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sabato 3 dicembre 2016

"A parte il lato umano" di Antonio Turolo (con una proposta per tornare a parlare di Naturalismo in poesia)

Il premio Ciampi di quest'anno è andato al poeta Antonio Turolo e ne deriva il libro fresco di stampa A parte il lato umano (Valigie rosse, euro 13). Il nuovo volume segue di nove anni la prima vera uscita su libro di Turolo, Corruptio optimi pessima (pubblicato per Nuova dimensione), la quale a sua volta seguiva di altri nove anni la comparsa della silloge Le parole contate in "Poesia contemporanea. Sesto quaderno italiano" del 1998. Al di là delle numerologie e ricorrenze, resta in evidenza la parsimonia e la temperanza di questo poeta trevigiano, dipinto come "appartato" anche nella nota accompagnatoria a questa nuova pubblicazione da Paolo Maccari. Certo che se il metro è il presenzialismo social di molti poeti attuali e il vivacchiare contento in quella sorta di GAE (Graduatorie A Esaurimento) che i poeti più anziani e posizionati aprono e chiudono a loro piacimento sui più "giovani" (gioventù: concetto e, ahinoi, brand a maglie assai larghe e poco serie), diventa doveroso spendere un aggettivo come "appartato" per Turolo, un aggettivo adoperato tra l'altro da una rubrica del popolare litblog "Nazione Indiana". Tornando alle suddette GAE, non è un mistero che a tutt'oggi sia simile alla cooptazione il meccanismo principe del funzionamento della repubblica italiana delle lettere. In realtà parsimonia, temperanza e intermittenza di scrittura sono, oltre che presenze costanti e normali della scrittura di Turolo, dati di realtà più riconducibili a un desiderato rimodellamento di un corpus ridotto di testi, alla luce di una "amministrazione" della propria poesia che ricorda un perimetro kavafisiano e un'agorafobia a tratti acuta (Kavafis, Corazzini e Giudici sono alcuni dei nomi spesi da Maccari nella sua nota). Ne segue - o forse tutto ciò anticipa - il palesarsi di una poesia che saccheggiava - e ora saccheggia meno - un immaginario famigliare, inteso come "immaginario della famiglia" e dei luoghi a questa circostanti. Il fruitore dei vecchi versi di Turolo non incontrava certo quella famiglia comunemente intesa dalla cosiddetta società dei consumi o quella precipitata, suo malgrado, in una certa poesia contemporanea che indugia, già da parecchi anni, sul pericoloso nonché noioso - per come è spesso giocato - binomio genitorialità-filialità (sta diventando un po' bigotta certa giovane poesia contemporanea, eh, sia detto tra parentesi). Chi ha letto le precedenti opere di Turolo capisce bene di quale immaginario famigliare sto parlando e chi non l'ha ancora fatto può rimediare con il libro pubblicato da Nuova dimensione e con certi componimenti di questo librino nuovo di Valigie Rosse che ha il pregio di contenere, in sostanza, quasi tutti inediti (si può acquistare qui). Ma se l'immaginario di un tempo era "famigliare" e anche "provinciale", in un senso consapevole, angusto e perimetrale del termine, lontanissimo dall'accezione comune dell'aggettivo "provinciale", ora con il nuovo libro, sia nelle poesie che nelle prose, Turolo scavalca un muretto di sofferenza nuovo e giunge in un campo più aperto e ancora più deserto, dove suggestioni cinematografiche plurime possono alternarsi a una contaminazione tra la vicenda del pugile Emile Griffith e del suo tragico combattimento contro Benny Paret del 1962 e i ricordi infantili di un ex-pugile che gestiva un bar in città (accade in "Bar delle Antille").

Il volume si divide essenzialmente in due parti, una dedicata esclusivamente alla poesia in versi e l'altra alle prose o prosimetri intervallate da poesie. Tra i componimenti troverete le opere di Riccardo Bargellini, che a mio avviso sanno ben accompagnare la poesia di Turolo, tanto quella di questo nuovo libro come anche quella passata. Affrontare la poesia di Turolo offre un banco per mettere alla prova l'annoso e mai risolto problema-piaga dell'autobiografia. Voglio dire che se da un lato si ha l'impressione di leggere qualcosa che rimanda continuamente alla biografia, allo stesso tempo Turolo ha sempre efficacemente messo in guardia dalla perniciosità di letture biografiche, sin da un memorabile passaggio che recita "Strano destino, quello dei poeti: / leggetene le opere, ragazzi, / non la vita". E come non dargli ragione. Tanti autori si sono spesi per questo imperativo giusto, eppure spesso ripiombiamo in un bigotto e morboso meccanismo che fa leva e rovista su pulsioni voyeuristiche che si rimpallano tra traccia biografica e traccia scrittoria. Questo non significa che il voyerismo non possa albergare nella scrittura come tema, nella fiction così come in poesia (o anche nel cinema), ma se una cosa è il voyerismo che abita l'opera un'altra cosa (e detestabile) è il voyerismo che talvolta si fa filtrare tra biografia dell'autore e sue opere, un'osmosi spesso avallata dal sistema editoriale e dalle sue magagne. Potremmo salvarci pensando che anche tutta la poesia è fiction, ma non basta, prova ne sia a un livello di percepito diffuso il successo crescente dei poeti che pare diano spazio a sentimenti "autentici", scene famigliari oneste, leali e edificanti. Non ci siamo, la poesia di Turolo mi è sempre parsa un buon antidoto e quel suo verso andrebbe ricordato più spesso e stampato nei proverbiali caratteri cubitali. Anche Italo Calvino si era a lungo battuto per spingerci verso un traguardo del genere, ma siamo ancora lontani. Il paradosso da svelare è che tutta la scrittura è autobiografia e, simultaneamente, non lo è affatto, non potrà mai esserlo. Ma sono cose note, oserei dire scontate. Sarebbe interessante applicare il metodo scientifico alla scrittura: ipotesi, esperimenti, fallibilità, ripetibilità.

Continuo sugli aggettivi in questa nota e per una volta vorrei cassare tutti quelli più usati per descrivere la poesia di Turolo fino a oggi: "secca", un abusato e sempre più incomprensibile "potente" (che significa?), "antimetaforica" o "priva di metafora", "piana", "essenziale". A me verrebbe da dire piuttosto poesia "confessionale", ma non è ancora il tempo per giocarsi la carta di questo aggettivo, primo perché non sono ancora convinto di saperlo argomentare fino in fondo e secondo perché non sono certo della percezione che tale aggettivo può incontrare. Inoltre, vi siete mai chiesti perché pare esista oggi una certa predilezione per una poesia che si vuole "autentica", nella quale la cerniera tra biografia e scrittura si fa stretta stretta e quello che leggiamo nel testo si palesa come vita del poeta che la riversa in qualche modo nel testo? (Gli esiti deteriori di questo filone sono quelli della "poesia onesta e leale" sbandierata senza cognizione di causa negli ultimi tempi.) E perché altri modi di fare poesia, più vicini alla fiction, e che pure non sono risultato di minor dolore, meditazione e rielaborazione da parte del poeta, passano in secondo piano? Vorrei provare a suggerire questo: la poesia di Turolo offre un interessante spunto per provare a reintrodurre nella mischia un concetto così vicino al Naturalismo. Se non fosse che tale movimento in Italia ha avuto esiti perlopiù meridionalistici soltanto, col Verismo, saremmo meno attardati nel dibattito attorno al mai sopito Naturalismo in letteratura e a una nuova poesia naturalista, se vogliamo contrapposta ad altri tentativi minoritari ma parimenti (se non a volte maggiormente) interessanti. Insomma, avverto la necessità di un discorso critico che torni a parlare di estetica e retorica in primis (l'enfasi degli slam poets sulla prosodia è solo una parte del lavoro, ora pare che la prosodia sia una loro scoperta). La bravura di Turolo è far apparire necessaria e invisibile la propria consapevolezza estetico-retorica e A parte il lato umano conferma questo dato di osservazione (si prendano a esempio certe concatenazioni consonantiche della brevissima poesia iniziale "Lutto").

Non voglio dilungarmi oltre o nella citazione di molti testi. Tra l'altro credo sarebbe un atto irrispettoso fare come certi blog che pubblicano molti componimenti di un nuovo libro di poesie, per giunta piccolo, e mi auguro di essere riuscito comunque a invitare alla lettura del nuovo libro (chi lo desidera può trovare qui alcuni inediti e qui la nota su Corruptio Optimi Pessima). Con questa pubblicazione notiamo uno spostamento nella scrittura di questo poeta che ci ha sempre detto, senza proclami altisonanti, di non apprezzare così tanto la propria vita, ma altresì ha detto e descritto dalla sua astronave con la quale ha attraversato lo spazio in un viaggio che è sì tra le persone ma che appare spersonalizzante (a parte il lato umano, appunto, QED - quod erat demonstrandum). Da un punto di vista di analisi mi è parso significativo questo passaggio di Paolo Maccari e con questo chiudo:

In ogni modo, mentre i versi sembrano redimere la scialba prosa giornalistica – di cui al contempo non si scordano – in un dettato piano, di intonazione endecasillabica meravigliosamente dissimulata (magari in scandite ipometrie: si vedano i frequenti novenari con accenti in quarta o sesta sede, a suggerire una brevità ancora memore della forma canonica), le prose che li seguono mimano una specie di contro-commento del protagonista, una mimesi della sua psicologia e un’altra versione del suo destino.
--=oOo=--

Ricordo l'appuntamento con la presentazione del libro:

venerdì 16 dicembre 2016 alle ore 20:45 
Palazzo di Francia, Via Roggia, Treviso

giovedì 20 novembre 2014

"Le cose sono due" di Francesco Targhetta, Premio Ciampi - Valigie Rosse 2014

Le cose sono due di Francesco Targhetta è il recente vincitore dell'importante riconoscimento poetico "Premio Ciampi - Valigie Rosse 2014" (Valigie Rosse, pp. 52, s.i.p.). Contiene anche le belle fotografie di Riccardo Bargellini e la postfazione di Paolo Maccari, curatore della collana assieme a Valerio Nardoni. Arriva dopo l'esordio dal titolo bifronte di Fiaschi del 2009 e dopo il romanzo esploso in versi intitolato Perciò veniamo bene nelle fotografie del 2012, di cui s'è scritto anche in queste pagine molti mesi addietro. In realtà Targhetta è apparso in queste pagine anche in veste di curatore intervistato sui Fuochi d'artifizio di Corrado Govoni non molto tempo fa. E le govoniane (crepuscolari, foucaultiane ecc.) "cose" appaiono sin dal suo nuovo titolo, che si pone come frammento prelevato da un parlato quotidiano del quale però non ritroveremo tante altre tracce nei testi. O, meglio, troveremo anche inserti di parlato, ma stravolti, attorcigliati in una frase, spesso tra virgolette o protagonisti di iperbati. Il titolo spinge dentro il campo del testo poetico il classico aut-aut, senza dire però quali siano i termini della disgiunzione. Due sono le cose e due le sezioni dell'opera, intitolate laconicamente "Uno" e "Due", due come i lati di un 33 o di un 45 giri, come quelli di una musicassetta: la prima sezione senza titoli, la seconda con tutti testi titolati e la breve prosa che, con sapore quasi landolfiano, titola "Le quattro vedove". Due sono anche i momenti, se come sostiene Paolo Maccari, i testi qui raccolti "alternano un momento metaforico e uno più spiccatamente narrativo, naturalmente intersecati e vicendevolmente alimentati."

Da un punto di vista stilistico, abbandonata l'ironia dei Fiaschi o il marzialiano fulmen in clausola che a lungo ha accompagnato la sua scrittura, Targhetta qui recupera un serbatoio di immagini anche macabre, talvolta sconsolate e comunque assai intense che quasi certamente in Govoni s'è alimentato e rigenerato. In "Appuntamenti mancati" chiude così: "Solo a casa ho poi sentito il sapore, / dentro le ossa, / di questi transiti un poco tardivi: / non l’aroma all’incenso dei morti, / ma la puzza violenta dei vivi." Lo si nota spesso quando chiama in causa parti del corpo umano o il corpo umano stesso, o quando definisce "moka" il colore delle pelli degli studenti all'altezza di giugno, dopo i primi soli in piscina. Tutto questo però coesiste assai naturalmente con innesti plurimi, con scelte lessicali eteroclite e con altre quasi eterodirette da situazioni di vita tanto codificate nel loro punto di partenza quanto aperte nello svolgersi della poesia, come nel caso del testo intitolato "Flessioni", dove fa capolino un finale che potrebbe essere stato cantato dalla Mina di Città vuota: si tratta forse di quella componente pop, ricordata anche da Maccari, che in realtà non è mai stata disgiunta dal versificare di Francesco Targhetta. C'è pure un gusto
nuovo, almeno per il mio orecchio, per quello che si sarebbe chiamato un tempo il forestierismo, ampiamente assorbito e addomesticato eppure ancora diligentemente lasciato in italico nel testo: crooner, nachoseyeliner, front-office ma anche il dialettismo di picà per "impiccato" o il francesismo di brulé (con accento acuto come va scritto e non con accento grave come si pronuncia da queste parti), il latino di una targa che recita parva sed apta mihi. Propongo un testo per esemplificare l'uso che Targhetta fa della rima, in parte già intravisto nell'esempio sopra, ma anche per dare una clip significativa del nuovo impasto fonico di questo libro. Allora non esito a ricopiare "Vecchi con moldave", che potremmo leggere anche inseguendo la ricorrenza compulsiva della fricativa labiodentale sonora /v/, assurta quasi a simbolo nella lettera iniziale di un ballo, il "valzer" finale, con esiti avvolgenti e ipnotizzanti. Sembra di stare dentro uno sterminato e "eterno" piano sequenza di una danza girato da un Béla Tarr nostrano privato della macchina da presa:

Negli inverni delle scritte fasciste
sugli svincoli, sui rami, e sui muri,
vanno come divi i vecchi con moldave
virando con vanto davanti ai tabacchi,
agli occhi dei vuoti acconciatori
maschili: spalline ottanta, capelli
tinti, gli zigomi duri come i baristi,
a bere caffè asciugando le bave
li regge con gelo la loro badante,
e fuori, poi, i palazzi di muffa.

Tutti noi indietro nel tempo, solo loro
in sincrono eterno: vanno a vortice,
su valzer, i vecchi con moldave,
succhiando chi li guarda nella truffa.


Dicevo in apertura che l'espressione "le cose sono due" del titolo ("strepitoso" per Maccari) è prelevata dal parlato colloquiale. E lo stesso Targhetta nel secondo testo del libro scrive: "I giorni in cui non parli con nessuno / le cose sono due: / o arrivi a cogliere il senso di tutto / o confondi corrompi ti ingarbugli, / e la tua voce che chiama il gatto / è quella, alla sera, di un crooner / («eccoti i miei rimasugli»), / l’eco rauca e lunga / nella notte che ti riprende in scacco". Solitamente infatti tale espressione ripresa dal titolo anticipa una disgiunzione: o è così, o è colà. Nel caso di questo nuovo libro di Francesco Targhetta, l'affermazione contenuta nel titolo dell'opera sembra suggerire congiunzione e non disgiunzione, come se questo titolo sorgesse da uno schema "questo-e-quello" e non da uno schema "o-o". E il dolore - se c'è (ma c'è) - è quasi racchiuso, espresso, in questo schema che potremmo tradurre coi simboli dei connettivi logici, in termini pressoché booleani. Le cose, le relazioni, la rielaborazione del nostro vissuto esiste in un rapporto di dualità, devono esserci almeno due cose per specchiarci e riconoscerci (emblematico allora il testo conclusivo "Carità"), per pensare vita e morte. E non esisterebbe lo spazio e non esisterebbe nemmeno il tempo delle domeniche, degli ultimi giorni di scuola trascorsi a battere la carta di scala quaranta con Coca e sfogliatine, o il tempo del sabato sull'autostrada A4, nulla esisterebbe al di fuori di una relazione duale, nemmeno la monade della solitudine che è invece il viatico alla molteplicità del reale. E la riflessione sulla solitudine, che in fin dei conti combacia perfettamente, come nel caso di due insiemi coincidenti, con la nuova scrittura di Targhetta, non può che riverberarsi: spazi e tempo esistono solo in quanto relazione e interazione (questo è forse ovvio) ma se c'è solitudine questa è solo quella della scrittura (questo è meno ovvio). E se una solitudine non si può unire a un'altra, si può provare a dirla, scriverla, raffigurarla, dipingerla. Leggerla. Finanche amarla o odiarla, forse. Così sembra che spesso si verifichi sulla pagina un'interazione di solitudini, tra qualcuno che non resta più appeso da nessuna parte, ma che cade e sprofonda come in una migrazione di calore, umano e animale assieme, pur in un'aridità e sconsolatezza che restano sullo sfondo delle giornate. E ci vorrà allora un nome nuovo per questa che non è più la solitudine come la intendevamo. In fondo, volendo fare un volo e una planata pindarica, lo sappiamo anche dalle acquisizioni della termodinamica che è il calore che fa esistere una differenza tra passato e futuro, i quali sono diversi solo quando c'è stato flusso di calore. E il tempo incompreso di ciò che è stato il nostro passato recente, il tempo "gigante" come il giorno, quel tempo che in queste poche pagine sembra avere un peso schiacciante e enigmatico, in realtà non esiste, è un'illusione, e non esisterebbe nemmeno la differenza tra un passato e un futuro, veri protagonisti in absentia di questi versi (presenza-assenza esattamente come quella di un calco o di un fossile) se non ci fosse quel calore che migra secondo traiettorie di probabilità fra i nostri sguardi randagi; non esisterebbe quel senso profondo di potente distacco di retina di cui s'accorge questa poesia quando registra un guardarsi e fiutarsi tra generazioni e fra simili. Manchiamo tutti a un appello, non sappiamo bene a quale appello, però. In una poesia di clima elettorale leggiamo "e intanto tu chiuso rimani in casa / e rifletti in ascolto, secche le mani, // che c’è ancora chi ti chiede di battere / un colpo.": è un testo che per qualche via mi ha riportato a La giornata d'uno scrutatore, uno dei libri più belli di Italo Calvino. Nel componimento che parla di un invito domenicale dei genitori si legge una domanda che deve restare senza risposta: "Provare ad arginare la solitudine / adulta di chi, un tempo, / si era pensato alla vita: / chi, dunque, ha sbagliato tra noi?". Ma si prenda anche l'immagine del padre in un'altra poesia: "Di mettere gli orologi in avanti / è una delle manie di mio padre, / tutti, di tre o quattro minuti, non / abbastanza per cambiare le cose / ma solo per far salire / un po’ di angoscia / sempre." 

Che il tempo ci serva sempre meno, nella scienza com'anche in poesia? Non sappiamo cosa farcene se, anche da un testo come quello che scelgo per chiudere, emerge che il poeta ha finalmente rinunciato a una piena comprensione di tutti tempi probabili e possibili, rinunciato persino a un addomesticamento dello spazio di una vita (si badi: non più di uno "spazio vitale"), bensì di quello spazio che è una vita. Se la scrittura ha un qualche futuro, allora questo passa anche per l'abbandono di alcune sue certezze. E la poesia diventa un arco sempre in tensione che tira frecce in un giorno in cui, con un anagramma quasi perfetto e irresistibile tra nome e aggettivo, i treni diventano eterni "lungo la pioggia delle coste adriatiche", sui binari che guarda caso sono due, guarda caso sono due cose. Parallele.

5.

Il lavoro distrae, ma il lavoro
non c’è, e resta allora la fame,
spietata e pura, un trentatré giri
che stura il silenzio del mattino,
mentre il giorno è gigante
e mica lo fermi,
sale in sordina su quei treni eterni
lungo la pioggia delle coste adriatiche

finché è sera dentro le stanze
e niente, attorno, si è mosso,
come (ricordi?) belle statuine,
marce, però:
hanno i volti smangiati,
gli occhi venati di rosso.