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mercoledì 15 marzo 2017

Ritornano i "Discorsi militari" di Giovanni Boine. Uno scritto di Andrea Aveto

Ricorre quest'anno il centenario della morte di Giovanni Boine, nato nel 1887 a Finale Marina e morto di tisi nel 1917 a Porto Maurizio. Come ricordano i curatori della pubblicazione di cui diamo notizia oggi, Boine costituisce una figura anomala nel panorama del movimento della "Voce". Di lui rimane un’importante produzione artistica rappresentata, fra gli altri, dagli scritti teorici e polemici (La ferita non chiusa, 1911; Discorsi militari, 1914) e soprattutto dalle note critiche sulla letteratura contemporanea (Plausi e botte e Frantumi pubblicati postumi nel 1918). Fresca di stampa è questa riedizione dei Discorsi militari ospitata nella collana "Passati presenti" e pubblicata dalla Fondazione Museo Storico del Trentino per la cura di Andrea Aveto e con scritti di Chiara Catapano e Claudio Di Scalzo (pp. 264, euro 15, scheda del volume a questo indirizzo). Per gentile concessione dei curatori è di seguito riportata l'introduzione al volume di Andrea Aveto.


INTRODUZIONE

di Andrea Aveto



Sembra incredibile, ma quel marziale catechismo buono per la pedagogia del soldato s’era rivelato il «migliore successo» commerciale della Libreria della Voce. Parola dell’editore, Giuseppe Prezzolini, che ancora a sessant’anni di distanza non era in grado di darsi una «spiegazione razionale» dell’imprevedibile exploit di «un autore quasi sconosciuto, Giovanni Boine, che giaceva a letto con la febbre degli ammalati di petto e non aveva di che pagare il conto del farmacista e non aveva prestato servizio militare, ma insegnava come si debba difender la patria e il perché della disciplina»[1]. Se ne sarebbero vendute (stessa fonte) «trentamila copie»: un’enormità. Altrove lo stesso Prezzolini aveva parlato più genericamente (più plausibilmente?) di «migliaia» di esemplari, stampati grazie alle «organizzazioni patriottiche di quel tempo» che diffusero il volumetto «nelle caserme e nei campi dove si preparavano i soldati della guerra del 1915-1918»[2]. A conti fatti, però, la sostanza non mutava: il suo rapidissimo smercio era stato quantomeno inusuale per una casa editrice la cui collana di punta, i «Quaderni della Voce», viaggiava di regola su tirature intorno alle millecinquecento unità, che il mercato impiegava anni ad assorbire.

Era uscito il 20 ottobre 1914. «La Voce» lo aveva annunciato sette giorni prima in una réclame che si preoccupava di sottolinearne la «grande attualità». Tanto attuale, si è tentati di dire, che per evitare di farlo ‘invecchiare’ anzitempo la data che recava impressa sulla copertina color giallo paglierino, sul frontespizio e nel copyright era quella, secca, dell’anno seguente: 1915. Che il titolo, perfettamente in sintonia col clima bellico, avesse qualche chances di trovare i suoi lettori, Prezzolini lo aveva messo in conto, va da sé; ma era lontano dall’immaginare di essersi trovato per le mani un potenziale bestseller: «a me personalmente non piace», aveva confidato il 25 settembre a Giovanni Papini, al quale si accingeva a passare le consegne in vista di un periodo di assenza da Firenze, «però potrebbe incontrare»[3]. Aveva incontrato, eccome: la prima edizione si esauriva in primavera, spingendo la Libreria della Voce a licenziarne immediatamente una seconda, con buona pace dell’autore e della sua sacrosanta pretesa di rivedere le bozze: intorno al 20 maggio andavano in macchina altre cinquemila copie, che si differenziavano dalle duemila iniziali per il prezzo più popolare (cinquanta centesimi contro una lira), per l’indicazione della tiratura posta in bella evidenza («10.° Migliaio»), per le note di proprietà letteraria e per la pubblicità editoriale che occupava l’ultima pagina di testo (originariamente bianca) e la quarta di copertina. In quelle ore l’Italia stava scivolando inesorabilmente verso il conflitto; due settimane dopo l’inizio delle ostilità un’altra réclame, apparsa sulla nuova, effimera serie politica della «Voce» rivelava dietro una facciata di bonario patriottismo le ragioni imprenditoriali di tanta urgenza: «Questa edizione permetterà di regalarne a soldati e a ufficiali. Non lasciate partire per la guerra gli amici vostri senza spedirle loro una copia della nuova edizione».

Se in autunno Prezzolini aveva investito tiepidissime attese nella stampa del libro, Boine l’aveva accolta con sostanziale indifferenza: «Non aggiungerò nulla anche perché questa roba non mi interessa più», scriveva con freddezza all’editore, che sollecitava rassicurazioni sul rispetto delle scadenze strettissime che si era imposto per l’uscita[4]. È vero che a suo tempo l’aveva caldeggiata lui, la stampa, mettendo in mezzo il conte Alessandro Casati per trovare al manoscritto una sede editoriale degna; ma ormai mesi prima, in un contesto di polemiche politiche e giornalistiche che le revolverate esplose da Gavrilo Princip a Sarajevo avevano prontamente relegato in soffitta. L’input originario alla pubblicazione, proposta senza fortuna allo Studio Editoriale Lombardo e ai Fratelli Treves, risaliva alla tumultuosa vigilia della Settimana Rossa, ai giorni nei quali si preparavano in tutta Italia comizi e assemblee in concomitanza con le parate e le riviste militari organizzate per le celebrazioni della Festa dello Statuto. A essere messa in discussione, allora, era l’istituzione stessa dell’esercito: si protestava contro i fondi destinati alla Difesa, tornati da qualche tempo all’ordine del giorno dei lavori parlamentari a meno di un anno e mezzo dalla fine della dispendiosa campagna tripolina; si contestava il rigore dei regolamenti, spesso odiosi e vessatori; si reclamava la liberazione di due delle più note «vittime del militarismo», Augusto Masetti e Antonio Moroni, il primo internato in un manicomio criminale per aver sparato all’indirizzo di un ufficiale che arringava il suo drappello in attesa dell’imbarco per la Libia, il secondo inviato in compagnia di disciplina per non aver fatto mistero del suo radicalismo politico in presenza di un superiore. Anarchici, socialisti, repubblicani (come Gian Pietro Lucini, che moriva a luglio lasciando in bozze il suo Antimilitarismo, un potenziale instant book anche se ‘cucito’ con pagine apparse di volta in volta nel corso del decennio precedente...[5]) davano forma a un rumoroso dissenso in cui si oggettivava la frantumazione del corpo sociale della nazione. La lotta di classe, che dopo gli scontri e i morti contati ad Ancona il 7 giugno sarebbe sembrata sul punto di innescare la miccia rivoluzionaria, attentava all’unità stessa del paese in nome dell’individualismo e del materialismo cavalcati dalle forze politiche dell’Estrema.

Facile capire perché l’opera che Casati provava a ‘piazzare’ rivelasse qualche titolo per suonare davvero «d’attualità»[6]: declinato nelle forme dirette e affabili dell’oratoria tradizionalmente offerta ai soldati nelle caserme, quella mistica dell’obbedienza condita degli umori reazionari di un estimatore di Joseph de Maistre e Joseph Arthur de Gobineau esortava i cittadini-soldati a far sacrificio della propria coscienza individuale in nome di un’abnegazione strenua alla causa della patria e del suo re: a riconoscere nella volontaria obbedienza alle leggi e alle regole l’unica affermazione di libertà personale capace di preservare l’ordine. Sullo sfondo stavano, naturalmente, il ruolo e la funzione che, sin dalle battute iniziali, il libro assegnava all’esercito nella vita della nazione. Un tema classico, questo, mutuato com’era dall’Alfred de Vigny di Servitude et grandeur militaires (Paris, Bonnaire-Magen, 1835), la lettura più gratificante, tra regolamenti disciplinari, norme per l’impiego tattico delle unità di guerra, saggi divulgativi e non, che per scrupolo di informazione tecnica lo scrittore s’era procurato di fare; ma, al contempo, un tema tornato improvvisamente ‘caldo’ nel dibattito politico e giornalistico di quei mesi: lo aveva fatto proprio la stampa, concedendo ampio rilievo alla discussione intorno alla preparazione delle forze armate[7]; lo avrebbe ripreso poco dopo la Libreria della Voce presentando la collana «Biblioteca militare» che proprio col volume di Boine si inaugurava[8]; lo avrebbero rilanciato più tardi gli alti comandi e i periodici specializzati, gli uni nel rallegrarsi con autore e casa editrice per quanto intrapreso[9], gli altri nel segnalare l’uscita dell’opera contribuendo in misura decisiva a farla conoscere...

Non sarà il caso di soffermarsi su quello che i nove discorsi, stesi «con entusiastica partecipazione» tra il marzo e l’aprile 1914, rappresentarono per Boine dopo lo scoppio della guerra europea, sul disagio sempre più acuto che, privatamente, lo induceva a prenderne le distanze (ma le tre paginette di premessa non suonavano già come una parziale presa di distanza?), non impedendogli però di spendersi pubblicamente per diffonderli, nella consapevolezza del loro intrinseco valore e, perché no?, in funzione del proprio personale tornaconto. Lo ha fatto – e tanto basti – Mario Isnenghi alla svolta decisiva degli anni Settanta, quando la pubblicazione dei carteggi ha consentito di ripensarne il senso e la collocazione nella cosiddetta ‘letteratura dell’intervento’[10]. Varrà la pena di soffermarsi, semmai, sulla loro genesi: una questione un poco trascurata, almeno sino ad ora, ma letteralmente decisiva per mettere a fuoco le ragioni che spinsero lo scrittore a cimentarsi con un tema all’apparenza tanto estraneo all’orizzonte dei suoi interessi, per giunta in un registro – è stato notato – di secca e disciplinata chiarezza, distante anni luce dalla prosa espressionistica, tutta scatti e invenzioni, propria delle pagine più sue[11].

La prefazione (che sull’autografo reca la data «Portomaurizio, 30 aprile ’14»: la stessa, per inciso, che sigilla, a stampa, la breve premessa al «quaderno» Il peccato ed altre cose, licenziato nel maggio successivo) assegnava all’opera l’ufficio di nobile e ideale succedaneo degli obblighi di leva, ai quali la malattia aveva impedito all’autore di adempiere. Era la stessa motivazione ‘alta’ affidata dieci giorni prima a Casati: «Io non ho potuto fare il soldato sebbene sinceramente anche nascondendo lo stato della mia salute lo abbia tentato. Considero questo lavoro come quel tanto di tassa che è giusto pagare alla nazione che ci ha fatti» (C III, 834). Quando ne aveva fatto cenno per la prima volta scrivendo ancora a Casati e a Emilio Cecchi l’11 e il 28 marzo 1914, tuttavia, Boine aveva parlato espressamente di un lavoro su commissione: «ho accettato di scrivere una serie di discorsi ai soldati sull’onore sulla disciplina etc.» (C III, 820-821); «mi sono ingolfato in certi discorsi militari che mi son stati commissionati e che debbo finire ora»[12]. Per conto di chi li stava scrivendo? I carteggi non lo dicono. Non per incarico di un editore, però, se è vero che appena giunto in fondo si era trovato a interrogare l’amico milanese in merito alla loro possibile destinazione: «Il mio libro sulla vita militare è finito ed ha anche servito allo scopo privato a cui doveva servire. Ora sono autorizzato a pubblicarlo. Vi fisso i concetti che ti ho espressi. Con calore e logica. A che editore potrei offrirlo?». (C III, 833). Era il 16 aprile e, a leggerle con attenzione, le parole usate da Boine nella circostanza rivelano che la stampa era un approdo solo secondario – e in partenza a dire il vero del tutto virtuale – della faticosa, ma non del tutto ingrata corvée che si era procurato. Altra era la finalità che il manoscritto doveva assolvere, e che effettivamente assolse prima di ritornare – in ogni senso – nella piena disponibilità di chi lo aveva redatto, come si desume da un’altra lettera di poco successiva a Casati («Riavrò prima della fine del mese il manoscritto dei miei “Discorsi militari”. [...] Appena li riavrò te li mando», C III, 834): si rimane sul terreno delle ipotesi non disponendo al momento di altri riscontri, ma non pare del tutto inverosimile che potesse servire come compendio, traccia o ipotesto utile a chi aveva dato l’incarico di stenderlo (un ufficiale?) in vista di un ciclo di conferenze o di un corso in una scuola militare. Un po’ come era capitato alle lezioni che il ventiquattrenne Luigi Russo aveva tenuto (e stampato la prima volta) per gli allievi del secondo corso della Scuola militare di Caserta e riproposto poco dopo in un’edizione non strettamente ‘scolastica’ con il titolo Vita e morale militare (Milano, Treves, 1917): un altro campione della pedagogia della guerra che a quello di Boine, non a caso, è stato di recente accostato[13].

Anche di questo aspetto occorrerà tenere conto accingendosi a rileggere il libro a cento anni dalla sua pubblicazione.





[1]        Giuseppe Prezzolini, «La Voce» 1908-1913. Cronaca, antologia e fortuna di una rivista, con la collaborazione di Emilio Gentile e di Vanni Scheiwiller, Milano, Rusconi, 1974, p. 228.
[2]        Giuseppe Prezzolini, Il tempo della «Voce», Milano-Firenze, Longanesi-Vallecchi 1960, p. 129.
[3]        Giovanni Papini-Giuseppe Prezzolini, Carteggio, II, 1908-1915. Dalla nascita della «Voce» alla fine di «Lacerba», a cura di Sandro Gentili e Gloria Manghetti, Roma-Lugano, Edizioni di Storia e Letteratura-Biblioteca Cantonale Lugano-Archivio Prezzolini, 2008, p. 490.
[4]        La lettera, priva di data ma compresa tra il 3 e il 6 ottobre 1914, è edita in Giovanni Boine, Carteggio, I, Giovanni Boine-Giuseppe Prezzolini (1908-1915), a cura di Margherita Marchione e S. Eugene Scalia, prefazione di Giuseppe Prezzolini, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1971, p. 124.
[5]        Il libro rimase inedito sino al 2006, quando ha visto la luce negli «Oscar Mondadori» a cura di Simone Nicotra e con una postfazione di Luigi Ballerini.
[6]        «Certo questi Discorsi bisognerebbe stamparli presto: sono d’attualità fra l’altro»: così nella lettera a Casati del 7 giugno 1914 (Giovanni Boine, Carteggio, III, Giovanni Boine-Amici del «Rinnovamento», a cura di Margherita Marchione e S. Eugene Scalia, prefazione di Giancarlo Vigorelli, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1977 [d’ora innanzi C III], t. II, p. 843).
[7]        Si vedano, solo a titolo di esempio, gli articoli Le condizioni attuali dell’esercito e Le condizioni della cavalleria (occhiello: Problemi dell’esercito), usciti in prima pagina sul «Corriere della Sera» del 27 marzo e del 5 maggio 1914.
[8]        «Con questa raccolta, iniziata con il presente volume, che da altri sarà seguito, ci proponiamo di collaborare, per quanto sia in noi, ad una più intima unione fra la Nazione e l’Esercito»: così si legge nella breve presentazione della collana stampata sulla quarta di copertina dei Discorsi militari.
[9]        Una dozzina di lettere di ringraziamento, indirizzate a Boine o a lui recapitate per il tramite della Libreria della Voce, sono oggi conservate presso la Biblioteca Civica «Leonardo Lagorio» di Imperia; brevi stralci vennero riprodotti a scopo pubblicitario in un’inserzione apparsa sull’Almanacco della Voce 1915 (Firenze, Libreria della Voce, 1915, p. 46) e sulla quarta di copertina della seconda edizione dei Discorsi militari.
[10]      Mario Isnenghi, Superstizione volontaria: tra Discorsi pubblici e Carteggi privati, in Giovanni Boine. Atti del convegno nazionale di studi (Imperia, 25-27 novembre 1977), a cura di Franco Contorbia, Imperia-Genova, Comune di Imperia-il melangolo, 1981, pp. 159-177. La letteratura dell’intervento è il titolo del capitolo I del saggio Il mito della grande guerra da Marinetti a Malaparte che Isnenghi ha pubblicato nel 1970 da Laterza e ristampato a partire dal 1989 presso il Mulino con il titolo Il mito della grande guerra e una nuova Postfazione.
[11]      Massimiliana Mignone, Il linguaggio dei Discorsi militari, in Giovanni Boine, cit., pp. 331-339.
[12]      Giovanni Boine, Carteggio, II, Giovanni Boine-Emilio Cecchi (1911-1917), a cura di Margherita Marchione e S. Eugene Scalia, prefazione di Carlo Martini, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1972, p. 93.
[13]      È stata Monica Mola ad avvicinare per prima i Discorsi militari a Vita e morale militare nel saggio Boine: i Discorsi in parentesi («Filologia e critica», XIX, 3, settembre-dicembre 1994, pp. 427-446, in particolare pp. 429-430). Le due opere sono state ora riedite integralmente, l’una di seguito all’altra, nella sezione II (Pedagogia della guerra) de Il racconto italiano della Grande Guerra. Narrazioni, corrispondenze, prose morali (1914-1921), a cura di Emma Giammattei e Gianluca Genovese, Milano-Napoli, Ricciardi, 2015.


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I curatori del volume

Andrea Aveto insegna Letteratura italiana contemporanea presso l’Università degli Studi di Genova. Si è occupato dell’autore del Peccato nel saggio Un capitolo della biografia di Giovanni Boine (Novi Ligure, Città del silenzio, 2012) e ne ha successivamente curato il Carteggio (1915-1917) intrattenuto con Adelaide Coari (Novi Ligure, Città del silenzio,2014).

Chiara Catapano
dirige la rivista on-line "L’Olandese volante" (www.olandesevolante.com) assieme a Claudio Di Scalzo. Poetessa, suoi articoli sono apparsi su riviste di settore in Italia e all’estero. Si occupa da alcuni anni dello scrittore portorino con particolare attenzione verso il ricco epistolario. A Giovanni Boine è dedicata la sua raccolta poetica (La graziosa vita, Thauma, 2013).

Claudio Di Scalzo si laurea all’Università di Pisa con una tesi sull’Interventismo e il Neutralismo nel 1914-1915 in Toscana. Diventa esponente della poesia visiva. Pubblica nel 1997 il romanzo epistolare Vecchiano, un paese. Lettere a Antonio Tabucchi per i tipi della Feltrinelli. Cura mostre con catalogo per Henri Michaux, Jacques Villeglé, Giorgio De Chirico, Medardo Rosso, Arturo Martini. Collabora con la Galleria Peccolo di Livorno. Cura gli scritti letterari e politici del poeta interventista Giovanni Bertacchi. Dal duemila in Rete ha ideato siti e blog. Dirige, con Chiara Catapano, la rivista online "L’Olandese Volante Transmoderno" (www.olandesevolante.com).


giovedì 9 febbraio 2017

Un ricordo di Carolus L. Cergoly in uno scritto di Chiara Catapano (e due poesie da "Ponterosso")


Il complesso di un imperatore triestino 
di Chiara Catapano


Sul Piccolo di Trieste, il 26 aprile 2006 comparve un articolo, esteso innamorato, che voleva veicolare al mondo una notizia importante. La veicolò, credo, solo ai triestini e a quei pochi che ancora si ricordavano in Italia di Carolus L. Cergoly: le edizioni de Il Ramo d’Oro ripubblicavano i versi di Ponterosso.
Per chi non è mai stato a Trieste va spiegato che Ponterosso, assieme alla piazzetta omonima, è stato luogo di mercato sorto in quella parte di città – il Borgo Teresiano – che Maria Teresa volle rendere moderno punto d’incontro tra le culture dell’Impero. E l’Imperatrice sapeva sempre cosa fare, in senso di modernità e di scambi commerciali.
A metà del ‘700 dunque, con mirabile opera ingegneristica, le saline furono interrate e nacque quel tuffo del mare dentro la città che è il Canal Grande - non a caso realizzato da un veneziano. E Pontebianco, Ponteverde e Ponterosso a far la spola quasi tra due frontiere.

Ma Cergoly forse forse sono in pochi a conoscerlo e ancor meno quelli che l’han letto perché parla dentro tutte le lingue (quel “misiòt”, quella mescolanza) che tanto ricca ha reso la mia città fino ai primi del Novecento, senza gualcirne neppure una: e Cergoly indossa quest’abito però con tanta personalità che ne vien fuori qualcosa di alieno. Un’altra lingua, ancora una come se non bastassero tutte le altre, perché ci si impazziva insomma a Trieste; ci voleva un riassunto sintattico, un concentrato semantico…
E ancora, a volte, per le strade di Trieste, quando dai portoni cittadini esconoentrano accenti greci, sopraccigli cirillici transitanti sotto la Portizza che sbuca poi nel ghetto, ti senti sopra una nave di carne ed ossa e di accenti aspirate fricative. Hai bisogno di chiamarla con un solo nome, e non lo trovi. Cergoly il nome unico per tutte le cose con tutti i nomi per una sol cosa l’aveva trovato. Ha inventato una lingua inimitabile, ha condensato i vocabolari. Li ha riversati riverberandoli qui, nella mia città, questa nave fantasma oggi tutta echi.
È pura mitologia, decadente quanto volete ma mitologia, la mia città: se un Cergoly giovane giornalista potrà raccontare di quel tal magro profeta, infagottato negli abiti, che sentenziò così, per strada, la sua divinazione: “Te diventerà diretor del Times”: era – quel Tiresia celtico - James Joyce, e l’immagine di questo incontro l’ho proprio amata, perché son cose che possono succedere, credetemi, solo nella mitologia mitteleuropea di questa vecchia città sul mare, stupida e cattiva (per dirla con Carolus).

Era, Carolus L. Cergoly di quei triestini capaci di render tutto leggero – non la leggerezza del male, senza pensieri, bensì quella gaia contrapposta all’inevitabile moto involutivo del capoluogo “troppo” di confine. “Sono solo fesserie”, era l’intercalare suo, mentre leggeva in pubblico i suoi versi.
Ma a queste scaglie di luce, a queste “fesserie” (a me che ho nuotato controcorrente una vita per stare a galla dentro la città che m’ha partorita e svezzata) noi triestini dobbiamo proprio tanto: a volte mi pare che la città si sia salvata perché Cergoly l’ha chiamata definitivamente per nome.
E se pure la sua lingua ai più risulterà ostica, val la pena lo sforzo, val più della babelica torre: c’è la poesia, qui, che canta la diversità di ognuno dentro il calderone infinito dell’universale che chiamiamo vita.

Da Ponterosso (Poesie mitteleuropee in lessico triestino)

Introitus

Radice ungaro slava
Punta de spada
La ga sepolta
Fonda
In humus austriaco

Albero ben cressù
Curado a la tedesca
Dritto ramà
Tra l’aria fresca
De bosco e de marina

Foie che canta
Al vento
Strambotti a l’italiana
Malinconie tormento
Rotto
De quando in quando
Da un rider senza scopo

Questo son mi
Del novecento e otto


Trieste
Un ponte pitturà de rosso
Il Ponterosso
Come due gambe storte
Traverso del canal
Dessiné d’après nature
Cassas e Lavallé
Vietato il riprodurre

Un sbatociar
De barche e de battane
“Ema” “Sgombro” “Rodolfo”
E fora del Canal
In mezzo al golfo
Un vapor in ancora per sempre
“Stadium” el suo nome
Con tanti oblò
Doppiadi sora el mar

Tutto e tutti
Passa el Ponterosso
Revoltella[1] in carrozza con gli Asburgo
Turbanti levantini
Odori de halvà e pesce fritto
E greci e turchi
E dalmati e croati
E svevi de la Bieska
Ebrei de Weimar
A zavattar per metter banchi

E passa una slovena
De Kumnik
No la trova el suo amor
Fabbro de fin
Ferro battù de Kropa
Perso el se ga nel vardar onde

Carri e cavai
De Pinzgau
Coi zoccoli a tamburo
E lupolo per Dreher
E jazzo per sorbetti
Che cala de Postojna

Pianelle furlanute
Cadorini e Ciarnei
Regnicoli e Ungheresi

Ponterosso
Del mondo gran corona
E mi son tutto fiamma
De vento son vestì
Dormo
Coi nuvoli fumando

E ciacolo con l’Angelo
Come inciodà de sora dei camini
Con l’elmo dei gendarmi
Color giallo d’argilla
Barba spartida
Come l’Imperator

E vedo ancora
Angeli e lune
Come nei quadri
Di monsieur Chagall
Un ponte pitturà de ross
Il Ponterosso
Su l’Adriatico estremo
Sotto el crinal del Carso
Con l’ultima Sirena
Che me smaga
La bella Lau

E digo
Strenzi el tutto
E slarga el Ponterosso
Ombelico del mondo
O mia Trieste
Stupida e cattiva



[1] Pasquale Revoltella, imprenditore (1795-1869)

mercoledì 25 gennaio 2017

Giovanni Boine e Dino Campana: qualche lettera dall'epistolario e la recensione 68 di "Plausi e botte" a "Canti orfici" in un contributo di Chiara Catapano

Delle poche lettere rinvenute nella corrispondenza Boine-Campana, salta subito agli occhi che un filo d’amicale condivisione leghi le due anime-corpi malati, e che proprio la condizione di sofferenza di Campana abbia in Boine aperto possibili spiragli  verso i propri simili. Spiraglio-cappio che poi stretto si richiude intorno ai loro colli, tragico e muto, perché i due poeti prostrati dal loro personale male non troveranno sfogo e respiro. È la febbre, che torna detta soprattutto in Boine, e che cucina entrambi, febbre pronunciata cantata consumata con la propria carne, dentro la propria anima. E nulla rianima e ridesta, e a scivolar via è la vita, mentre il mondo è un rumoroso nulla: “Anche la guerra è come tutto il resto. Fa un po’ più di rumore”.
Boine fu il primo vero estimatore di Campana: ne penetrò le fibre perché similmente in lui palpitava l’angoscia e l’impermeabilità alle regole dell’umano vivere. E Campana altrettanto ne intuì la fraterna sostanza, lo testimoniano le lettere a la bella dedica di Arabesco-Olimpia.
Insomma dei più o meno conosciuti epistolari, dei più ctoni e febbrili, merita qui riproporre quello breve intenso tra il Pazzo di Marradi e il poeta di Porto Maurizio.
Accosto ho voluto inserire il componimento di Campana Arabesco – Olimpia, e la recensione completa ai Canti Orfici che Boine scrisse per la rubrica Plausi e botte sulla "Riviera ligure".

Chiara Catapano 

***

(Porto Maurizio, agosto 1915)

Fratello,
è una parola che mi piace, sebbene io la usi casto. Avevo un fratello, era boxer, picchiò mezzo mondo e morì di tifo l’anno passato. Altri fratelli non ho. Ma facciamo la prova con lei: può darsi che riesca. Certo parecchie pagine del suo libro mi diedero una febbre d’esaltazione che non perderò. Suo

G. Boine

P.S. Cerco un impiego in India. Il mio indirizzo è Porto Maurizio.

***
(Udine, novembre 1915)

Caro Campana,
ripartirò di qui dopodomani. Ho visto il vedibile […]. Però è bizzarro come di nessuna parte si trovi lo sfocio. Non c’è liberazione. Il cervello esaurisce il mondo con troppa voracità: s’arriva al nulla da qualunque parti si tocchi. Ma lei dice che lo troveremo questo Iddio introvabile come una fiera che s’appiatti? A forza di scrollar le catene le romperemo? Anche la guerra è come tutto il resto. Fa un po’ più di rumore. Suo

Boine

***

(Firenze, dicembre 1915)

Caro Boine,
la sua cartolina mi è giunta all’ospedale di Marradi dove io sono stato un mese e mezzo inutilmente. Sono assai triste. Tornato a Firenze i facili successi mi guastarono un po’ troppo. È piaciuta qui quella Toscanità che pubblicai in Riviera. Ho conosciuto Cardarelli simpatico e geniale. Siamo stati molto insieme quest’oggi. Credo di condividere quasi tutte le sue idee e l’indipendenza di questo giovane mi ha rialzato il morale. Vengo a Firenze perché è il posto più vicino a Marradi ma mi ci trovo assai triste come dappertutto, la miseria a parte. Vorrei come lei vivere in Riviera allora forse lavorerei tanto per me che per gli altri. Ora in questa borsa di Firenze sono uno spettatore annoiato. Le invio una vecchia e pur discreta cosa per la Riviera al patto che si decidano a pagarmi questa o l’altra già pubblicata. Vorrebbe Lei interessarsi? Se non vorranno pagare la prego di tenersi questi versi come ricordo mio senza farli pubblicare sulla Riviera e se pagheranno invierò sempre qualcosa alla Riviera. Scusi dell’incomodo. Se potrò esserle utile in qualche cosa si rivolga pure a me. Ho pubblicato nella Tempra di Pistoia quel Arabesco di cui vorrei sapere il suo giudizio e preparo qualche cosa che mi sembra un tentativo abbastanza originale nello stesso genere. Se non fossi ammalato sento che qualche cosa forse d’importante si potrebbe sviluppare da me ora, ma in questa condizioni lascerei la salute sforzandomi. Assai mi piacque quello che Lei stampò insieme alla mia critica sulla Riviera. Novaro mi piacque più di prima in “Rari i grilli”; specialmente i primi versi. Auguri e felicitazioni. La prego di scusare colla mia cattiva salute la bolsaggine di questa lettera che pure le fa mille cordialissimi auguri dal suo aff.mo

Dino Campana

***

(Porto Maurizio, 23 ottobre 1915)

Caro Campana,
L’India era un’ossessione tre mesi fa. Mi disse Novaro che lei non fu contento della mia risposta. Diamine! era una stretta di mano a modo mio. Ma insomma, Campana, non si sa dove sfociare, non si sa per che paese partire! Su questo mondo ci ho sputato da un pezzo. Non c’è una qualche America nuova da scoprire? qualche delitto di liberazione? Se pensa una impresa me la comunichi. Fra quindici giorni sono di ritorno. Faccio un giro per i carnai di lassù.
Con affetto, suo

Boine

***

(Albergo Sanesi Lastra a Signa – Firenze, 19 aprile 1916)

Caro Boine,
avendo scritto senza risultato alcuno a Novaro, immagino sia soldato, ecco le ripeto quanto scrissi a lui. Sto abbastanza bene ora benché non possa ancora scrivere e vorrei trovare una piccola occupazione anche meccanica, per due o tre lire al giorno, laggiù dove si respira l’aria di Francia, perché oggi o domani prenderò la cittadinanza francese. Le cause, oltre a quanto le scrissi del mio stato d’animo (irremovibile) sono che venuto dalla Svizzera in Italia per arrolarmi benché riformato, e riformato una seconda volta allora in Giugno dopo dieci giorni d’ospedale militare, chiesi inutilmente il passaporto (l’unica cosa che io abbia mai chiesto all’Italia) e mi venne rifiutato e restai prigioniero delle belve clericali del mio paese che naturalmente ne approfittarono per finire di assassinarmi e avendo io la congestione cerebrale venivano a fischiare sotto le finestre dell’ospedale, e il medico per fregarsi di me diceva che avevo la nefrite. Quindi questa ignobile commedia dello spirito che si ridesta proclamata dalle varie conferenze Coppa (giornalista e conferenziere, n.d.c.) mi fa un profondo schifo. Della letteratura in generale poi in Italia mi hanno disgustato i lordi cafoni di Firenze. Ora non potendo andare in Francia vorrei avvicinarmi almeno. Mi venga in aiuto, mio padre mi dà due lire al giorno. Io una piccola occupazione la prenderei volentieri e farei il mio dovere. Salutandola e pregandola di difendermi nel suo pensiero dalle eventuali calunnie sono suo

Dino Campana

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(Porto Maurizio, 22 aprile 1916)

Caro Campana,
le sue lettere sono sempre così dolorose! Non so mica che cosa risponderle. Sono io stesso povero che tiro innanzi alla bell’è meglio e spesso per aiuti. Quanto a salute tutte le malattie le ho addosso cominciando dalla tisi.
Così ridotto tra tormenti morali e fisiche forse appena i suoi sono più opprimenti, medito le epistole di S. Paolo le quali dicono che si risorgerà: “Poiché sappiamo che fino ad ora tutt’assieme la creazione geme ed è come in doglie di parto: e non soltanto lei, ma anche noi, anche noi stessi gemiamo in noi medesimi aspettando redenzione del nostro corpo” (Rom. VIII, 22.23).
Leggo anche il De civitate Dei, e lo traduco, poiché ormai questa città degli uomini mi è insopportabile. Creda a me, Campana, è insopportabile qui, e le sarebbe insopportabile la Francia.
Dirò a Novaro di questo suo desiderio: anche in Riviera la disoccupazione si fa sentire: trovar lavoro è difficile più che mai. Le scriverò in ogni modo.
Della dedica all’Arabesco che mi piacque così decisamente  fuor del mondo com’è sempre la sua poesia, la ringrazio ora fraternamente. Non pigli mai per inimicizia il mio silenzio: le voglio bene, Campana, ed ho grandissima stima di lei e delle sue cose ma sono un amico inutile. Suo

Boine

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ARABESCO-OLIMPIA

 A Giovanni Boine  

Oro, farfalla dorata polverosa perché sono spuntati i fiori del cardo? In un tramonto di torricelle rosse perché pensavo ad Olimpia che aveva i denti di perla la prima volta che la vidi nella prima gioventù? Dei fiori bianchi e rossi sul muro sono fioriti. Perché si rivela un viso, c’è come un peso sconosciuto sull’acqua corrente la cicala che canta.

Se esiste la capanna di Cèzanne pensai quando sui prati verdi tra i tronchi d’alberi una baccante rossa mi chiese un fiore quando a Berna guerriera munita di statue di legno sul ponte che passa l’Aar una signora si innamorò dei miei occhi di fauno e a Berna colando l’acqua, lucente come un secondo cadavere, il bello straniero non poté più sostare? Fanfara inclinata, rabesco allo spazio dei prati, Berna.

Come la quercia all’ombra i suoi ciuffi per conche verdi l’acqua colando dei fiori bianchi e rossi sul muro sono spuntati come tra i fiori del cardo i vostri occhi blu fiordaliso in un tramonto di torricelle rosse perché io pensavo ad Olimpia che aveva i denti di perla la prima volta che la vidi nella prima gioventù.

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68) DINO CAMPANA. Canti Orfici. Tipografia F. Ravagli, Marradi 1914.

Copertina su carta gialla droghiere. Sul retro fra parentesi proprio in mezzo è stampato Die Tragödie des letzten Germanen in Italien (ci hanno da ultimo incollata su una strisciolina rossa come una pudica camicia, ma l’ho, da buon Gobinista, che diamine! grattata via con cura). Il ringraziamento prefazionale ai signori sottoscrittori è messo in ultimo al posto dell’indice, il quale come inutile non è stato fatto; e lì è pur ricordato “il coscienzioso, il coraggioso, e paziente stampatore sig. Bruno Ravaglia” a cui dunque nemmeno noi lesineremo le nostre cattedratiche lodi, sebbene parecchie lettere del testo sian capovolte ed a pag. 151 la riga che nientemeno dice “diosa virginea testa reclina d’ancella mossa” sia, com’è confessato, “andata all’aria” – La carta a piacer suo muta di qualità tre volte in centosettanta pagine, brache, giacca, gilet di tre diversi vestiti. Inoltre è utile aggiungere che il libro è finito con queste sacramentali parole messe fuori testo a mo’ d’epitaffio o di chiusa: They were all torn and cover’d with the boy’s blood: cosiché BLOOD rosso e pauroso come una stilla od una ditata, sta lì (traccia d’assassinio o di liturgico sacrifizio?) come il tragico sigillo dell’opera.
Per constatare, in conclusione, che l’autore è certo un poverissimo e che i segni del suo squilibrio anche dall’esterno del suo volume appaiono evidenti.
Che so a caso apriamo il Trattato di psichiatria del Prof. Leonardo Bianchi (Napoli ed. Pasquale) ai capitoli che così dottamente dissertano, fra le malattie mentali, della paranoia, delle demenza precoce et similia, ci sarà facile provare come qualmente la trasposizione illogica  delle parole nel discorso, la sintassi a salti, nonché il salto dei vocaboli ed eziandio di intere proposizioni, è la diagnostica caratteristica delle scritture dei pazzi. La qual cosa è confermata mi pare oltreché dal preterito Lombroso, dall’autorevole Dott. Max Nordau nell’ormai celebre volume della Degenerazione, dove se ricordo, che Mallarmé sia un deficiente è a soddisfazione per analogia dimostrato  allegando da verificati freniatrici documenti questa memorabile frase di ricoverato: “Mi sembri uno zuccherino dato a balia!” La quale certo è, semmai, imagine più ragionevole di ciò che si legge ad es. qui in Dino Campana a pagg. 169 e 70, dove infine si legge (e bisogna citare)

Come nell’ali rosse dei fanali
bianca e rossa nell’ombra del fanale
che bianca e lieve tremula salì.

E l’ali e i sali, e il bianco e il rosso; e i vichi e i fanali: il sale marino e l’ombra e la notte, fan per due pagine uno spettrale intrico di così macabra sarabanda che non è possibile fuori trarne un qualunque normale costrutto.
Ciò infine, di nuovo, per dire che se dall’esterno si passi all’interno i sospetti di squilibrio son chiari e fondati, e questo povero Campana, stabilito per pazzo. – In altri termini pare cioè, come corollario, assodato, che la poesia non sia più ormai che dei pazzi e dei poveri.
È qui infatti una poesia allucinata non sai di che fatta, che se ti ci chiudi entri in un’atmosfera d’ansia, sei a balzi via trascinato di là dai confini del tuo consueto andare, chissà dove, chissà dove per disperazioni d’irrealtà. Non so che febbre si divori le imagini e le accavalli; che cosa si dica, precisamente non vedi; i fantasmi lampeggiano e fuggono, il luogo ove sei si tramuta: - sei nella Pampa, sei fra le stelle, un diretto in corsa ti porta, la turbolenza dei venti ti strappa. Ma insomma una strapotenza bizzarra di lirica, via ti solleva fuori di te in dimenticanza del mondo per morbosità fosforescenti.
Ci sono pagine limpide di osservate serenità: ci sono lirici idilli dove Piazza Sarzano a Genova col ponte dei suicidi lì sopra, e gli intrichi di vicoli bui; dove Faenza e Fiorenza e la Verna si trasfigurano in tremiti di lievi colori quasi in musica stemperati: pagine di prosa fresca tra l’impressionismo scorri-via e (sempre) una sotterranea commozione come di scatenato respiro. – Ma jam furor humanos nostro de pectore sensus expulit… giungono momenti che il respiro nella gola s’affanna e la vertigine vince. Allora le parole ossessionano come gli incubi, si dilatano come occhi di paura, si puntano come riluttanti vite all’abisso; finché l’onda via le travolge, meravigliosi frantumi in un gorgo canoro. La musica vince i discorsi, i vocaboli son fatti di voce; son simboli di suono come un polline vago d’imagini. Nuotano spersi come echi, si richiamano si ripetono sinfonizzano sciolti senza badare alle logiche; si rincorrono, si frantumano in ansia d’espressione, ti danno lo spasimo dell’inesprimibile, ti sfanno in una liquidità di respiri; - finché t’accorgi che il respiro è respirato, e la cosa da dire è l’allucinata febbre, la lirica frenesia di una cosa ormai detta.
Io vidi dal ponte della nave – i colli di Spagna – svanire nel verde – dentro il crepuscolo d’oro la bruna terra celando – come una melodia: - di questa scena fanciulla sola -  come una melodia – blu, su la riva dei colli ancora tremava una viola… - Illanguidiva la sera celeste sul mare; - pure i dorati silenzi ad ora ad ora dell’ale – varcaron lentamente in un azzurreggiare.  –Lontani tinti dei vari coloridei più lontani silenzi. – Ne la celeste sera varcaron gli uccelli d’oro; nave – già cieca varcando battendo la tenebra -  coi nostri naufraghi cuori –battendo la tenebra l’ali celesti sul mare. – Ma un giorno…
- Poiché ci sono le fonti di tutto certo sarà facile assegnarle anche a questa smarrita e decadente musicalità (Samain e compagni). Dico se mai che questa sorta di decadenza mi piace qui che di più non si può; e che la stessa rozzezza violenta, la stessa primitività impetuosa con cui è come in assaltoqui in più luoghi realizzata (cfr. Quiere usted hierba mate?) dimostra che non è d’accatto, risponde ad un intimo bisogno e del vecchio malfranzese non ha che l’apparenza.
S’attaglia cioè con spontaneità al mondo d’incubo e di libertà che il poeta s’è foggiato, alla risolutezza vagabonda di anima senza speranze, di là da ogni tradizione, di là da ogni acquitamento, nave ebbra e disancorata, gabbiano tra raffiche e cavalloni. Passano, qui di mezzo, i rombi delle lontananze; sei dove? Alle Antille, sei in Argentina; il viaggio non è qui coi luoghi e le films ma cogli abbandoni e gli acquisti, colle liberazioni: - è una spirituale categoria di perdizione e di disradicamento. – A Genova città di partenza, è avvenuto l’Incontro con Regolo: “Impestato a più riprese, sifilitico alla fine, bevitore scialacquatore con in cuore il demone della novità che lo gettava a colpi di fortuna che gli riuscivano sempre, quella mattina i suoi nervi saturi l’avevano tradito  ed era restato per un quarto d’ora paralizzato dalla parte destra, l’occhio strabico fisso al fenomeno toccando con mano irritata la parte immota. Si era riavuto, era venuto da me e voleva partire… - Mai ci eravamo piegati alla mostruoso assurda ragione. Il paese natale: quattro giorni di sguattero, pasto di rifiuti, tra i miasmi della lavatura grassa. Andiamo!” -Ed Andiamo! pare il motto di tutta questa ispirazione che procede a barbagli e in folata, non ha altra formula oltre quella dell’inquietudine, né altra logica se non  quella irreale e vagabonda del sogno.
C’è in giro per l’arte contemporanea (compresa l’italiana, parlo dell’italiana) un fermento d’esaltazione come un’ansia di novità e d’anarchia, un tumore d’angoscia che cerca sfocio. Ma c’è anche, ed assai più la preoccupazione di metterlo in mostra e di affermare la propria modernità spregiudicata colla rettorica dell’espressione. La ansiosa modernità di parecchia gente comincia dal di fuori e resta soprattutto al di fuori come la dignità ed il valore di molti restan nel vestito e nei titoli. C’è infine gente che finge la libertà essendone dall’intimo schiava sprovvista; e poiché s’è persuasa dell’ovvia verità più sopra enunciata che la poesia è dei pazzi più pazzi, si finge dunque per pazza e lo fa con scioltezza.
Ma questo Campana, per lo stesso impaccio del suo parlare, questo che di elementare ed ingenuo che la coltura ha lasciato in lui e nel suo stile (non l’ha cancellato), è, se dio vuole un pazzo sul serio. Epperciò Te deum.

[Boine, Garzanti, aprile 1983. Giovanni Boine Carteggio, IV amici della “Voce”, Roma 1979]