Quote #10
"To
repeat or copy the words of another, usually with acknowledgment of the
source." Questo il verbo "to quote". Ma in italiano "quote" è il
plurale di quota, parola che mi interessa soprattutto nel senso della
misura di un'altezza o di un lato. Citando e contestualizzando
minimamente passi importanti, cerco un modo assai svelto di dar notizia
di libri significativi, possibilmente brevi. Stando breve, pure io.
Uscì nel 1903 Tage und Taten. Aufzeichnungen und Skizzen, unica opera in prosa del poeta tedesco Stefan George (1868 - 1933). Qualche mese fa il testo è stato finalmente proposto in italiano da SE per la cura di Giulio Schiavoni (pp. 118, euro 19, con apparato iconografico comprendente tavole di Cimabue, Quentin Metsys, Dierick Bouts, Arnold Böcklin, Max Klinger). Questo libro che inverte gli elementi del titolo dell'opera esiodea ha più di un motivo per imporsi alla nostra attenzione: la singolarità di essere l'unica opera in prosa di George, il collocarsi a metà del suo percorso, negli anni in cui il poeta smise, almeno per un po', uno stile di vita girovago per abitare più stabilmente a Monaco di Baviera, il periodo di avvicinamento all'efebo Maximin (che di lì a poco morì, a soli 18 anni). Insomma, è un libro che assomiglia da vicino a uno spartiacque, anche per la poesia - e quindi per il pensiero - che verrà. Si tratta di un insieme di annotazioni e abbozzi, così come recita il sottotitolo dell'originale, che consente a George una ripresa di possesso della materia vitale, eludendo provvisoriamente il percussivo problema della "forma", rimasto sempre inchiodato centralmente nella sua riflessione poetica.
Oggigiorno non è del tutto errato parlare della marginalità di questo poeta che tradusse Dante in tedesco, ma sarebbe un errore invece far coincidere questa marginalità con la marginalità più larga in cui vediamo riversare la poesia. George fu una figura di poeta controversa e di enorme influenza (si pensi al George-Kreis e a chi vi transitò), fu fondamentale nella formazione di Benjamin, Brecht, Buber, Rosenzweig e pure Zweig. Sappiamo che Heidegger si confrontò con lui nelle passeggiate sul linguaggio, ma la sua opera fu anche letta "da sinistra" da Adorno e Lukàcs; infine in qualche modo fu persino corteggiato dal Reich nascente, al quale rispose con un rifiuto e conseguente esilio nell'anno della sua morte. Cinque anni prima di morire, nel 1928, aveva pubblicato un libro che già dal titolo (Das neue Reich; "Il nuovo regno") auspicava un rinnovamento del "regno" che andava in una direzione totalmente opposta a quella del "terzo regno" e undici anni dopo la sua morte, nel 1944, i sodali fratelli von Stauffenberg furono protagonisti della resistenza e dell'attentato contro Hitler. Ora la riconsiderazione dell'opera di Stefan George va di pari passo con quella, altrettanto importante, dell'andamento essenziale da tenere per ripercorrere il ritmo di marcia dei primi decenni del secolo scorso, in prospettiva della conquista di uno studio meno evenemenziale della storia letteraria e della storia delle idee. Il passo che riporto di seguito fornisce un lampo sul senso di quest'unica opera di prosa finalmente disponibile italiano.
IL LAGO MORTO
Tutta la regione, su cui si estende un cielo basso e oscurato, è coperta di miseri sterpi tutti bruciacchiati, che per di più in vaste zone non crescon neppure. Alcune informi pietre nude disposte in tutti i possibili sensi accennano un viottolo che sembra non volere più finire. Poi tutt'a un tratto ecco spuntare, in mezzo a quel deserto, una collinetta piatta avvolta dalla nebbia e sul cui bordo sta un palo tutto disfatto che reca un cartello indicatore. Su quella collina deve trovarsi il lago morto, che sicuramente è nero e denso; e proprio di lì viene quell'odor di bruciato che s'avverte tutt'intorno. Uno dei miei piedi vorrebbe salire, ma l'altro è trattenuto, da un doloroso terrore, dallo spingersi oltre quel palo.
A questo link potete vedere una foto del 1924 dove George, come nella copertina del libro, è ritratto di profilo. Il poeta è in compagnia dei giovani fratelli Von Stauffenberg. Sempre allo stesso link potete ascoltare la registrazione di una lezione del prof. Adone Brandalise in cui si parla, fra gli altri, del nostro poeta.
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giovedì 4 febbraio 2016
mercoledì 3 settembre 2014
La critica impossibile. Conversazioni con Cesare Garboli
Di Mario Soldati, dell'amatissimo Molière, di Goffredo Parise e del coraggio espressivo del suo romanzo terminale e turbativo L'odore del sangue, ma anche di Vittorio Sereni o Ennio Flaiano (autore amato e studiato, ma di cui sottolinea gli effetti non sempre positivi dell'ambiente redazionale de "Il Mondo"), del disaccordo con la stimatissima Natalia Ginzburg sulla questione israelo-palestinese e su quello che scrive dopo la strage delle Olimpiadi di Monaco del 1972 e di molti altri autori e temi possiamo leggere in questo volume che le Edizioni Medusa hanno proposto da poco, quasi in concomitanza con il decennale della morte di uno dei nostri più grandi critici. La critica impossibile. Conversazioni con Cesare Garboli (pp. 96, euro 13, curato da Silvia Lutzoni e arricchito dagli scritti di Massimo Onofri e Marco Vallora) raccoglie una serie preziosa di contributi, conversazioni e soprattutto interviste del critico nato in Versilia, regione in cui tornò dopo una lunga parentesi romana, per dedicarsi principalmente al suo Dom Juan e a Pascoli.
Quante pennellate feroci può contenere un libro del genere! Ad esempio, in uno degli scritti qui raccolti, Garboli punta il dito quasi con naturalezza e normalità, senza sterile livore, su un aspetto del quale raramente prendiamo vera coscienza ovvero che gli intellettuali, presunti maestri di pensiero, quasi mai "pensano con la propria testa". In effetti quello che si registra è così, o perché sono intellettuali asserviti al potere o perché sono troppo legati a certe dinamiche di pensiero consolidate e non fluenti. Sono questi passaggi, calati quasi alla maniera di un inciso innocuo, che trasformano qualsiasi lettura di Garboli in una potente radunata del pensiero e dei pensieri, uno sfrondare l'inessenziale, un diffondersi di profumi d'intuizione che travalicano epoche, autori, periodizzazioni. Penso anche all'intervista in cui riflette sul Romanticismo, partendo da Kant. E non potrebbe essere diversamente.
Leggendo Garboli torna il dubbio (certezza?) che nel secolo scorso abbiamo avuto dei saggisti straordinari e che troppo spesso releghiamo la forma-saggio a un'arte minore (qui ci gioverebbe ricordare il "semplice" titolo dell'opera più nota di Montaigne). Non dovrebbe essere così, non può essere così, eppure mi pare che il percepito raramente illumini con la giusta luce quel che si muove nei territori della critica. E sicuramente scrisse molto, ma allo stesso tempo ritroviamo quella lucidità di chi sa scrivere anche per l'occasione, non sistematicamente, quella libertà di movimento che pochi pensatori e critici hanno dimostrato, spesso anchilosati a causa di un legame parassitario con un autore, un'opera o un'epoca. Si badi, la conoscenza e lo studio necessitano sempre di una qualche forma di parassitismo che però, se incontrollata, è soggetta al rischio di diventare dilagante e patologica. Garboli spazia e scrive forse soltanto quando serve. In fondo, a ben pensare, tanto di quello che abbiamo tradotto nel Novecento passa per Bobi Bazlen, ma cosa abbiamo di effettivamente scritto e pubblicato di Bazlen? Pochissimo. E in un ambito per me spesso fuori visuale come quello accademico penso a un docente come Adone Brandalise - e non solo perché ho avuto la fortuna di ascoltarlo -, di cui troverete pochissime pubblicazioni ma del quale, proprio in questi ultimi tempi, un gruppo di affezionati studenti sta proponendo le sbobinature delle registrazioni delle lezioni di teoria della letteratura tenute all'università di Padova (le trovate qui, e la sua analisi del Chisciotte è formidabile). Tutto questo si riversa necessariamente sul rapporto che Garboli ha coi libri, con il celebre "corpo a corpo" che con questi intraprende (e ricordato anche in questo volume), su un'avversione marcata alle pieghe prese dall'editoria.
Fu una vita straripante la sua, ossimoricamente dentro i ranghi dell'anarchia, che talvolta ebbe contatti da lui stesso definiti "casuali" con quasi ogni forma espressiva: poesia, narrativa, saggistica storica, la musica del quasi conterraneo Giacomo Puccini, cinema, senza dimenticare naturalmente quel teatro che resta il fuoco centrale, grimaldello privilegiato di conoscenza. A quarant'anni esatti dalla prima del suo Dom Juan di Molière e a dieci dalla morte ci troviamo tra le mani un utile volume per riaprire la porta della sua casa, il capitolo non certo risolto di Garboli e l'Italia, un viatico non trascurabile attraverso la sua pianura proibita.
Quante pennellate feroci può contenere un libro del genere! Ad esempio, in uno degli scritti qui raccolti, Garboli punta il dito quasi con naturalezza e normalità, senza sterile livore, su un aspetto del quale raramente prendiamo vera coscienza ovvero che gli intellettuali, presunti maestri di pensiero, quasi mai "pensano con la propria testa". In effetti quello che si registra è così, o perché sono intellettuali asserviti al potere o perché sono troppo legati a certe dinamiche di pensiero consolidate e non fluenti. Sono questi passaggi, calati quasi alla maniera di un inciso innocuo, che trasformano qualsiasi lettura di Garboli in una potente radunata del pensiero e dei pensieri, uno sfrondare l'inessenziale, un diffondersi di profumi d'intuizione che travalicano epoche, autori, periodizzazioni. Penso anche all'intervista in cui riflette sul Romanticismo, partendo da Kant. E non potrebbe essere diversamente.
Leggendo Garboli torna il dubbio (certezza?) che nel secolo scorso abbiamo avuto dei saggisti straordinari e che troppo spesso releghiamo la forma-saggio a un'arte minore (qui ci gioverebbe ricordare il "semplice" titolo dell'opera più nota di Montaigne). Non dovrebbe essere così, non può essere così, eppure mi pare che il percepito raramente illumini con la giusta luce quel che si muove nei territori della critica. E sicuramente scrisse molto, ma allo stesso tempo ritroviamo quella lucidità di chi sa scrivere anche per l'occasione, non sistematicamente, quella libertà di movimento che pochi pensatori e critici hanno dimostrato, spesso anchilosati a causa di un legame parassitario con un autore, un'opera o un'epoca. Si badi, la conoscenza e lo studio necessitano sempre di una qualche forma di parassitismo che però, se incontrollata, è soggetta al rischio di diventare dilagante e patologica. Garboli spazia e scrive forse soltanto quando serve. In fondo, a ben pensare, tanto di quello che abbiamo tradotto nel Novecento passa per Bobi Bazlen, ma cosa abbiamo di effettivamente scritto e pubblicato di Bazlen? Pochissimo. E in un ambito per me spesso fuori visuale come quello accademico penso a un docente come Adone Brandalise - e non solo perché ho avuto la fortuna di ascoltarlo -, di cui troverete pochissime pubblicazioni ma del quale, proprio in questi ultimi tempi, un gruppo di affezionati studenti sta proponendo le sbobinature delle registrazioni delle lezioni di teoria della letteratura tenute all'università di Padova (le trovate qui, e la sua analisi del Chisciotte è formidabile). Tutto questo si riversa necessariamente sul rapporto che Garboli ha coi libri, con il celebre "corpo a corpo" che con questi intraprende (e ricordato anche in questo volume), su un'avversione marcata alle pieghe prese dall'editoria.
Fu una vita straripante la sua, ossimoricamente dentro i ranghi dell'anarchia, che talvolta ebbe contatti da lui stesso definiti "casuali" con quasi ogni forma espressiva: poesia, narrativa, saggistica storica, la musica del quasi conterraneo Giacomo Puccini, cinema, senza dimenticare naturalmente quel teatro che resta il fuoco centrale, grimaldello privilegiato di conoscenza. A quarant'anni esatti dalla prima del suo Dom Juan di Molière e a dieci dalla morte ci troviamo tra le mani un utile volume per riaprire la porta della sua casa, il capitolo non certo risolto di Garboli e l'Italia, un viatico non trascurabile attraverso la sua pianura proibita.
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