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sabato 23 giugno 2018

"Fra me e te la verità. Lettere a Muska" di Nicola Chiaromonte

Quote #20

"To repeat or copy the words of another, usually with acknowledgment of the source." Questo il verbo "to quote". Ma in italiano "quote" è il plurale di quota, parola che mi interessa soprattutto nel senso della misura di un'altezza o di un lato. Citando e contestualizzando minimamente passi importanti, cerco un modo assai svelto di dar notizia di libri significativi, possibilmente brevi. Stando breve, pure io.



Non è molto che è uscito per Donzelli il libro Nicola Chiaromonte. Una biografia di Cesare Panizza. Facendo un passo indietro di qualche anno, sempre Cesare Panizza, assieme a Wojciech Karpiński, compare tra i curatori del libro Fra me e te la verità. Lettere a Muska (Una città, pp. 312, euro 18). Il volume ritratto qui a lato restituisce solo una parte di una corrispondenza enorme che l'intellettuale lucano, che visse tra il 1905 e il 1972, intrattenne negli ultimi anni della sua vita con Mother Jerome, al secolo Melanie von Nagel Mussayassul (1908-2006), monaca benedettina che viveva negli Stati Uniti. Quando si scrive enorme si intende davvero enorme: si parla infatti di una media di tre missive a settimana per un totale di circa 1200 lettere. La cornice temporale dello scambio va dal 1967 fino alla morte di Chiaromonte, circa un lustro quindi. Si tratta di una testimonianza straordinaria, in tutti i sensi di questo aggettivo inflazionato: straordinaria perché infrequente e rara anche nel valore, straordinaria per quello che vi si può trovare e leggere all'interno. Già che una suora potesse intrattenere una corrispondenza del genere fu un'eccezione, e difatti Mother Jerome aveva ottenuto un permesso speciale per poter alimentare questo dialogo.

Questo atomo di lettere colpisce e uncina in modo indelebile chi prova a guardarci dentro, con il suo nucleo accarezzato e con gli orbitali degli elettroni indeterminabili e vitali. Ogni passo e spostamento di questa corrispondenza-fiume vibra in un'aria che cambia spesso direzione, densità e temperatura, anche quando l'argomento è una rappresentazione napoletana de I Cenci di Artaud con un'Adriana Cipriani che secondo Chiaromonte potrà diventare una "vera attrice (se non si lascia afferrare dal cinema o guastare dal successo)", in una cornice partenopea dal mare grigio, strada rumorosa e "Xmas decorations" meno orribili di quelle di Roma oppure anche quando un postscriptum verte sull'accettazione dell'incarico di critico drammatico a "L'espresso" ("notizia non molto importante"). A Chiaromonte piace scrivere a Mushka "sulla carta intestata di questi alberghi dove capito". Questo libro restituisce, parzialmente ma in modo efficace, un lustro di un dialogo che ha tutta l'aria di essere stato poderoso nella sua interezza.


* * * *

Roma, 11 maggio 1967


Mushka carissima,
nel chiudere la lettera, ieri sera, ne è caduto il francobollo qui accluso.

È un buon pretesto per continuare a parlarti.
Vorrei discorrere un po' con te sulla ricerca del "primordiale": quel tuo scendere a tastoni nelle viscere della terra, così bene espresso in "stufen"*.
Sì, bisogna anche scendere nelle viscere della terra, interrogare segni lasciati dagli uomini che abitavano la terra in età lontanissime - e certo il volto della fanciulla neolitica ha un "messaggio" profondamente commovente. Ma non credi che il vero sforzo sia di rintracciare il fondo dell'essere nei volti dei nostri compagni di vita, travolti e oscurati come sono? E non solo nei volti - ma nei passi, nei modi d'essere, nelle parole - il cercare di misurare la distanza che separa noi e loro da una possibile verità, dalla "realtà vera"?
In altri termini, la ricerca del primordiale è pericolosa, e non tanto perché può finire in un miraggio: il miraggio di credere che ciò che è più elementare, più inarticolato, più contrastato dal peso oscuro del mondo e di un essere indecifrabile sia più vero. Mentre a me sembra che il Partenone o la piazza del Campidoglio siano più, e non meno, "veri" (=belli anche) del palazzo di Cnosso, diciamo - o degli idoli delle Cicladi.
L'equilibrio - il punto di verità - è difficile trovarlo, certo. E noi siamo sovraccarichi di ornamenti - fin dal Rinascimento almeno - e da lì vengono quasi tutti gli equivoci culturali (e religiosi) in cui ci dibattiamo.
L'argomento è lungo e complicato. Vedi gli accenni di Caffi al "razionalismo unitario" che pesa sulla nostra civiltà fin dal Cinquecento.
Vorrei poter esercitare un po' di magia (io che non sono mago affatto...) e toglierti almeno il dolore fisico che ti affligge, Mushka diletta.
Nicola


* Tedesco, "gradini"

martedì 18 aprile 2017

Passaggi. Italiani dal fascismo alla Repubblica. Intervista a Mariuccia Salvati

Librobreve intervista #79


Si intitola Passaggi. Italiani dal fascismo alla Repubblica ed è edito da Carocci (pp. 212, euro 19) l'ultimo libro di Mariuccia Salvati, docente di Storia contemporeanea all'università di Bologna. In collaborazione con Franco Baldasso, che insegna Italian Studies presso Bard College a New York, ho rivolto alcune domande all'autrice. Ci siamo soffermati sul percorso che l'ha portata a questa nuova opera e l'intervista è diventata un momento nel quale ricordare figure di primo piano della ricerca storica. Quasi involontariamente il tutto si è trasformato in un omaggio a Silvio Lanaro, storico dell'Università di Padova scomparso nel giugno del 2013, che desideriamo così ricordare. 

Cogliamo l'occasione per segnalare che giovedì 20 aprile alle ore 17:00 presso la Sala Igea di Palazzo Mattei di Paganica (Piazza della Enciclopedia Italiana, 4 - Roma) si terrà la presentazione del volume. Ne discuteranno con l’autrice Giuliano Amato, Marc Lazar e Renato Moro.

Silvio Lanaro
AC:. Il suo libro pone al centro il problema del linguaggio. Era un tema caro a uno storico come Silvio Lanaro, che dedicò ai problemi epistemologici del linguaggio e della scrittura storica addirittura un libro che è quanto di più lontano possa esserci dall'odierno furoreggiare dello "storytelling" (Raccontare la storia. Generi, narrazioni, discorsi, Marsilio, 2004). Come muta questo tema fondante del linguaggio nel suo libro, nei diversi decenni che prende in esame?
MS: Lei ha colto giustamente il legame del mio libro con Silvio Lanaro, che con il suo Retorica e politica (2011, pubblicato due anni prima della morte), è stato molto vicino ai miei pensieri mentre riflettevo sulla opportunità di procedere a una operazione come la raccolta di saggi sparsi. Con Lanaro siamo stati molto amici a partire dalla fine degli anni ’80; abbiamo collaborato insieme nella costruzione di reti come la Sissco (Società Italiana per lo Studio della Storia Contemporanea), nella selezione di giovani allievi (concorsi), in numerosi convegni. Vi è sempre stata una sintonia di fondo: direi la voglia di chiarezza, di intelligenza delle cose, oltre allo scarso interesse per l’uso politico della storia contemporanea. Vi era poi tra di noi (oltre alla profonda amicizia…) uno strano legame ‘culturale’ antecedente alla nostra collaborazione universitaria: entrambi abbiamo letto per tempo gli scritti di un intellettuale protagonista del ventennio fascista (e poi della sociologia del dopoguerra), come Camillo Pellizzi (citato in Passaggi): soprattutto gli scritti degli anni ’20, quando l’uso della retorica politica era rivendicato sulla stampa (in polemica con Gobetti) dal giovane intellettuale in funzione del fascismo. Il fascismo è stato prima di tutto (di questo era convinto anche Silvio) un linguaggio pubblico, un linguaggio retorico, cioè funzionale a una soggezione mentale delle masse e a una visione distorta della realtà: ce ne rendiamo conto ancora di più oggi.
Quanto alla sua domanda (se il tema del linguaggio muti nel libro): in realtà mi sono resa conto (ex post) che quel tema non muta e per questo il libro è un libro coerente. Il linguaggio rimane per lo storico lo strumento attraverso cui cogliere i cambiamenti: il linguaggio - dei testimoni, del corpo (la maschera), della folla, del leader – è prova, è testimonianza, ma può essere letto se lo si inserisce in un percorso di eventi che aiuti a coglierne il senso profondo. 

Marc Bloch
AC: Si percepisce nella sua prosa la necessità di un ritorno a un "fattore umano" nel mestiere di storico. Il richiamo a Marc Bloch è evidente, tuttavia potrebbe chiarire cosa significa davvero riportare il "fattore umano" dentro la ricerca storica? Da un punto di vista epistemologico e di metodo è qualcosa che può essere più facile a dirsi che a farsi...
MS: Lei ha colto benissimo quest’altro punto di sintonia con Silvio Lanaro. Per anni ho insegnato a Bologna Storia della Francia (nei primi anni del corso di laurea in storia si insegnava la storia dei singoli paesi europei, poi si passò a insegnare la storia d’Europa) e dunque la Francia tra le due guerre, il movimento operaio e figure come Marc Bloch e Simone Weil. Così Apologia della storia, La strana disfatta, La prima radice, erano testi di lettura quasi obbligatori per trasmettere il dramma degli anni Trenta e la permanenza di una cultura che non era solo antifascista, ma umanista e razionalista. Era un modo per contrapporre intellettualmente (e non ideologicamente) il filone della Dichiarazione dell’89 alla cultura dello stato fascista. Entrambi gli autori sono poi presenti – sempre per il loro richiamo all’uomo - nel capitolo su Amnistia e amnesia, cioè sulla guerra e sul come uscirne.

FB: Perché secondo lei questo periodo di transizione è stato oggetto di moltissimi studi storiografici negli ultimi 10-15 anni? Da Zunino a Liucci, da Focardi a Bistarelli, da Lanaro a La Rovere, da Luzzatto a Schwartz per citarne solo qualcuno.
MS: In realtà, come lei sa bene, questo periodo è stato oggetto di studi storici fin dall’immediato dopoguerra, ma con un focus diverso nei vari periodi: la resistenza, la RSI, la guerra civile (il libro di Claudio Pavone è un libro di storia di una guerra civile non solo tra corpi ma anche tra menti, spiriti, giudizi): ma è pur sempre una transizione, un passaggio. Quello che lei giustamente segnala per i decenni più vicini a noi è l’attenzione agli intellettuali, testimoni e protagonisti di quella transizione e per questo chiave di lettura della transizione. Credo che un ruolo importante come ‘segnalatori di incendio’ l’abbiano svolto i convegni organizzati per i decennali della resistenza) dagli istituti di cultura come la Fondazione Basso, il Gramsci, lo Sturzo (oltre che dagli istituti della resistenza), soprattutto negli anni ’90: è allora che viene meno, con la crisi dei partiti, anche la fiducia nella affermazione di una cultura diffusa e progressista. Mentre volgeva al termine il Novecento, si era davanti a un nuovo passaggio di cui non si conosceva (e non si conosce ancora...) l’esito. Per questo si tornò a riflettere su quegli anni interrogandosi se, quando e come il fascismo fosse stato mentalmente, ‘intellettualmente’ sconfitto.

FB. Secondo lei ci sono figure di quegli anni oggi ingiustamente dimenticate? Perché?
MS: Certamente molte altre figure, soprattutto di scrittori, meritano di essere ricordate, ma mi sembra che i nomi che cito siano già di per sé evocativi di altri che non cito, ma che si inseriscono in questo recupero. Consiglio a questo proposito una bella antologia di brani, Autoritratto italiano di Alfonso Berardinelli.

Ruggero Zangrandi
FB. Lei dedica un capitolo a una figura oggi poco ricordata ma la cui testimonianza ebbe un enorme impatto per la generazione del secondo dopoguerra, Ruggero Zangrandi. Ci può introdurre alla sua figura e dire perché a suo avviso è importante ancora oggi?
MS: Non so se sia importante ancora oggi. È certamente stato dimenticato, osteggiato, probabilmente frainteso. Ed è per questo che lo ritengo un po’ il simbolo di un passaggio non completamente compiuto (o forse impossibile da compiere) nell’immediato dopoguerra dal nostro paese. Zangrandi ha pagato duramente il suo essere stato da ragazzo il compagno di banco del figlio di Mussolini. Creò alla fine degli anni ’30 un gruppetto socialista di opposizione, fu incarcerato a Regina Coeli, ma nell’estate del ‘43, a differenza di altri prigionieri politici, non venne liberato e quindi fu portato dai tedeschi occupanti in Germania. Tornò due anni dopo, segnato per sempre da quella prigionia, si iscrisse al Pci, ma non incontrò, salvo pochi casi, veri amici in quel partito. Solo Togliatti lo difese, perché in fondo condivideva la battaglia che Zangrandi stava conducendo: cioè (oltre a testimoniare Il lungo viaggio attraverso il fascismo) quella di tentare di raccogliere l’adesione al Pci anche dei giovani che erano stati mandati da Mussolini a fare la guerra, senza conoscere nulla del fascismo e tanto meno dell’antifascismo (troppo lontano).

AC: E poi troviamo pagine molto belle su Nicola Chiaromonte. Quale lettura consiglierebbe a chi è non ha letto nulla di Chiaromonte?
MS: Nicola Chiaromonte è stato un grande intellettuale e un grande scrittore. Per questo ho voluto dedicare un suo testo politico-giornalistico inedito a Silvio Lanaro nel libro in suo onore (quello riprodotto in Passaggi). Di lui consiglierei la raccolta di saggi Credere e non credere. Ma si trovano quaderni di suoi scritti e saggi su di lui presso le edizioni Una Città di Forlì. Sempre da parte del gruppo di Una città è stata fondata la biblioteca Alfred Lewin, che ha il grande merito di aver messo in rete, a disposizione di noi lettori, un grande numero di opere e soprattutto riviste, legate a queste correnti intellettuali minoritarie nell’Italia degli anni ’50-‘60.

Giaime Pintor
FB: Una domanda sorta leggendo il libro: come si può fare storia intellettuale del Novecento in Italia in modo tale da aprire una conversazione con la più ampia storia intellettuale europea?
MS: Ma questa storia è già inserita nella storia intellettuale europea! Basta intenderci su che cosa sia la storia intellettuale europea. Pellizzi era un intellettuale europeo, non solo per la sua biografia (ha vissuto a Londra dal 1922 al ’39, insegnato letteratura italiana a University College - facendo allo stesso tempo propaganda fascista), ma anche per i temi che introduceva nel dibattito italiano, collaborava con le migliori riviste di cultura, di teatro. La svolta avvenne, per lui in senso fascista, e per molti altri giovani intellettuali in senso antifascista, circa nel ’38, con le leggi antiebraiche (del resto è a quella data che si avvia anche nel mondo cattolico, a partire dal pontefice, una presa di distanza dal fascismo). Così come lo era – intellettuale europeo -  Giaime Pintor che nell’estate del 43, prima di scegliere la resistenza rivede le note al Saggio sulla rivoluzione di Pisacane, e corregge la sua traduzione delle poesie di Rilke da appassionato germanista quale era. Credo che siamo stati, come intellettuali, più provinciali noi negli anni ‘70… Detto questo l’Europa tra le due guerre era un luogo terribile per viverci e pensare (basta leggere i Diari di V. Klemperer, e il suo La Lingua del Terzo Reich).

FB. Secondo lei è ancora possibile una qualche religione della politica quali furono a modo loro, e completamente diverso (il che non implica di sicuro un'equivalenza) le grandi ideologie del Novecento come Fascismo e Comunismo?
MS: Temo purtroppo che siano sempre possibili forme di accecamento della ragione, anche se non necessariamente per la politica: compito degli intellettuali dovrebbe essere quello di segnalarne i pericoli.

FB. Per finire una domanda apparentemente fuori tema, forse, ma che si collega al titolo del suo libro Passaggi: cosa pensa di Donald Trump? E di Angela Merkel?
MS: Ha ragione: il primo segna un vero passaggio su cui dovranno interrogarsi soprattutto (spero) gli storici americani del futuro, la seconda è storia nostra, europea, quella migliore, intendo e che spero sia destinata a durare (sono una convinta europeista).  

domenica 18 novembre 2012

"Il segreto di Luca" di Ignazio Silone

Riletture di classici o quasi classici (dentro o fuori catalogo) #12













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Questo breve romanzo uscì nel 1956, l'anno terribile per i partiti comunisti di tutta Europa, dei fatti d'Ungheria e del riposizionamento di moltissimi intellettuali gravitanti nell'orbita di Mosca. A tutti gli effetti è anche un avvincente giallo, che oggi potete trovare facilmente negli Oscar Mondadori o nei tascabili Newton Compton, come altri libri di quest'autore controverso, non di rado incasellato nella formula di "cristiano senza chiesa". Forse ricorderete le polemiche infinite e "infinibili" di una decina d'anni fa, le ipotesi di una doppia vita dell'autore, secondo gli iniziatori di quel caso intellettuale dedito allo spionaggio a favore della polizia durante il regime mussoliniano. Silone è un autore sul quale vale la pena ritornare. Il successo folgorante di un libro come Fontamara, soprattutto al di fuori dell'Italia, ha contribuito a trasformare Silone in uno scrittore molto antologizzato, facilmente reperibile, ma tutto sommato sembra che il dibattito pubblico non abbia mai sfrondato la complessità della sua vicenda artistica e politica, anche perché attraversa, anche e forse soprattutto con l'esperienza dell'esilio svizzero, decenni fondamentali della storia italiana ed europea del Novecento, personaggi-chiave, movimenti di pensiero che hanno cambiato il volto al continente, trasformandolo nel caso, non frequentissimo in Italia, di autore tanto criticato in patria quanto letto e stimato fuori dai confini. Il '56 fu anche l'anno di nascita della rivista fondata e diretta da Silone con Nicola Chiaromonte. Si chiamava "Tempo presente" e anche in quelle pagine si registrò un transito importante del suo apporto al dibattito dell'epoca.
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Avete presente le liste dei libri per le vacanze estive che si consigliano agli alunni delle scuole medie o superiori? Quasi mai manca un Levi (Primo e Carlo), un Pirandello, La casa in collina o La luna e i falò di Pavese, un Calvino e un Silone. Se per Calvino un pezzo della trilogia o Il sentiero dei nidi di ragno la fanno da padroni incontrastati, per Silone la scelta ricade solitamente su Fontamara, vero caso letterario del Novecento, romanzo che non uscì nemmeno in Italia e che forse deve a questo fatto editoriale una delle ragioni del suo incredibile successo di pubblico. Può star bene, anche se in queste liste (tra l'altro immobili, ho confrontato le mie con quelle di oggi e sembra che poco sia cambiato, nessun azzardo, poco coraggio di qualche iniezione nuova) spesso si stiracchia e vivacchia un certo canone che non fa bene a quei pochissimi autori che con la loro vita e le loro opere hanno restituito complessità etiche quasi insormontabili, accolto le aporie e le antinomie del vivere dell'uomo nella storia.

Credo che la prosa di Silone sia uno degli esempi più convincenti di equilibrio tra realtà, storia e finzione narrativa. In questo romanzo, giallo poliziesco a tutti gli effetti, il lettore assiste al ritorno in paese (Cisterna dei Marsi) di Luca Sabatini, protagonista spesso in absentia del centinaio di pagine (poco più) del libro, dopo quarant'anni di carcere ingiustamente scontato per un delitto che non ha commesso, e dopo esser stato graziato per la confessione in punto di morte del vero assassino.  Qui entrano in scena i principali personaggi: i due parroci del paese, l'amico Andrea, la gente del posto che reagisce al ritorno in un'accorata diffidenza e paura che potrebbe riportare a certe tesi e situazioni umoristiche di Pirandello. Luca, anche se innocente, misteriosamente non tentò di difendersi durante il processo e per i paesani porta ancora con sé il germe di una colpevolezza non spiegata e di un mistero che ha profondamente turbato l'intero paese. Grazie all'intraprendenza dell'amico Andrea e ai dialoghi con Don Serafino scopriamo lentamente il cuore di Luca e quel che veramente accadde la notte in cui si consumò quel delitto non commesso. Proprio in quelle ore Luca avrebbe dovuto stabilire la data delle nozze con la sua fidanzata, Lauretta. Prima aveva però fatto visita ad Ortensia, una ragazza amata secondo un protocollo quasi stilnovista e che in quella stessa sera gli aveva confidato la reciprocità del sentimento. Luca aveva così deciso di aprirsi nella confessione a Lauretta e di togliersi la vita per il dolore arrecatole. Il suicidio fu impedito dall'arresto. L'atteggiamento rinunciatario assunto da Luca durante il processo è allora spiegato dalla ferma intenzione di non recar offesa al sentimento confessatogli da Ortensia in quella maledetta misteriosa notte sulla quale, a turno, ritornano tutti i vari "intervistati" del libro, ciascuno con la propria porzione di visione, ciascuno con la propria parte di colpa, ciascuno con la propria tessera.


Il segreto di Luca è uno dei libri di Silone più ignorati dalla critica. Probabilmente il tralascio provvisorio di tematiche politiche, il peso specifico di opere come Fontamara (che ricordiamo, uscì dapprima in tedesco e fu poi tradotto in moltissime lingue diventando presto un caso letterario) o Una manciata di more sovrastano e adombrano questo secondo libro pubblicato dopo il rientro dall'esilio, laddove, in realtà, ravvisiamo tante travi portanti della sua scrittura: la persecuzione, la politica stessa riverberata nel personaggio chiave del giovane "investigatore" Andrea (figlio di un politico legato a Luca), le figure del parroco (ben due qui, quasi a sancire due diverse epoche) e del sindaco, il già menzionato ritornare di curvature pirandelliane delle situazioni della vita in paese, l'intersezione del racconto con l'autorità giudiziaria (qui rovesciata rispetto all'utilizzo fattone in Severina, il romanzo postumo e incompiuto), il modo in cui si tengono e si sovrappongono i due diversi tempi della storia uniti dalla lunghissima parentesi dell'ergastolo, sono solo alcuni dei motivi per  riaprire questo romanzo quando si ritorna sull'opera dello scrittore di Pescina.