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domenica 11 giugno 2017

"Sonnologie" di Lidia Riviello: tre testi e la nota di Emanuele Zinato

Il sonno ha centrato l'interesse di più poeti che, negli ultimi anni, hanno licenziato dei libri che dal sonno vogliono partire o comunque al sonno vogliono ricondurre, alludere sin dal titolo. Penso a libri belli e convincenti come Nel sonno di Francesca Matteoni (Editrice Zona, 2014), Stesura di Manuel Micaletto (Prufrock spa, 2015) e a Sonnologie di Lidia Riviello (sempre per Editrice Zona, 2016, pp. 66, euro 10). Con riferimento a quest'ultimo libro, una sorta di inusuale dossier poetico davvero riuscito, si pubblica di seguito la nota di Emanuele Zinato e un breve campione di testi.



C’erano una volta l’inconscio e il sogno. Ora sono veri e propri ipermercati onirici, territori interamente colonizzati: gli utenti e i clienti, onnipresenti nei versi di Lidia Riviello, circolano infatti soprattutto lì, nel sonno, così come il flusso del valore e il vapore del capitale. Questa mutazione, indistinguibile dall’aria che respiriamo, è dicibile ormai pressoché esclusivamente mediante gli strumenti della poesia: straniamento, guerriglia linguistica. Sonnologie lo dimostra lapidariamente: denominando il fenomeno intero come “mercanzia onirica” (p. 21). Il termine ‘sonnologie’ qui sembra alludere a una qualche scienza che studia il sonno: i ritmi, le posizioni o il movimento delle palpebre. Si tratta in realtà della ricreazione linguistica di un mondo altrimenti indicibile: “sull’uso e non sul significato dei sogni/ lavorano incessantemente/ sottotitolando misticamente il profitto” (p. 18). Un arredamento della mente, un piano che si fa casuale, a “velocità commerciale”, capaci di darci intera la mappa o la segnaletica del presente: tra linee gialle da non oltrepassare, interni dell’Ikea, amministrazione di mitologie, splendori mistici dell’ebay. 

Questi versi ci dicono molto del surrealismo di massa e della colonizzazione dell’inconscio in cui da due o tre decenni, come sonnambuli, alloggiamo. Ma senza nessuna ironia o morbido nichilismo, rendendoli terribilmente evidenti, proclamandoli cioè come fatto conclamato, al contempo esigono nel lettore coscienza e veglia. Il mondo che ne consegue, scandito da un decalogo in corsivo, solo in apparenza sognato, è esattamente il nostro: rivelato da un sopramondo o sottomondo fantascientifico, è copia “taggata” (p.13), esasperata e conforme del Reale.

Bella e terribile, dunque, come un incubo freddo, questa raccolta di Lidia Riviello: una volta e per sempre fuori dalla lirica, dentro l’epigrammatica e la poesia di pensiero. Tanto da ricordarci nel sonno che avvolge edifici, cose e persone – non per “fisico gravame” ma  come memoria e calcolo delle “compatibilità del capitale”, la prima  pagina di un romanzo sperimentale e profetico: Le mosche del capitale  di Paolo Volponi. 

Emanuele Zinato



Tre pagine da Sonnologie di Lidia Riviello (Editrice Zona, 2016)


*


popolarità del bancomat
sopraffazione dell’uomo sul sogno


si gioca molto nel mondo
nella plastica
generare un paradiso
reinvestire nel poker




il sangue non arriva al gomito e la rivincita in fondo al mare
sottende ad un knockout dell’antagonista approdato sulle isole
che non ci sono.


*


mercanzia onirica
se l’uomo non dorme perde una qualità



se avessero costruito al toro un mondo
questi visualizzatori
non funzionerebbero sempre, sarebbero solo architettura



non reagiscono dentro la catena
se lasciati liberi nella cornice



una sola vena in trasferta
al passaggio dell’autoerotismo
si alimenta in questa specie di sonno



quando la vista splende, il sogno perde molto gas,
esalta definitivamente il mondo delle pose.


*


una volta si sognava senza produrre


l’istituto chiede di amministrare mitologie utili per questo sistema


lunedì 15 dicembre 2014

"Dettato" di Sergio Peter

Nei primi anni di scuola il dettato si fa per verificare capacità di ascolto e scrittura. In poesia (e il libro di cui vi scrivo oggi ibrida la prosa con la poesia) il dettato è un termine molto in voga nelle recensioni. Si parla di dettato quasi ci fosse un suggeritore interno e un versificatore esterno che ascolta, annota e scrive la poesia. In ambito poetico l'uso e abuso della parola "dettato" iniziano a insospettirmi, direi che sono quasi indispettito: non mi convince del tutto, non mi piace, in fondo non mi è mai davvero piaciuto, non mi ha mai convinto perché appartiene a un modo di concepire la poesia che mi sta diventando estraneo. Dettato è il bel titolo scelto per il romanzo di Sergio Peter, libro inaugurale della collana "Romanzi" dell'editore Tunué (pp. 110, euro 9,90) diretta dal "personaggio precario", lo scrittore aretino-fiorentino Vanni Santoni. Peter è nato nel 1986 a Como e tutto il libro scivola su una toponomastica valligiana, tra paesi, persone, campane e campi. Colpisce forse che l'autore, giovane anagraficamente e non solo giovane letterariamente, si cimenti con un genere che confina e sconfina ampiamente nella memorialistica. Al di là del fatto che la categoria "giovane" in letteratura andrebbe ormai ben picconata e rottamata (ha fatto il suo tempo, credo anche in termini commerciali e promozionali per i quali era in fondo nata e non scordiamo che Carlo Michelstaedter è morto a ventitré anni), non è certo atteso un libro del genere da una persona che non ha nemmeno passato i trent'anni. Eppure succede questo e non è detto che questo non sia un effetto in qualche modo previsto da chi sta infilando le perle della collana.

La postura di questo libro all'interno del panorama attuale sembra quasi anacronistica, il che non è un problema. Si rivanga la memorialistica per qualcosa che è trascorso in realtà da pochissimo tempo. L'infanzia, i paesi, le campane, le persone e gli oggetti vengono a galla come gnocchi di patate in acqua bollente. Anche le marche (i brand) che hanno intasato la nostra esistenza. Sì, come il Super Tele qui accanto, pallone-gadget per antonomasia diventato poi proverbiale per le sue traiettorie sbilenche e imprevedibili, per la sua totale inaffidabilità, per la sua leggerezza, persino per quello strano rumore che l'aria al suo interno produceva quando lo si colpiva forte con un piede o una mano. E la prosa di Peter assomiglia un po' al Super Tele, ha tanti colori ma quando si sofferma resta nei contrasti e costruisce poligoni tra persone e luoghi, è imprevedibile nelle traiettorie, è leggera anche, non schiaffeggia se colpisce su una guancia. Lo schiaffo, ovvero la morte del padre quando l'autore era ancora un bambino piccolissimo, è già a monte del libro, in un inizio che non si definisce come tale. E allora ciò che questo breve romanzo prova a fare, persino negli inserti dialettali non rari, è tentare di dire come si porta con sé un mondo che diamo per disperso e sommerso e che pure continua a crescere (rincrescere?) dentro di noi, provare a dire come si vivono le assenze. E perché questa crescita avvenga, bisogna lasciare spazio e aria a chi ha fatto il suo debutto. Allora, volgendo rapidamente al termine di questo mio suggerimento di lettura, dico anche che troppi nomi ho letto per questo romanzo d'esordio, sin dal risvolto: Calvino de Le città invisibili, Celati de Narratori delle pianure. Lasciate lavorare Sergio Peter che ha appena iniziato, non aggiungiamoci poi Cesare Pavese, Piero Chiara, addirittura il Parise de Il ragazzo morto e le comete (stupefacente aver trovato persino questo titolo così lontano dalla prosa di Peter) o, data la geografia del libro, un Alessandro Manzoni (non ho ancora letto questo nome, ma mi domando se è solo timore reverenziale). Non ci siamo proprio se andiamo per quelle strade lì e questi nomi a mio avviso non c'entrano nulla. State prima e fareste molto meglio a leggere il libro e a provare a capire cosa resta, o, meglio, a capire qual è il posto di questo libro nel panorama attuale.

La collana Romanzi di Tunué prosegue e finora sono tutti libri brevi. Sono usciti Stalin + Bianca di Iacopo Barison, Lo scuru di Orazio Labbate e la prima prova narrativa di Francesca Matteoni, Tutti gli altri, di cui con curiosità mi limito a dare qui notizia. (Un plauso al visual design dell'agenzia veneziana dal nome palindromo Tomomot che ne ha curato il progetto grafico.)