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martedì 13 febbraio 2018

La raccolta poetica "Naufragio del singolare" di George Oppen (e le presentazioni del libro a Modena e a Roma)

Edizioni Galleria Mazzoli di Modena pubblica la raccolta poetica di George Oppen (1908 - 1984) intitolata Naufragio del singolare. Le poesie, tradotte da Pietro Traversa, sono accompagnate dai disegni di Alex Katz, mentre la curatela è di Brunella Antomarini e Paul Vangelisti. Si tratta di un evento importante per la poesia dell'oggettivismo americano, una stagione di scrittura poco frequentata dalla traduzione italiana (si pensi solo all'assenza di traduzioni da Louis Zukofsky). Di Oppen si registrava solo la versione italiana di Of Being Numerous del 1969 (Essere in tanti, Edizioni ETS, 2006). Questo volume raccoglie The Materials del 1962 e This in Which del 1965.
Per gentile concessione e collaborazione dei curatori si pubblicano di seguito alcuni stralci dalle prefazioni al volume e tre poesie di Oppen nella traduzione di Pietro Traversa. Di seguito troverete anche le notizie relative alle presentazioni del libro che si terranno nei prossimi giorni a Modena e a Roma.



*

Di seguito un brano dalla prefazione di Brunella Antomarini intitolata "Una cosa che sia".


Accorciamo di più il nostro pensiero, siamo seri… (Lautréamont) 

Un grande poeta risolve problemi che gli altri poeti gli presentano e da cui deve uscire se non vuole esserne sommerso. Il problema di Oppen è la liberazione della parola dalla rappresentazione, non in termini ‘linguistici’ o asemici, ma anzi con un forte legame col mondo, che va detto, sì, ma va detto senza le retoriche, senza la storia della poesia né dello sperimentalismo: che cosa e come in un testo poetico la parola genera un mondo senza rappresentarlo sintatticamente, cioè secondo il luogo comune della lingua ordinaria? Come fa a dire quello che genera senza bisogno di sentirsi il processore centrale di un’espressione sociale o politica? 
Scegliendo questi problemi, Oppen si metteva di traverso rispetto alla cultura del suo tempo. Gli anni Cinquanta e Sessanta erano un tempo di transizione, travolto dalla ricostruzione post-bellica e dalla reazione spaventata e critica a una guerra anti-comunista e neo-colonialista che trascinava i giovani per le strade, chiedeva una sospensione di problemi sottili, voleva arti d’attacco, d’impegno politico, di azione immediata. Oppen aveva distinto poesia e politica e prendeva le distanze dal suo tempo. In un’intervista del 1973 dice, rivolgendosi all’intervistatore: “Pensa che dovrei essere più conosciuto?” Ma è proprio quella distanza che lo rende partecipe più del XXI secolo che del suo tempo: oggi, nel tempo di un’altra transizione – che è appunto sottile, tacita, verso una destinazione incognita perché ci veniamo sospinti, tutti, globalmente e che riguarda modo di vivere, di pensare e di comunicare – ora alla lezione di Oppen si deve riconoscere un senso fondamentale e per questo va tradotto perché questo senso venga riconosciuto anche in Italia. Tradurlo non è infatti solo un’occasione di accessibilità, ma anche una sfida alla lingua sofisticata e tutta proiettata nel passato, come la nostra, da parte di una lingua pragmatica, essenziale, portata da Oppen alle estreme conseguenze della sua analiticità. 
E infatti i suoi testi analizzano minimi dettagli del reale, lo scompongono matematicamente – o pittoricamente, come un Cézanne o un Picasso della parola – nel minimo dicibile. Se c’è un’emancipazione qui, è da molte retoriche: della parola espressiva, di quella concettuale, ma anche di quella auto-referenziale. La retorica qui è un metodo costante e coerentissimo: ogni sostantivo viene liberato dal verbo che lo sostiene e diventa un’apparizione dei suoi dettagli. Una poetica minimalista e che immaginiamo richieda un tempo molto lento di ricerca, cioè di ricerca delle parole da scartare – quando sono troppo cariche di risonanze – e poi di ricerca di quelle ‘piccole’, cioè minime, libere, segni di quello che intendono oltre ogni ovvio intendimento.  
Perché questo metodo diventa importante ora? Perché quella che poteva  sembrare una qualità di poesia minore, cioè una preoccupazione poetica per la  parola nuda, senza grandi narrative e grandi teorie, senza lo spirito del tempo,  ora, in tempi di radicale transizione culturale e tecnologica, in prospettiva futura  l’opera di George Oppen diventa ispirazione per la scrittura che si rifà sulle macerie  di quella dei capolavori, storicizzati ma anche irrecuperabili. Per questo una  versione italiana che faccia conoscere Oppen a un pubblico abituato alla grande  classicità come alle avanguardie, è urgente e necessaria. Una poesia che non  chiede niente alla tradizione (a meno che non si tratti di altri poeti con una simile  preoccupazione), che si regge su una distruzione e un riavvio. [...]

*

E qui di seguito un brano dalla "Prefazione" di Paul Vangelisti.


Con mia grande sorpresa, il filosofo di cui parlammo di più, oltre Heidegger, fu Jacques Maritain, che avevo studiato ma con cui non ero molto in sintonia, troppo scolastico per i miei gusti ex-cattolici. Oppen ne era particolarmente entusiasta, sia della sua precisione sia della sua enfasi sull’essere. La visione di Oppen, contemporaneamente lirica e precisa, era mossa da una repulsione per il pragmatismo stesso, quella pietra angolare dell’ideologia e dell’ipocrisia americana. Sempre riflessivo e contro corrente, pone continuamente la più ontologica e meno pragmatica delle questioni, quella dell’esistenza di una “natura umana”. Come la mette lo stesso Oppen in un’intervista del 1968 in Contemporary Literature: “Quello che voglio dire, credo, è che non c’è vita per l’umanità se non la vita della mente. Non so neanche se sia utile dirlo a qualcuno. O le persone lo scoprono autonomamente o altrimenti non sarà mai vero per loro”. 
Guardando indietro, in particolare alla pubblicazione di I materiali del 1962, una raccolta su cui aveva lavorato sin dal suo ritorno negli Stati Uniti dall’esilio politico in Messico, troviamo il poeta alla ricerca - o anche in lotta con se stesso - di una misura poetica. In questo sforzo di riunirsi alla terra della poesia dopo esser stato via per quasi un quarto di secolo, è sempre presente quella cura, quella fermezza della mente di fronte alle cose:

La macchina fissa lo sguardo,
Fissa
Con tutti i suoi occhi

Attraverso il vetro
Con la sua increspatura, oltre il davanzale
Che è polveroso — se c’è qualcuno
Nel giardino!
Fuori, e così bello.

(“Immagine del motore”)

Più notevole, soprattutto se si considera quello che il poeta e il suo mondo  avevano dovuto affrontare dal 1934, è la determinazione di Oppen di ritornare  a parlare delle cose attorno a sé, “la preponderanza degli oggetti”. Anche se alle  volte i versi mancano del lirismo intensamente speculativo che avrà poi in This  in Which (1965), e nel suo più esteso capolavoro, Of Being Numerous (1969), il  singolare desiderio del poeta di riportare le parole “al significato / e al senso” (“Un  linguaggio di New York”), guida il suo approccio alla creazione del verso, a immaginarlo  come “Un fermo e silenzioso angelo di conoscenza e di comprensione”  (“Immagine del motore”).
La questione del progresso e della perfettibilità umana non solo motiva un pensatore radicale come Oppen, ma lo perseguita: la sua “fede” nel pensiero lega le sue composizioni ad una chiarezza conquistata con difficoltà. [...]


*

Una selezione di tre testi nella traduzione di Pietro Traversa:


VULCANO


Il padrone di casa che appare in strada
Per un attimo allo sbando, di ghiaccio
Nell’aspetto. ‘Penisola
Pianeggiante e alberata
Nella baia – ’ Ora sono nativi
Il saldatore e l’arco del saldatore
Nei circuiti di ferro della metropolitana:
Non ci siamo sfuggiti l’un l’altro,
Non nella foresta, non qui. La ragazza storpia arranca
Dolorosamente nelle nuove profondità
Della metro, e dolorosamente
Distogliamo lo sguardo. Le rotaie nude
E le pareti nere contengono
Il travaglio prima della sua nascita, la sua contorta
Precaria nascita e gli uomini
Laboriosi, corpulenti – Lei siede
Tranquilla, occhi fermi. Lentamente,
Deliberatamente lei vede
Il dente smussato di un’àncora affondare
Tra i gettoni e le macchinette a gettoni,
L’antico ferro e il voltaggio
Nel ferro sotto di noi nei porti profondi
Della bambina nelle sabbie del porto.


LE FORME DELL’AMORE


Parcheggiati tra i campi
Per tutta la notte
Tanti anni fa,
Abbiamo visto
Un lago accanto a noi
Quando è sorta la luna.
Mi ricordo

Che insieme abbiamo lasciato quella
Vecchia auto. Mi ricordo
Di noi, in piedi accanto a lei
Sull’erba bianca. A tentoni
Scendevamo insieme
Nell’incredibile
Luce chiara

Chiedendoci
Se fosse lago
O nebbia
Quello che vedevamo, le nostre teste
All’unisono sotto le stelle abbiamo camminato
Fino a dove i piedi si sarebbero bagnati

Se ci fosse stata acqua.


PENOBSCOT


Figli della prima
Terra

Parlano sull’uscio
Di quella stanza chiusa
Della loro nascita

Che non possono ricordare

In questi piccoli mondi di rocce
Nell’oceano
Come il centro
Di un’antichità

Non classica, anti-classica, non l’oceano
Ma la calma
Acqua del porto
Che lambisce le pietre

Sotto di loro —

Credo che non violeremo il mondo
Questi piccoli mondi gli ultimi
Dai nomi segreti

O frasi inaspettate —


Penobscot





VULCAN


The householder issuing to the street
Is adrift a moment in that ice stiff
Exterior. ‘Peninsula
Low lying in the bay
And wooded – ’ Native now
Are the welder and the welder’s arc
In the subway’s iron circuits:
We have not escaped each other,
Not in the forest, not here. The crippled girl hobbles
Painfully in the new depths
Of the subway, and painfully
We shift our eyes. The bare rails
And black walls contain
Labor before her birth, her twisted
Precarious birth and the men
Laborious, burly – She sits
Quiet, her eyes still. Slowly,
Deliberately she sees
An anchor’s blunt fluke sink
Thru coins and coin machines,
The ancient iron and the voltage
In the iron beneath us in the child’s deep
Harbors into harbor sand.


THE FORMS OF LOVE


Parked in the fields
All night
So many years ago,
We saw
A lake beside us
When the moon rose.
I remember

Leaving that ancient car
Together. I remember
Standing in the white grass
Beside it. We groped
Our way together
Downhill in the bright
Incredible light

Beginning to wonder
Whether it could be lake
Or fog
We saw, our heads
Ringing under the stars we walked
To where it would have wet our feet
Had it been water.


PENOBSCOT


Children of the early
Countryside

Talk on the back stoops
Of that locked room
Of their birth

Which they cannot remember

In these small stony worlds
In the ocean

Like a core
Of an antiquity

Non classic, anti-classic, not the ocean
But the flat
Water of the harbor
Touching the stone

They stood on—

I think we will not breach the world
These small worlds least
Of all with secret names

Or unexpected phrases—

Penobscot

*


Presentazioni del libro

Naufragio del singolare
raccolta poetica
di George Oppen
disegni di Alex Katz
Edizioni Galleria Mazzoli
a cura di Brunella Antomarini e Paul Vangelisti
traduzione di Pietro Traversa

a Modena sabato 17 febbraio 2018 ore 17.30
Salone dei Veneti
Galleria Estense - Palazzo dei Musei
Largo Porta Sant'Agostino, 337
intervengono i curatori 
con Vladimir D’Amora e Mariangela Guatteri
INGRESSO GRATUITO

a Roma mercoledì 21 febbraio 2018 ore 17.30
Casa delle Letterature
piazza dell’Orologio n.3
intervengono i curatori 
con Marco Giovenale e Lidia Riviello

Edizioni
GALLERIA MAZZOLI - MODENA

*

George Oppen (New York, 1908–1984) fonda a New York negli anni Trenta, insieme ai poeti Louis Zukofsky e Charles Reznikoff, la casa editrice The Objective Press che lancia poeti come William Carlos Williams ed Ezra Pound e il gruppo “oggettivista” a cui aderiscono lo stesso Williams, Basil Bunting e Lorine Niedecker. Successivamente, lasciati gli Stati Uniti per motivi politici, comincia a scrivere egli stesso testi poetici. Dopo la guerra torna per un periodo a New York dove lavora come carpentiere e falegname e poi si reca in Messico. In questo lungo periodo sospende la scrittura poetica per riprenderla solo dopo 24 anni, di ritorno a New York negli anni Sessanta quando pubblica le raccolte piu` importanti fno a vincere nel 1969, con il poema Of Being Numerous, il Premio Pulitzer. Oppen e` una delle personalita` poetiche piu` originali, complesse e in attesa di un pieno riconoscimento. Con questo libro ha ricevuto la dovuta attenzione come poeta sperimentatore di un linguaggio che non cede a nessuna retorica e ispiratore delle generazioni successive, punto di riferimento per giovani poeti di ogni lingua e paese.

Paul Vangelisti è un poeta, critico letterario e traduttore. Nato a San Francisco nel 1945, vive e lavora a Los Angeles dal 1968. Autore di diverse raccolte poetiche, dal 1971 al 1982 è stato condirettore della rivista di ricerca letteraria, "Invisible City". Numerose sono le sue collaborazioni con artisti visivi italiani. Fondamentale è stato l'incontro con Adriano Spatola di cui ha tradotto in inglese la prima importante raccolta di poesie.

Brunella Antomarini insegna estetica e filosofa contemporanea alla John Cabot University a Roma. È autrice di numerosi articoli e saggi di argomento filosofico e antropologico pubblicati in Italia e all’estero.

Alex Katz è un artista figurativo contemporaneo nato nel 1927 a Brooklyn, New York, vive e lavora a New York. Le sue opere sono presenti nelle collezioni dei più importanti musei americani, tra i quali il MoMa, il Metropolitan, il Whitney di New York, il Los Angeles County Museum of Art di Los Angeles e in alcuni musei europei tra cui la Tate Gallery di Londra e il Museo di Francoforte.

Informazioni:
Ufficio Eventi Gallerie Estensi
0594395707 - mariagrazia.silvestri@beniculturali.it

martedì 10 settembre 2013

Un'incursione nella preistoria acustica della poesia con Brunella Antomarini

Librobreve intervista #23


Dopo tanti libri di poesia, parliamo di poesia da un nuovo versante, che si staglia sull'orizzonte delle possibili discussioni sulla poesia. Parto dal recente saggio di Brunella Antomarini intitolato La preistoria acustica della poesia (Nino Aragno Editore, pp. 105, euro 10). Non è passato molto tempo da quando dicevo ad un amico che trovo molto più interessante la riflessione teorica attorno al romanzo, se paragonata a quella concentrata sulla poesia. Prontamente il libro di cui parliamo oggi mi ha smentito. L'autrice insegna Fenomenologia ed estetica alla John Cabot University di Roma. Che cosa ha scritto prima di pubblicare questo saggio così appassionante? The Maiden Machine. Philosophy in the Age of the Unborn Woman (Edgewise, New York 2013); Thinking Through Error. The Moving Target of Knowledge (Lexington Books Lanham 2012; Italian edition: Pensare con l'errore, Codice Edizioni, Torino 2007); L'errore del maestro. Una lettura laica dei Vangeli (Derive&Approdi, Rome 2006); La percezione della forma. Trascendenza e finitezza in Hans Urs von Balthasar (Aesthetica Edizioni, Palermo 2004). Con A. Berg ha curato Aesthetics in Present Future. The Arts in the Technoogical Horizon (Lexington Books, Lanham 2013) e, diversi anni fa, è stata autrice anche di un libro per bambini, Denizens of the Forest (Poligrapha Ediciones, Barcelona 1992). Un percorso avvincente, che ad un certo punto incontra la pubblicazione di un saggio interamente dedicato alla poesia con l'editore Nino Aragno. Scopriamo come nelle sue risposte.

LB: Mi permetto di partire banalmente dal titolo del suo libro uscito per Nino Aragno Editore qualche tempo fa: La preistoria acustica della poesia. Estrapolo intanto due parole: "preistoria" e "acustica". Siamo oggi nella storia? Che cos'era la preistoria della poesia? E possiamo leggere l'aggettivo "acustica"  in contrapposizione con la "deriva tipografica" della poesia? (Penso anche al colpo di dadi di Mallarmé...) 
RISPOSTA: Siamo nella storia nel senso che possiamo guardare indietro e tracciare le strade (o qualche strada) che abbiamo percorso per essere arrivati dove siamo arrivati. Voglio dire, come tento di fare con il saggio, che ci dev'essere una genesi (certo complessa) della 'naturalezza' di scrivere in versi, di andare a capo, cioè di visualizzare un ritmo, una metrica, una musicalità che non appartengono al visivo, ma all'acustico. E fuori di dubbio la poesia c'era prima della scrittura e c'era con funzioni rituali e didattiche che spiegano con chiarezza (come hanno fatto i teorici delle tradizioni orali) l'uso della musicalità e quindi della cognizione corporea (non concettuale). Quindi ho lavorato sulla metamorfosi della poesia dall'oralità alla scrittura, dall'arcaico allo storico. Pur immersi nella storia (o magari stando ormai all'uscita), custodiamo gli strati precedenti, ce li portiamo dietro in queste tracce di cui la poesia è un esempio. Restiamo arcaici, o in debito verso quell'identità arcaica che ci accompagna ma che non possiamo del tutto capire o recuperare. Non parlerei perciò di contrapposizione tra oralità e scrittura, cognizione corporea e cognizione concettuale, ma piuttosto di derivazione, evoluzione. Mi piace l''espressione 'deriva tipografica', se significa che questa evoluzione è piena di deviazioni e orientamenti imprevedibili e non progressivi, ma non vuol dire critica alla scrittura, naturalmente.

LB: Ora, per non fuggire dal titolo, passo alla "poesia" (in fondo i titoli, quando indovinati, sono flash che illuminano improvvisamente tutta l'opera e che dalle parti dell'opera sono a loro volta illuminati, secondo Andrea Zanzotto). Lei si è normalmente occupata di filosofia. Come avviene questo incrocio con la poesia? Non che sia una situazione rara, anzi. Ma intendo da un punto di vista quasi professionale, come si passa da certe tematiche prettamente filosofiche al soffermarsi sulla poesia?
RISPOSTA: La transizione avviene come interesse per il coinvolgimento della percezione, del corpo, della globalità corporea nella conoscenza. La poesia è stato un esempio, come lo è stato il mio lavoro sui Vangeli (che erano orali e non scritti). Ho fatto questo lavoro antropologico che è servito come base fattuale e concreta al mio lavoro epistemologico sulla conoscenza ordinaria, cioè come conosciamo in assenza di certezze, teorie, concetti fissati dalle scienze, eccetera.


LB: In quali punti le tematiche affrontate nel suo libro si intersecano con quelle ampie della traduzione e con quelle ancora più intime del ritmo?
RISPOSTA: Il ritmo sembra sostenere la poesia nella sua definizione minima. Lo stesso atto di andare a capo è una determinazione di ritmo. Qualunque corrente, orientamento, o poetica difendano oggi i poeti, si definiscono dal quell'atto. L'analisi della traduzione come 'intrinseca' alla poesia segue dal fatto del ritmo. Dal momento che cogliamo un senso nel ritmo, pensiamo che quel ritmo-senso possa essere traslato, appunto tradotto, in un'altra lingua. Un po' ci sbagliamo, perché in ogni traduzione si perde qualcosa - o molto - della lingua originale. Eppure è proprio nella traduzione che viene attuata - quando la poesia è grande, diceva Marina Cvetaeva - quella vocazione a dire e non dire, definire e lasciare indefinito, che è propria di tutta la poesia. Il passaggio da una lingua all'altra insomma è rivelativo di come si muove, si costruisce e si trasforma un testo poetico.


LB: Ci racconta brevemente, per quanto possibile, di Marcel Jousse?
RISPOSTA: Un antropologo gesuita, che ha lavorato dagli anni Venti e ha viaggiato in Palestina e tra i nativi americani per capire come fa il corpo a conoscere, anzi come si realizza una conoscenza del mondo nella trasmissione orale di formule da un corpo all'altro. Conoscenza fragile e collettiva, senza autore e sempre in fieri. Un po' come avviene paradossalmente nella nostra cultura digitale. Comincia a essere studiato ora in Italia, da esperti come ad esempio Antonello Colimberti.


LB: Poesia e errore era un titolo di Franco Fortini, un cappello con il quale radunare molti versi giovanili. Un titolo "mobile", che fu soggetto a variazioni e slittamenti. Lei si è occupata in profondità dell'errore in un suo studio uscito per Codice Edizioni (Pensare con l'errore, Codice edizioni, 2008, qui un estratto con le prime pagine). Per quale porta "rientra" l'errore in questo suo recente libro dedicato alla poesia?
RISPOSTA: In realtà questo libro è stato scritto prima di quello sull'errore. È che ci è voluto tempo e non era facile trovare un editore colto e libero come Nino Aragno. Il passaggio avviene appunto dallo studio di esempi di conoscenza corporea allo studio della mente-corpo nell'uso che fa degli errori. Il corpo non ha bisogno di verificare le proprie credenze ed è tenace nell'attaccarsi a quelle che ha, anche se sono sbagliate. Sappiamo benissimo perciò (senza ammetterlo) che quando pensiamo di essere certi, lo siamo in virtù di una finzione. Per fortuna, ci sbagliamo sempre.


LB: Lo sviluppo della rete ha portato un nuovo fiorire di studi e ricerche sull'oralità, la corporeità, la voce. Di questo si trova traccia anche nel suo testo. Qual è la sua posizione scientifica in merito a questa "nuova ondata" ad un livello più generale e, poi, nello specifico, nei confronti della poesia?
RISPOSTA: Sto lavorando ora infatti a come il corpo cambia nel suo contatto e interprenetrazione con le nuove tecnologie. Abbiamo un corpo tecnologico e abbiamo tecnologie quasi-organiche. Che tipo di poesia produrranno questi ibridi non lo so. Sto a vedere.


LB: Quali libri di poesia consiglia Brunella Antomarini?
RISPOSTA: Quelli che commuovono e quelli che giocano con la scrittura senza l'arroganza dell'illeggibile.