia si pubblica come immagine per mantenerne fissa l'impaginazione e aggirare la liquidità dei nostri schermi)



Maddalena Lotter (testo inedito)


Abbiamo costruito una casa nella sabbia
e poi l’abbiamo calpestata.
Sulle macerie il capo supremo
decise che era ora di andare
a caccia di meduse, per essiccarle al sole.
Il più piccolo fu costretto
a toccare un tentacolo. Ci piaceva fare
e disfare; non vorrei eccedere
ma eravamo spietati.
Ad ogni buon conto, negli anni
nessuno è rimasto impunito.


Cristina Micelli (testo edito tratto da Stato di veglia, edizioni Dot.com.Press)


Dirimpetto a chi non ha risposto
stare dalla parte dei cappotti chiusi.
Tremare
all’insaputa della trama dei visi.
L’asola di essere capiti 
sembra non coincidere con il bottone dei vivi. 

martedì 20 marzo 2018

I cambi di stagione: equinozio di primavera


In occasione di solstizi o equinozi, quindi al massimo quattro volte l'anno, riprendo qui un testo dagli archivi. Specifico solo il caso dei testi editi. Le immagini che accompagnano questi post sono tagli e rotazioni (di 90°, 180° o 270°) dalle tavole



Risolvo e ho occhi sbiechi
sul graffiato bianco del muro
o ricordi in grosse tende a fioroni
dove infagottarsi e annusare
quello che sbiadisce in ocra
in echi dai campanili bagnati.
Ma è qui la stanza murata 
i suoi strumenti dentro
la cucina di penne ai pomodori 
pelati e vino rosso allungato, 
a un passo dalla strada un cumulo 
di polveri di caffè in una aiuola. Risolvo

e sono a un cancello aperto 
dove bastano basse delle nuvole
a due fratelli e due fratelli altri
entrano e hanno anche ora quelle gambe 
che scottavano al sole.
Reale è un marciapiede irrisolto
con gli attacchi dei rubinetti 
negli stessi buchi in cui credi,
si destano i violenti detti, i proverbi
e da qualche nastro registrato le voci
che ridono dei loro congedi: vigliacco d’un tempo
o maledetta primavera perché pioveva.
Qua quasi tutti hanno pensato quando
farsi una casa per morire in piedi.

sabato 17 marzo 2018

"L'informe e senza ombra" di Ikkyū. Due conversazioni

Librobreve intervista #82

Da qualche giorno è disponibile L'informe e senza ombra del monaco buddista e poeta giapponese Ikkyū (Kyōto, 1394 – Kyōtanabe, 1481), libriccino de La collana Isola tradotto da Leonardo Vittorio Arena e illustrato da Chiara Druda (per informazioni lacollanaisola.tumblr.com) e qui di seguito si ospita una conversazione della curatrice della collana Mariagiorgia Ulbar con l'illustratrice e il traduttore.

Una conversazione con Chiara Druda

1) Chiara, quando ti è stato proposto di disegnare un’Isola, i dattiloscritti che ti avevamo inviato erano due e tu hai preferito i canti di Ikkyu. Non conoscevi l’autore, ma lo hai scelto. Ti era stato detto che veniva dal passato e ti veniva proposta una lettura in traduzione. Sapevi che non avresti potuto comunicare con lui - non utilizzando i canali convenzionali almeno, ma non hai avuto dubbi nella scelta. Quale corda ha toccato? A quale visione grafica ti ha condotta?
R: Ho scelto Ikkyu perché parla una lingua universale, questo mi ha sollevata dal problema della comunicazione, una lingua mediopassiva cui tendo, insieme all’orecchio, la mia, in una sorta di bacio di comprensione e svelamento. L’ho scelto per la perspicuità con cui descrive l'amore per la vita e per la morte, si riesce a compatirlo, sono stata affascinata dalla naturalezza con cui la sua parola può sfumare nel discorso di un altro, andare e venire, insinuarsi. Un monito fiorito, privo di vanità, che dura nella vanitas. Graficamente ha evocato dapprima i segni, successivamente i disegni, intesi come discorsi complessi di subordinate grafiche.

2) Come hai disegnato le poesie di Ikkyu? Che rapporto c’è tra parole e immagini?
R: Ho letto e ho sentito il fiume ed anche il mare, ho sentito “lo stesso" manifesto in circostanze diverse, che sono le mie, le mie grafie, i miei topoi, visioni, casi e disguidi, i disegni. Ikkyu rende accessibile e confortevole la sospensione del giudizio, l’epoché, la verità. Per questo non ho illustrato le sue parole ma ho detto a modo mio, in proporzione a ciò che ho appreso, lo stesso sentimento. La montagna, la pioggia, il Calderone, il fiume, il mare, la verticale, l’ascesi orizzontale.

3) Se immagini questo poeta di molti secoli fa in un Giappone molto diverso da quello di oggi, provando a dirlo in una parola, cosa vedi? E se lo immagini oggi?
R: Lo immagino sorridente, per sempre. 

4) Sei una ceramista: come sarebbe la poesia di Ikkyu in ceramica? Che tipo di manufatto? Puoi dirci forma, colore, consistenza?
R: Sarebbe argilla, lasciata alla natura, non fissata irreversibilmente dalla cottura che definisce la ceramica. Sarebbe un invito ad andare a cercare la materia e godere delle forze che naturalmente la trasformano.

5) Che cos’è per te un’isola?
R: Un approdo, in senso lato. La collana Isola lo stesso.


Una conversazione con Leonardo Vittorio Arena

1) Dal 2012, la Collana Isola ha pubblicato ventuno Isole e questa è la ventiduesima, poesie e illustrazioni in bianco e nero come sempre, ma con una differenza: Ikkyu è il primo poeta non vivente e non contemporaneo a comparire nella collana. Ti chiedo: Ikkyu è “non vivente” e “non contemporaneo”?
R: Rispondo per analogia. Quest'anno, per il mio corso di Storia della filosofia contemporanea all'università di Urbino, una delle due parti è dedicata al maestro taoista Zhuangzi, all'incirca vissuto tra il IV e III sec. a. C. Ciò che ho detto per lui vale, a maggior ragione, per Ikkyu. La sua presenza si percepisce sempre di più oggi, grazie alle tematiche e allo spirito. Certe opere sono sovratemporali.

2) I canti che compaiono in questa edizione di Isola non sono la tua prima traduzione del poeta giapponese: quando hai tradotto Ikkyu per la prima volta? Quante volte lo hai tradotto e perché?
R: La prima volta fu per una rivista, ma non ne autorizzai la pubblicazione. Studiavo giapponese da due-tre anni. Pochi anni fa ho scritto un ebook, Ikkyu poeta Zen, con molte citazioni dalle sue opere. Mi è stato utile per un corso monografico sul suo pensiero, nella disciplina "Filosofie orientali". Ikkyu mi ha colpito subito. Il suo spirito anti-istituzionale e libero l'ho sentito molto vicino.

3) Quando rileggi le traduzioni che fai, trovi la distanza per leggerle? Quando hai il libro in mano, chi è a leggere? Leonardo, il traduttore di Ikkyu, un lettore qualunque, una emanazione di Ikkyu che legge la versione di sé in italiano, il lettore o la lettrice d’elezione che hai immaginato traducendo?
R: Non sono distante. Forse, nella rilettura, sono il traduttore o lo studioso del buddhismo. Penso che potevo cambiare alcune parole o impostare una versione diversa. È l'attitudine più comune con cui rileggo i miei testi stampati. Con Ikkyu mi è capitata una cosa strana, insolita: ho sentito una registrazione in cui si recitavano poesie dalla mia traduzione. Mi sono piaciute, non le ho riconosciute subito.

4) È la prima volta che qualcosa da te scritto o tradotto viene illustrato da una persona che non conosci e che ti viene proposta da chi cura il libro: avevi riserve in merito? Come è stato l’incontro con i disegni? Puoi raccontarci in poche righe reazioni, dubbi, gioie o altro?
R: Avevo riserve, ma potrei dire che non avevo colto lo spirito della collana. Non mi era stato spiegato, non lo avevo capito o non ricordavo che traduttore e disegnatore avrebbero lavorato in piena libertà e autonomia, senza comunicare. Sono un fautore della improvvisazione musicale radicale; quindi, una volta apprese le "regole" o i "principi" editoriali, ho accolto di buon grado disegni che non mi sembravano pertinenti. Nell'improvvisazione si accetta qualsiasi cosa dall'interazione tra i musicisti, senza prevenzioni. Tutto vale ed è bello. I disegni esercitano su di me un grande fascino. Mi piacerebbe fare fumetti, ma non ho mai trovato un disegnatore che potesse dar corpo alle mie storie. È stato molto gradevole per me vedere queste poesie "sceneggiate".

5) Pensando a tutto ciò che per te rappresenta la poesia di Ikkyu e dovendolo riassumere in una immagine o in un disegno, cosa vedi?
R: Un airone bianco in mezzo alla neve.

6) Come consiglieresti la lettura di questo libro usando solo tre parole?
R: "Fanne quanto vuoi."

7) Cos’è per te un’isola?
R: Evoca qualcosa di separato, altero, fiero della sua diversità.


NOTE

Chiara Druda è nata sulla costa dell'Adriatico centrale, ha studiato pittura e filosofia guardando l'orizzonte e attraversando campi e nel 2012 ha intrapreso il percorso della ceramica che l'ha portata a Castelli, sotto il Gran Sasso. Lavora a progetti artistici per la ceramica in Italia e in alcune città europee. Conduce laboratori di ceramica.

Leonardo Vittorio Arena insegna storia della filosofia contemporanea all'università di Urbino. Orientalista, fa corsi di meditazione e concerti di musica elettronica con ipad. Pubblica per Rizzoli, Mondadori e altre case editrici italiane. 
https://it.m.wikipedia.org/wiki/Leonardo_Vittorio_Arena

mercoledì 14 marzo 2018

Ancora sul vintage: la rubrica di poesia "Parole italiane" di Luca Mastrantonio su "7" del "Corriere della Sera" e un esempio con Alfonso Gatto

Libri brevi che mi piacerebbe scrivere o trovare #15
 
In commercio
Questo breve intervento fa il paio con il precedente intitolato Quanto ci piacciono vintage anche le patrie lettere! e si sofferma sulla predilezione per quanto è antico, anzi vintage, anche nel discorso editoriale-letterario. Diciamo che potrebbe essere un capitoletto di questo fantomatico e inesistente "libro breve che mi piacerebbe scrivere o trovare". Mi interessano moltissimo i vecchi cataloghi editoriali, i libri fuori commercio, le librerie dei remainders, però trovo assai meno interessanti i modi, i tempi e i luoghi in cui prevale la fascinazione per il vintage in editoria. Vediamo un esempio. 

La rubrica poetica intitolata "Parole italiane" a cura di Luca Mastrantonio su "7", settimanale del "Corriere della Sera", spesso va a recuperare poesie di un tempo passato, mostrando le copertine di prime edizioni di allora. Fin qui va tutto bene o quasi (dipende dai gusti, dalle inclinazioni, dal pensiero che si ha nei confronti di simili rubriche ecc.). Va meno bene, a mio avviso, se le opere di quel dato poeta sono regolarmente disponibili in commercio. Tra le predilezioni del curatore, già più di una volta ho rivisto certe copertine de Lo Specchio Mondadori di un tempo. È successo ad esempio di recente con Alfonso Gatto, del quale proprio lo scorso anno è però uscita per gli Oscar Mondadori la raccolta Tutte le poesie a cura di Silvio Ramat (pp. XLVIII-842, euro 26). Ora qualcuno dirà che è benemerito qualsiasi intervento che faccia riaffiorare la poesia in contesti di buona se non ottima visibilità. Può darsi, non lo so, e anche qui c'entrano gusti, inclinazioni e ambizioni, ma se la tendenza è questa emergente patina vintage, che sembra slittare  piano piano e insidiosamente in un giudizio di valore, non sono d'accordo. È vero che c'è una miriade di titoli di un tempo che meriterebbe nuova attenzione, una ristampa, una nuova edizione, una segnalazione su un settimanale importante. Però l'approccio molto vintage di questa rubrica di poesia che occupa una pagina di "7" mi è sembrato - per quello che sono riuscito a intravedere sin qui - trainato da questa fascinazione vintage poco vivace e producente. E credo vada ben distinto il rovistare tra vecchi cataloghi editoriali finalizzato alla ricerca di determinati titoli, dalla fascinazione, talvolta aprioristica, per quanto presenta una patina vintage. Se si doveva oliare un sistema produttivo nel quale anche Corriere e RCS sono inseriti, in questo caso specifico aveva molto più senso mostrare il libro regolarmente in commercio negli Oscar. Inoltre, a questi aspetti, va aggiunto che il tutto non è salutare per l'arte poetica (anzi, per questo genere editoriale). E il caso di Alfonso Gatto, del quale esiste appunto un Oscar Mondadori recentissimo, mi ha sostanzialmente spinto a formulare queste righette. Del resto tutto ciò s'accompagna a un recente tentativo di rilancio della poesia in casa Mondadori che si è palesato con tinte e toni fortemente vintage di recupero del blasone perduto, un'operazione che non può che destare grandi perplessità.

Se va avanti di questo passo, tra non molto, a fronte di un panorama distratto e non interessato alla poesia - il che ci può stare, esistono infatti i gusti e le mode anche in letteratura -, troveremo presto un fiorente mercato del libro antico di poesia. Esiste già, a dir quel che è, anche se dovrei togliere la parola "fiorente". In questo mercatino, to', ci si scannerà per la seconda edizione difettata degli Ossi di seppia (titolo sempre reperibile in edizione economica) magari lasciandoci scappare un affarone su un libro remainder di Dario Villa, Danilo Dolci o Mario Benedetti (quello italiano nato in Friuli, non l'uruguagio). È chiaro che il mercatino del collezionismo è altra cosa rispetto al mercatino della poesia in commercio, però c'è questa possibilità che aleggia, cioè che, soprattutto per certe tasche, i due mercatini vadano a sovrapporsi. Chi vivrà vedrà.

lunedì 12 marzo 2018

Cimitero di guerra: un testo da "Preparativi per la villeggiatura" di Remo Pagnanelli

Leggere una grande guerra #27


Lo scorso anno, in occasione del trentennale della morte e grazie anche alla pubblicazione Quasi un consuntivo (1975-1987) (Donzelli, pp. 160, euro 15, a cura di Daniela Marcheschi), si è riattivata qualche attenzione attorno all'opera del poeta e critico Remo Pagnanelli (Macerata, 6 maggio 1955 - Macerata, 22 novembre 1987). Nella sua breve vita interrotta dal suicidio, oltre ad alcune pubblicazioni che, tra altri editori, hanno riguardato Scheiwiller, Forum e Il lavoro editoriale, il marchigiano Pagnanelli ha incrociato il Veneto in un paio di occasioni, prima con Atelier d’inverno (Accademia Montelliana, 1985) e poi con il volume postumo Preparativi per la villeggiatura (Amadeus, 1988, con una nota di Giampiero Neri). In biblioteca mi è capitato in mano proprio quest'ultimo volume marrone, del quale riporto il testo seguente. Di Pagnanelli si trova ancora il volumetto Prime scene da manuale della collana "Ocra gialla" delle Edizioni Via del Vento di Pistoia, mentre il versante critico della sua scrittura è più difficilmente accessibile. Oltre agli studi su Vittorio Sereni, ha senso ricordare il volume pubblicato sempre postumo da Mursia nel 1991 e intitolato Studi critici. Poesia e poeti italiani del secondo Novecento con contributi su Bellezza, Bertolucci, D'Elia, Giudici, Mussapi, Penna, Sereni e Zanzotto. 

(Nell'edizione Amadeus del testo seguente, parole come "orto" o "uomo" sono effettivamente precedute dall'articolo indeterminativo con l'apostrofo.)


dentro un inizio di bosco curato più di un'orto il cimitero contiene novecento morti della prima guerra mondiale. Ci s'incappa per caso deviando dal sentiero segnato che conduce alla malga. Piccolo miracolo di perfezione giardiniera che un'uomo accudisce con ossessione. Uno di questi perimetri esagonali potrebbe essere il posto del riposo. Tutto sembra suggerirlo. Divisi da steccati trasparenti i sudditi austroungarici stanno agglomerati per etnie. Sono turchi, prigionieri russi, ebrei. Le date si riferiscono in massima parte al 1916. Scontri di retroguardia. Io e mio padre pronunciamo ridendo i nomi più strani (invariabilmente turchi), elogiamo la pulizia e la democraticità geometrica cercando qualche eccitazione di sussulto o fastidio. Col chiederci chi mai erano e il senso delle loro vite il gioco necrofilo su cui si regge la letteratura è ben avviato. Desidero una tomba di eguale essenzialità. Solo a queste altezze la povertà ha un suono sacro e sublime insieme. Non è del tutto vero se si pensa che qui la natura ha dispiegato con ostentazione erbe aromatiche, rivoli di fiori, resine profumate. L'inganno è più feroce della ridicola rimozione urbana. Qui agisce il mito del sonno dolce e progressivo, della giusta fine d'una bella biografia. Invece, la musica silenziosa è una riduzione della lingua, non il suo azzeramento. La morte sta nell'eliminazione d'ogni suono e residuo linguistico. Di conseguenza non sarebbero praticabili incontri con ombre, dèi, fate, cioè alcuna consolazione da scribi. Attraverso questa porta senza referenti si può dimenticare e essere dimenticati, non possedere né essere posseduti. Addio storia, addio natura. 

(cimitero di guerra)

giovedì 8 marzo 2018

"Ti do i miei occhi di un tempo fa": un libro per Marco Dinoi

Silvana Editoriale ha meritoriamente dato alle stampe un volume postumo di fotografie e appunti di Marco Dinoi. Dinoi (1972 - 2008) è stato ricercatore e docente dell'ateneo senese, dove ha insegnato Teorie e tecniche del linguaggio cinematografico e Metodologie della critica cinematografica e dove ha fondato il Laboratorio Universitario Cinematografico. Una sua pubblicazione si pone proprio a cavallo del millennio e mi riferisco a Girare in digitale (Dino Audino Editore, 2000). Girare in digitale, all'epoca, solo diciott'anni fa, non era così scontato. La gran mole di fotografie e appunti di cui questo libro offre uno scorcio è andata di pari passo anche con la realizzazione dei cortometraggi quali Rumori d’assenza (1998), Time Lapse (2004), Rosso di Sera (2005). Del 2007, anno antecedente la morte, è la cura della regia video dello spettacolo teatrale Al Kamandjâti (Il violinista). Questa breve incursione in una parabola di vita altrettanto breve dice di una figura intellettuale ricettiva e mobile, il cui picco di riflessione e attività si è assestato in anni fondamentali per la trasformazione del nostro sguardo e persino di una certa produttività dell'immagine, in alcuni frangenti-gangli del nostro pensiero, incluso quello potremmo chiamare pensiero emotivo. Questo volume postumo, come postumo era Lo sguardo e l’evento. I media. La memoria. Il cinema (Le Lettere, 2008), tiene viva una fiaccola di attenzione su un operato e una riflessione teorico-pratica che ha senso riprendere in mano ad ogni stagione. La stessa "documentalità" - per usare un termine di Maurizio Ferraris - di queste foto e di questi appunti scansionati pone il fruitore contemporaneo dentro un bianco e nero che continua a mandare il proprio riverbero e interrogativo.

Filippo Bologna incomincia in questo modo la nota introduttiva di Ti do i miei occhi di un tempo fa 
In fondo, ogni foto è la testimonianza di un’assenza. Assenza del soggetto, del luogo e dell’istante in cui è avvenuto lo scatto, fulminante e irripetibile incrocio di tre coordinate che intersecano la realtà per convergere in un clic. È un miracolo che dalla risultante di tre assenze scaturisca una presenza. Viva, erratica: quella dello sguardo, un ponte mobile tra passato e presente, breve come un battito di ciglia. La chiusura di un circuito immaginario che permette di andare avanti e indietro, invertendo, anche solo per un istante, la tirannia del tempo.
In questo caso il passato è via di Fieravecchia, dove se chiudo gli occhi vedo ancora Marco aggirarsi per i corridoi della facoltà con le sue giacche scure e le Clarks alla Dylan Dog, in una mano il tabacco, nell’altra una cartina sottile e trasparente come i suoi ragionamenti.
Il presente, invece, è questo libro che tenete tra le mani [...]
Questo libro che potete tenere tra le mani è stato curato da Vincenzo Cascone e Giacomo Tagliani, consta di 128 pagine e di un centinaio di illustrazioni e costa 15 euro. Si tratta solo di una parte circoscritta di un archivio che potrebbe diventare davvero rilevante e d'aiuto per scrutare meglio l'immaginario di un'epoca sfuggente e così recente, coincidente con gli anni più febbrili di Dinoi. Ed è in tale modo che possiamo sfogliare il senso delle sue inquadrature in questo libro pochissimo scritto e sostanzialmente fatto tutto di immagini. Ricordano i curatori nella loro essenziale nota che fotografare per Dinoi
era mettere a fuoco un concetto, mettere in pratica la teoria, e in azione il pensiero: un equivalente visivo di quella parola – letta, parlata, scritta – che pure era al centro della sua quotidianità fatta di lezioni agli studenti, letture in biblioteca, scrittura di saggi. Scattare fotografie era uno dei tanti modi attraverso i quali Marco si interrogava sulla realtà e sulle immagini che la supportano; credeva tenacemente in entrambe, e le loro reciproche implicazioni e i punti di intersezione tra esse rappresentavano la sua preoccupazione più stringente, la sua forma peculiare di fare ricerca. Fotografava coerentemente al suo stile, in modo riflessivo, essenziale, senza distrazioni; non a caso possedeva solo una Yashica FX-3 Super 2000 e una Contax 137 MA Quartz, oltre all’obiettivo Carl Zeiss Planar T* 50mm f/1.7, usato con entrambe le macchine. 
Questo libro intende restituire la tensione etica – e quindi anche estetica – che traspare dalle immagini in bianco e nero che hanno accompagnato con discrezione quasi tutto il suo percorso di ricerca teorica; diciassette anni durante i quali noi curatori ci siamo avvicendati accanto a lui, insieme a tanti altri compagni di viaggio. 
Per concludere rimando a questo link quale punto d'accesso per iniziare un'esplorazione dell'Archivio Marco Dinoi.

mercoledì 7 marzo 2018

Poesie di Jorge Boccanera nella traduzione di Stefano Strazzabosco


Accanto ai ratti di "al cor gentil ratto s'apprende" con le loro poesie inedite, compare un altro animale per nominare uno spazio dove si ospitano traduzioni di poesia: lo stregatto o Gatto del Cheshire di Lewis Carroll. Ratti e stregatti, insomma. Adotterò pregiudiziali e faziosi criteri per vagliare proposte di traduzioni, anche nei casi di lingue totalmente sconosciute come russo, coreano o giapponese (insomma, mi baserò su un traballante concetto di fiducia). Il gatto qui sopra è un particolare del dipinto "San Girolamo nello studio" di Antonello da Messina. Al di là delle molteplici simbologie e caratterizzazioni dei gatti, da Antonello a Carroll (Dante non è tornato utile stavolta perché un po' li snobba), qui proviamo a stregarvi con nuove traduzioni facendo le fusa. L'augurio è incoraggiare la traduzione poetica che un po' latita, anche nelle generazioni più giovani, e che qualche stregatto un giorno possa precipitare altrove, anche in un libro se capita.


Jorge Boccanera
Parlano gli occhi di Nazim Hikmet
Versioni di Stefano Strazzabosco


Commento III

“Il pasto povero”
Acquaforte del 1904, Picasso

Seduti dalla stessa parte del tavolo
          Pedro prendeva Nora per la spalla,
ascoltavano la pioggia che leccava gli angoli
però non si guardavano.

Guardarsi era pensare abbiamo fame.


Commento X

Risuona / uno sparo nella notte: il poeta /
non / dorme / più.
Rafael Góchez Sosa

La gente qui ha nascosto i suoi rumori,
le sue maniere di far male,
ha incendiato i suoi nomi,
fucilato i vestiti,
messo a letto il suo sangue e i suoi saluti.

Come se non bastasse,
i cani della notte
portano il nome mio tra i denti.


Appunti

Io ti ricordo, madre,
come quando l’unica luce era la tua ombra.


Ricordo

Ieri
è una casa
che non ha più le porte.


Sul mestiere della poesia

Occorre incendiare la poesia
e poi cantare
con le ceneri utili


Solitudine

Nessuno.
Come dire:
tutti dall’altra parte.


Saggio sull’onestà poetica

Non è che i poeti mentano,
è che i bugiardi
vogliono fare poesia.


Confini

Il mio Paese
confina a nord con la Bolivia e il Paraguay,
a est con il Brasile, l’Oceano Atlantico e l’Uruguay,
a ovest con il Cile,
e Luisa
marcisce in una cella di due metri per uno.


Commenti

Due bambini che si guardano,
interrompono il mondo.


Scomparso I

Parlano e parlano
di loro
tutto il tempo.
Corre di bocca in bocca la parola
          disfatta.
Parlano e parlano
          di loro
          perché sanno
se tacciono
          che quel silenzio
          sanguina.


Quaderno del suicida

I miei piedi assomigliano a pale.
E la lingua e le mani hanno forma di pale.
Se mi guardassi allo specchio vedrei solo
una pala.

Tutto ciò che farò
avrà forma di fossa.


Illusione ottica

Il calabrone svola sul capo del gufo appollaiato
sul cappello della bambina che in sella
sul dorso del cavallo che galoppa sulla strada
polverosa.

Ma in realtà,
il calabrone, il gufo, la bambina e il cavallo, sono
figure immobili,
e l’unica cosa che corre, crudelmente,
       è la strada.


Il sogno che sogno

Avrà visto ciò che avrà visto,
con gli occhi cuciti al cuscino,
niente altro che un’ombra
con un anello d’oro.


Burlesque

Lei fa uno striptease per me solo.
Lei fa uno striptease per me.
Lei fa uno striptease.
Lei
tira fuori la lingua
che è la punta dell’iceberg.


Parlano gli occhi di Nazim Hikmet

Sulla mia mano,
la metà di una mela sta splendendo.
L’altra metà è su un tavolo a migliaia di
chilometri da qui.
È impossibile mordere questa metà
senza che dolga il vuoto.





Jorge Boccanera
Hablan los ojos de Nazim Hikmet


Comentario III

“La comida pobre”
Aguafuerte de 1904, Picasso

Sentados de un mismo lado de la mesa
          Pedro tomaba a Nora por el hombro,
escichaban la lluvia lamiendo los rincones
pero no se miraban.

Mirarse era pensar tenemos hambre.



Comentario X

Suena / un tiro en la noche: el poeta /
ya / no / duerme.
Rafael Góchez Sosa

La gente ha escondido sus ruidos,
sus modos de doler,
ha incendiado sus nombres,
fusilado su ropa,
puesto a dormir su sangre y sus saludos.

Por si esto fuera poco,
los perros de la noche
llevan mi nombre entre sus dientes.


Apuntes

Y te recuerdo, madre,
como cuando la única luz era tu sombra.


Recuerdo

Ayer,
es una casa
que se quedó sin puertas.


Del oficio de la poesía

Hay que incendiar a la poesía
y cantar luego
con las cenizas útiles


Soledad

Nadie.
Como decir:
todos del otro lado.


Ensayo sobre la honestidad poética

No es que los poetas mientan,
es que los mentirosos
quieren hacer poesía.


Límites

Mi pueblo
limita al norte con Bolivia y Paraguay,
al este con Brasil, el Océano Atlántico y Uruguay,
al oeste con Chile,
y Luisa,
se pudre en una celda de dos metros por uno.


Comentarios

Dos niños que se miran,
interrumpen el mundo.


Desaparecido I

Hablan y hablan
          de aquellos
          todo el tiempo.
Sigue de boca en boca la palabra
          deshecha.
Hablan y hablan
          de aquellos
          porque saben
si callan
          que ese silencio
          sangra.


Cuaderno del suicida

Mis pies parecen palas.
Y mi lengua y mis manos tienen forma de palas.
Si me viese al espejo vería sólo
          una pala.

Todo lo que yo haga
tendrá forma de fosa.


Ilusión óptica

El abejón aletea sobre la cabeza del búho parado
en el sombrero de la niña que camina
sobre el lomo del caballo que galopa por el camino
polvoriento.

Pero en verdad,
el abejón, el búho, la niña y el caballo, son
figuras inmóviles,
y el único que corre, salvaje,
                                       es el camino.


El sueño que sueño

Habráse visto lo que ha visto
con los ojos cosidos a la almohada,
nada más que una sombra
con un anillo de oro.


Burlesque

Ella hace un striptease para mí solo.
Ella hace un striptease para mí.
Ella hace un striptease.
Ella
saca la lengua
que es la punta del iceberg.


Hablan los ojos de Nazim Hikmet

Sobre mi mano,
la mitad de una manzana brilla.
La otra mitad está sobre una mesa a miles de
kilómetros de aquí.
Es imposible morder esta mitad
sin que duela el vacío.


Jorge Boccanera (Bahía Blanca, 1952), giornalista, saggista e poeta, è uno degli autori argentini più riconosciuti dei nostri giorni. Ha insegnato Letteratura e Giornalismo presso l’Università del Costa Rica e la Universidad Nacional de Lomas de Zamora (Argentina), e ha diretto i settimanali “Crisis” (Argentina), “Plural” (Messico), “Aportes” e Forja” (Costa Rica). Durante il periodo della dittatura (1976-1983) ha vissuto in Messico, per tornare nel suo Paese nel 1984. Attualmente dirige la Cattedra di Poesia Latinoamericana dell’Universidad Nacional de General San Martín, a Buenos Aires. 
La sua poesia, tradotta in molte lingue (inglese, francese, italiano, olandese, giapponese, ceco, portoghese, bulgaro, svedese, ungherese), è stata pubblicata in più di quindici raccolte e ha vinto numerosi premi, tra i quali ricordiamo il Premio Casa de las Américas di Cuba (1976), il Premio Internazionale di Poesia Camaiore (2008), il Ramón López Velarde (Messico, 2012) e il Gran Premio d’Onore della Fundación Argentina para la Poesía (2012). I testi che presentiamo sono tratti da Servicios de insomnio. Antología, Visor, Madrid 2005 e Marimba. Antología poética, Laberinto Ediciones, México 2011.