Riviste #9
Non so se si possa dire pacificamente che oggi non corre buon sangue tra letteratura e filosofia, quantomeno tra certa letteratura e certa filosofia. Lo so, bisognerebbe raffinare il livello di analisi di questa impressione, ma mi fermo qui. L'impressione è che questi "mondi" non sappiano più fecondarsi o provocarsi, ma nemmeno sterilizzarsi definitivamente a vicenda e rimangano in ostaggio di una convivenza a volte forzata e musona. Non so se è questo un sintomo o un problema, ma varrebbe la pena provare a fare attorno a queste supposizioni qualche ragionamento in più, magari in sostituzione di tanti rovelli sociologici su cosa va o non va, cosa funziona più o meno e sui tanti "dover essere" della letteratura, prima ancora della filosofia. Si tratta comunque soltanto di un'impressione di uno che osserva e a volte, avventatamente, trascrive l'impressione. E come tale l'impressione va presa. Tuttavia, se non sono l'unico ad averla, cade doppiamente bene questo numero 37 della rivista "Riga" di Marcos y Marcos dedicato a Maurice Blanchot (pp. 320, euro 28, a cura di Giuseppe Zuccarino), figura chiave per riprendere in mano il discorso e il rapporto tra i due campi e pratiche del sapere su menzionate e non solo con riferimento alla zona francese. Dico che questa pubblicazione "cade doppiamente bene" perché l'architettura del volume è aperta e polifonica, come sempre in "Riga", e aiuta ad avvicinare l'opera di Blanchot da più versanti e altezze. Certo, come si ricorda anche nell'"Editoriale" di questo ricco volume che ha davvero una funzione stimolante, prendendo il nostro paese a esempio, si può serenamente riconoscere che su Blanchot è calato uno strano sipario. E parliamo di un sipario che riguarda principalmente la sua attività di critico, perché quella di scrittore è sostanzialmente sconosciuta qui. Il sipario è stato in parte risollevato due anni fa, quando Einaudi, che di Blanchot non ha più riproposto l'opera più celebre, Lo spazio letterario, ha mandato in libreria La conversazione infinita. Scritti sull'«insensato gioco di scrivere».
Da un punto di vista editoriale è quindi difficile e magari è pure presto per capire se qualcosa sta cambiando in Italia, uno dei pochi paesi che di Blanchot non ha tradotto il primo romanzo del 1941, Thomas l'obscur (nelle principali lingue europee si trova e su questo romanzo si legga la lettera di Emmanuel Levinas riportata nel volume di cui si dà notizia, anche come esempio di conversazione letteraria). Più che azzardarci in previsioni e a capire se l'aria attorno a Blanchot sta cambiando possiamo piuttosto, per cominciare, dare qualche informazione sulla struttura di questo volume, che si apre con i testi di René Char, Edmond Jabès, Marco Ercolani, Enzo Campi e Benoît Vincent. La seconda parte della monografia s'avvia proprio con la proposta della traduzione del primo capitolo del già citato Thomas l'oscuro e del primo capitolo de L'altissimo (Le Très-Haut, 1948). Tra altri scritti, completano questo corpo stimolante di prime parziali versioni gli scritti sul surrealismo, su Melville e un cospicuo numero di lettere.
Nella parte centrale del volume si concentrano le amicizie di Blanchot (amicizia è una parola fondamentale del lessico dello scrittore e questo volume è un invito a scoprire perché) e qui possiamo leggere contributi assai brevi o assai più articolati del già citato Levinas, di Pierre Klossowski, George Bataille (che ricorda, per affinità di interessi, il "magistrale studio" di Blanchot su Sade, cioè Lautréamont e Sade uscito in Italia per Dedalo e poi per SE), Jean Starobinski, Roger Laporte, Jacques Derrida, Jean-Luc Nancy, Bernard Stiegler, Christophe Bident e un lungo saggio di Georges Didi-Huberman intitolato Da somiglianza a somiglianza che scandaglia la lunga rincorsa di Blanchot attorno ai poli di "immagine" e "somiglianza", uno scritto che non mancherà di interessare gli estimatori dei libri di Didi-Huberman. La parte di interventi scritti ex novo per la pubblicazione ideata a Marco Belpoliti e Elio Grazioli contiene saggi di Alberto Castoldi, Marco Della Greca, Manlio Iofrida, Bruno Moroncini, Riccardo Panattoni, Igor Pelfreffi, Paolo Vignola e dello stesso curatore Giuseppe Zaccarino. Qui, più che in altre aree della rivista, si affronta la questione politica in Blanchot. Chiude tutto la galleria con le opere di João Louro e Pietro Fortuna, dove curiosamente si gioca e si ritorna sulla scarsezza di foto di Blanchot (un problema che non riguarderà gli scrittori a venire, a quanto pare).
Se nei corridoi del pensiero càpita ancora che si parli di pensatori, correnti e filosofie per "sommi capi" (da leggersi in tutte le valenze dell'espressione) e per aree geografiche, il lascito di Blanchot pare recalcitrante a farsi imbrigliare in quell'area francese che, con alterne vicende, occupa tuttora delle posizioni alte nella hit parade del pensiero. Perché il suo metodo, la sua solitudine e persino l'estensione di amicizia si pongono in una posizione dialogante con più metodi e più incertezze, in una congettura di accoglimento della separazione e della distanza infinita con l'altro, fino a portarci a ripensare l'isolamento del pensiero e della parola. Persino sulla "forma-libro", che ancora tiene banco oggi ed è alla base di tutti i discorsi e i riferimenti letterari che si fanno, troverete in questo volume di "Riga" vivaci rimandi.
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martedì 4 luglio 2017
mercoledì 31 agosto 2016
Il volume di "Riga" dedicato a Goffredo Parise (e un frammento inedito sull'Arizona)
Riviste #8
Da pochi giorni è in libreria il trentaseiesimo volume della rivista "Riga" dedicato a Goffredo Parise (Marcos y Marcos, pp. 544, euro 28, a cura di Marco Belpoliti e Andrea Cortellessa). La pubblicazione coincide con il trentennale della morte dello scrittore, avvenuta il 31 agosto 1986 all'ospedale di Treviso. I motivi per avvicinarci al fascicolo sono numerosi. Questo contiene infatti, oltre a una prima serie di scritti originali di autori contemporanei (Andrea Bajani, Giuseppe Montesano e Vitaliano Trevisan), una sezione di narrazioni inedite, una di "Luoghi scritti e reportage", ampi stralci di diari e carteggi (particolarmente significativo quello con Italo Calvino, per le questioni editoriali emergenti ma non solo) e raduna due sezioni di testi critici, già editi altrove ma anche inediti, progettati appositamente per questa pubblicazione. Le pagine sono intervallate da un apparato iconografico di foto e dalla "Galleria" di Giosetta Fioroni che chiude il volume. Nelle due sezioni di inediti parisiani spicca sicuramente la pubblicazione del romanzo inedito del 1977 intitolato La politica (trotto leggero). Dalla sezione dei "Luoghi scritti e reportage", per concessione gentile dei curatori, pubblico uno dei "Due frammenti inediti sull'America (1961)". Il primo è dedicato a New York mentre il secondo, che trovate di seguito, all'Arizona. Dopo il frammento trovate la breve nota di Dario Borso.
Da pochi giorni è in libreria il trentaseiesimo volume della rivista "Riga" dedicato a Goffredo Parise (Marcos y Marcos, pp. 544, euro 28, a cura di Marco Belpoliti e Andrea Cortellessa). La pubblicazione coincide con il trentennale della morte dello scrittore, avvenuta il 31 agosto 1986 all'ospedale di Treviso. I motivi per avvicinarci al fascicolo sono numerosi. Questo contiene infatti, oltre a una prima serie di scritti originali di autori contemporanei (Andrea Bajani, Giuseppe Montesano e Vitaliano Trevisan), una sezione di narrazioni inedite, una di "Luoghi scritti e reportage", ampi stralci di diari e carteggi (particolarmente significativo quello con Italo Calvino, per le questioni editoriali emergenti ma non solo) e raduna due sezioni di testi critici, già editi altrove ma anche inediti, progettati appositamente per questa pubblicazione. Le pagine sono intervallate da un apparato iconografico di foto e dalla "Galleria" di Giosetta Fioroni che chiude il volume. Nelle due sezioni di inediti parisiani spicca sicuramente la pubblicazione del romanzo inedito del 1977 intitolato La politica (trotto leggero). Dalla sezione dei "Luoghi scritti e reportage", per concessione gentile dei curatori, pubblico uno dei "Due frammenti inediti sull'America (1961)". Il primo è dedicato a New York mentre il secondo, che trovate di seguito, all'Arizona. Dopo il frammento trovate la breve nota di Dario Borso.
Arizona
di Goffredo Parise
(testo tratto da "Riga 36. Goffredo Parise", Marcos y Marcos, 2016)
Sulla grande autostrada che attraversa il deserto dell’Arizona, a 400
miglia da Albuquerque nel Nuovo Messico e a 300 da Las Vegas in Nevada,
improvvisamente, la rossa Chevrolet, ippogrifo del nuovo mondo, si ferma. Non
c’è benzina, per la terza volta da che si è iniziato questo viaggio, e sempre
per colpa mia, per mia pigrizia. La prima volta l’alato carro si fermò davanti
a un distributore, la seconda a poche miglia da una città e un camionista ci
regalò una tanica, la terza, questa, ci sorprende nel mezzo di un deserto. Ai
due lati dell’autostrada, giallo deserto di pietra, cactus, fallica
protuberanza di un terreno senza speranze, e ai due lati all’orizzonte fino a
congiungersi davanti ai nostri occhi, immenso anfiteatro, i profili delle
montagne da cui sale la notte. Non c’è nulla da fare. Non passa nessuno. Ci
mettiamo sulla strada, aspettiamo, mezz’ora, un’ora; si avvicina un enorme
camion da trasporti, transatlantico viaggiante su terra, con comignolo. Si
arresta. Il mio compagno di viaggio, che conosce l’inglese molto meglio di me,
sale con loro per fare qualcosa, per muoversi dall'immobilità, per accennare a
un moto verso luogo che in questo caso significa trecento miglia prima di
giungere ad una pompa di benzina. Attivo, e storico, di temperamento, egli
decide appunto di costruirsi l’avvenire con le proprie mani. Un poco meno
storico, io decido di rimanere ad attendere. Chi? Che cosa? Nulla, so bene che
attendere nel cuore dell’Arizona non può avere che un significato,
attendere che corvi aquile e sciacalli degustino me e l’ippogrifo Chevrolet, ma
così ho deciso; di seguire la mia apparente antistoria, cioè la pigrizia, il
non desiderio d’azione in un mondo (anche nell’Arizona) volto all’azione
nell’azione.
Vedo l’enorme transatlantico nerastro fumare via come un giocattolo nella retta matematica della strada, e scomparire, lui, i viventi e la storia medesima.
E resto così solo, nel cuore di questo deserto. Fumo qualche sigaretta nell’auto, poi scendo a fare quattro passi. Intanto il sole, sceso oltre le lontane annebbiate montagne, ha portato con sé gli ultimi bagliori di luce. E la notte scende rapidamente sull’infinita distesa di uno dei più bei paesaggi del mondo, il deserto. Con la notte salgono le stelle e la luna. Continuo a camminare tra i sassi, ascoltando i mille fruscii di animali che conosco, il fruscio delle biscie, di certi topolini che appena scorgo correre e nascondersi in certe buche dopo avermi osservato a lungo con un minuscolo bagliore d’occhi rossastri da dietro le spine di un cactus: altri versi, suoni infiniti di una natura che non conosco. Seguito il cammino. Guardo dietro di me in direzione della strada dove ho lasciato l’auto con i fari accesi. Sono lontani, molto di più di quanto non pensassi. E allora, quando il senso delle distanze reali, oggettive e non quelle interiori, che pur sono immense prende i suoi aspetti prospettici, allora mi vien voglia di continuare a camminare nel deserto, in direzione delle montagne. Cammino per qualche ora senza accorgermene. Solo, dopo questo tempo, quando volgo lo sguardo in direzione dell’autostrada, nord-est a giudicare dalle stelle, non vedo più i fari della Chevrolet. E inizia così, una edificante sensazione di solitudine assoluta, cioè di intensa riflessione, di dolore delle cose del mondo.
La luna illumina davanti a me la distesa di sassi e di cactus che proiettano una lunga ombra trasversale. Un poco più in là strane ombre, perforate dai raggi lunari, enormi crani, teschi che formano una collinetta. Mi avvicino a passo svelto. A mano a mano che le distanze si accorciano riconosco in quelle ombre carcasse di automobili, di autocarri, di pullmans. Abbandonate da anni e trasportate fin là chissà come. È una sorta di città defunta, a seconda delle dimensioni delle carrozzerie, può apparire all’occhio fantastico, non storico, non realistico, una defunta città futura. Mi aggiro tra le carrozzerie, in questo dedalo vastissimo, in questo gigantesco incidente automobilistico, tra le lamiere contorte, i vetri rotti, i sedili sfondati dell’inutile. Così osservando mi accorgo di non essere solo. Un gatto selvatico balza fuori da una finestra di pullman curvo, col pelo ritto, urlando. Subito seguito da una folla di gatti in fuga che corrono a nascondersi nelle forre, negli anfratti, nei buchi di quella montagna di lamiere contorte. Per qualche istante ancora silenzio, poi un miagolio diffuso, che sale dall’oscurità dei cofani, delle carrozzerie, dalla iuta delle imbottiture. Poi altre fughe, poi silenzio. Mi allontano.
Sono stanco e mi siedo. Non posso sdraiarmi perché il terreno è cosparso di sassi aguzzi, appuntiti e nemmeno un filo d’erba: secchi e infidi cespugli bruciati nascondono nell’erba la puntura mortale, dell’insetto mortale, che è lì; per me, creato apposta per me, per finire, per rendere una buona volta concluse nello stabile equilibrio le antinomie, i dubbi, i tentennamenti, i punti oscuri dell’essere mio. Mi alzo, cammino ancora in direzione della Chevrolet, che non vedo.
Nota
di Dario Borso
Vedo l’enorme transatlantico nerastro fumare via come un giocattolo nella retta matematica della strada, e scomparire, lui, i viventi e la storia medesima.
E resto così solo, nel cuore di questo deserto. Fumo qualche sigaretta nell’auto, poi scendo a fare quattro passi. Intanto il sole, sceso oltre le lontane annebbiate montagne, ha portato con sé gli ultimi bagliori di luce. E la notte scende rapidamente sull’infinita distesa di uno dei più bei paesaggi del mondo, il deserto. Con la notte salgono le stelle e la luna. Continuo a camminare tra i sassi, ascoltando i mille fruscii di animali che conosco, il fruscio delle biscie, di certi topolini che appena scorgo correre e nascondersi in certe buche dopo avermi osservato a lungo con un minuscolo bagliore d’occhi rossastri da dietro le spine di un cactus: altri versi, suoni infiniti di una natura che non conosco. Seguito il cammino. Guardo dietro di me in direzione della strada dove ho lasciato l’auto con i fari accesi. Sono lontani, molto di più di quanto non pensassi. E allora, quando il senso delle distanze reali, oggettive e non quelle interiori, che pur sono immense prende i suoi aspetti prospettici, allora mi vien voglia di continuare a camminare nel deserto, in direzione delle montagne. Cammino per qualche ora senza accorgermene. Solo, dopo questo tempo, quando volgo lo sguardo in direzione dell’autostrada, nord-est a giudicare dalle stelle, non vedo più i fari della Chevrolet. E inizia così, una edificante sensazione di solitudine assoluta, cioè di intensa riflessione, di dolore delle cose del mondo.
La luna illumina davanti a me la distesa di sassi e di cactus che proiettano una lunga ombra trasversale. Un poco più in là strane ombre, perforate dai raggi lunari, enormi crani, teschi che formano una collinetta. Mi avvicino a passo svelto. A mano a mano che le distanze si accorciano riconosco in quelle ombre carcasse di automobili, di autocarri, di pullmans. Abbandonate da anni e trasportate fin là chissà come. È una sorta di città defunta, a seconda delle dimensioni delle carrozzerie, può apparire all’occhio fantastico, non storico, non realistico, una defunta città futura. Mi aggiro tra le carrozzerie, in questo dedalo vastissimo, in questo gigantesco incidente automobilistico, tra le lamiere contorte, i vetri rotti, i sedili sfondati dell’inutile. Così osservando mi accorgo di non essere solo. Un gatto selvatico balza fuori da una finestra di pullman curvo, col pelo ritto, urlando. Subito seguito da una folla di gatti in fuga che corrono a nascondersi nelle forre, negli anfratti, nei buchi di quella montagna di lamiere contorte. Per qualche istante ancora silenzio, poi un miagolio diffuso, che sale dall’oscurità dei cofani, delle carrozzerie, dalla iuta delle imbottiture. Poi altre fughe, poi silenzio. Mi allontano.
Sono stanco e mi siedo. Non posso sdraiarmi perché il terreno è cosparso di sassi aguzzi, appuntiti e nemmeno un filo d’erba: secchi e infidi cespugli bruciati nascondono nell’erba la puntura mortale, dell’insetto mortale, che è lì; per me, creato apposta per me, per finire, per rendere una buona volta concluse nello stabile equilibrio le antinomie, i dubbi, i tentennamenti, i punti oscuri dell’essere mio. Mi alzo, cammino ancora in direzione della Chevrolet, che non vedo.
Nota
di Dario Borso
Durante il suo primo viaggio negli Stati Uniti, svoltosi tra il 20 marzo e
il 25 aprile 1961, Goffredo Parise scrisse un mazzetto di lettere all’amico
Vittorio Bonicelli, allora in forze come sceneggiatore presso la casa di
produzione cinematografica Dino De Laurentiis. Scopo non secondario delle
lettere, che sarebbero uscite postume trent’anni dopo per la Mondadori nella
raccolta Odore d’America,
era di suggerire spunti per un film americano di cui non si fece nulla. Parise
coltivò invece l’idea di farne un libro di viaggio a sé, come testimoniano due
frammenti conservati all’Archivio Parise di Ponte di Piave, che rielaborano due
lettere, rispettivamente da NY del 20 marzo e da Las Vegas del 12 aprile: il
primo segue abbastanza fedelmente l’originale, inserendo però all’inizio un
episodio nuovo di zecca che riporto qui sopra; il secondo riguarda lo stesso
episodio della lettera, variandone però radicalmente gli ingredienti, e perciò
lo riporto per intero.
Quanto alla data del rifacimento, posso avanzare solo un’ipotesi: poco dopo il rientro in Italia, basandomi su due elementi: Suor Bertilla Boscardin di Brendola (VI), cui s’accenna nel primo frammento, fu santificata l’11 maggio 1961 con gran risalto locale, e il momento topico dell’episodio nuovo lì inserito ricorda platealmente l’ultimo capitoletto degli Americani a Vicenza, scritto da Parise pochi anni prima.
Quanto alla data del rifacimento, posso avanzare solo un’ipotesi: poco dopo il rientro in Italia, basandomi su due elementi: Suor Bertilla Boscardin di Brendola (VI), cui s’accenna nel primo frammento, fu santificata l’11 maggio 1961 con gran risalto locale, e il momento topico dell’episodio nuovo lì inserito ricorda platealmente l’ultimo capitoletto degli Americani a Vicenza, scritto da Parise pochi anni prima.
venerdì 7 febbraio 2014
Brancusi fotografo
Chi ha visitato la casa di Goffredo Parise, non tanto lo spoglio buen retiro in golena del Piave a Salgareda, bensì l'altra, quella davanti alle scuole in paese a Ponte di Piave ("la prima vera casa o home della mia vita" scriveva contento nel 1984, a due anni dalla morte), si sarà aggrappato a determinati oggetti. Se uno ci arriva dopo aver letto delle sue discese sulla neve, una parte importante dei Sillabari, è probabile che si soffermi un po' davanti agli scarponi da sci, come è capitato a me (forse anche per deformazione lavorativa), oppure davanti a certi arredi (alle bianche poltrone!). Uscendo nel verde, in uno dei "due giardini" tra i quali la casa rossa si incastra, viene normale compiere il periplo della copia di "Mademoiselle Pogany", la statua di Costantin Brancusi. Mi sono spesso chiesto del perché di quella statua e del perché di Brancusi. Non che abbia trovato risposte illuminate al mio peregrinare interrogativo, tuttavia, sfogliando questo volume dedicato alle fotografie lasciate dallo stesso artista rumeno e pubblicato da Abscondita (Brancusi fotografo, pp. 153, euro 33, a cura di Paola Mola), mi pare ora di girare meglio anche per la casa che accolse Parise negli ultimi anni di vita e forse anche di girare meglio attorno a Mademoiselle Pogany.
A dire il vero, più che una circolarità, mi pare sia una una sorta di verticalità che spicca in questo lavoro fotografico, ad esempio nelle varie foto che l'artista dedica alla celebre "Colonna senza fine" oppure all'enigmatico "Uccello nello spazio". Le fotografie che Brancusi scatta ai propri lavori o a certe vedute dell'atelier parigino di Impasse Ronsin sono parte viva e non collaterale della sua arte. Fotografia e scultura diventano davvero due facce che non si possono delaminare, due sostantivi che si declinano nello stesso caso, genere e numero. L'artista contadino nato nel 1876 nel villaggio rumeno di Hobiţa, al cospetto dei Carpazi, non amava spiegare il proprio lavoro sulla materia (legno, alabastro, marmo, bronzo, gesso, tanto gesso, chiodi ecc). In fondo la consapevolezza di un artista, anche quella teorica, a patto che ci sia davvero, si può spiegare nei modi più disparati, non necessariamente con tomi vergati magari da tediosa speculazione. E a suo dire, bastavano le fotografie che egli stesso dedicava alle sue creazioni per "spiegare" il suo lavoro d'artista. Pensando anche alla centralità che occupano i nomi/titoli delle sue opere, e da egli stesso sottolineata in alcuni aforismi, la scultura fotografata diventa un nome e un titolo (s)colpito e sostanziato dalla luce. Quando ritrae "Leda", Brancusi dimostra un approccio addirittura cinematografico. Quest'insieme di foto radunate da Abscondita e da Paola Mola diventa allora importante per addentrarsi persino nel non trascurabile rapporto tra forma e piedistallo delle sue opere. Brancusi lavorò molto anche su questo aspetto, e tutto ciò emerge bene da questo nucleo di foto, e in tutto questo possiamo ravvisare anche un'eco prolungata di quel discorso che uno dei più importanti scrittori amici, Ezra Pound, fece sull'accumulo delle forme che percorre trasversalmente l'intera sua opera.
Diceva Costantin Brancusi che la scultura è "l'acqua, l'acqua". Sicuramente qualcosa della levigazione dell'acqua è riposto nel suo magazzino di forme. L'atelier stesso è ritratto in momenti diversi, da angolature e altezze nuove ogni volta, immerso in luci diverse. Non c'è tormento creativo in Brancusi, c'è gioia, e ripenso che anche questo aspetto mi riporta a Parise. Eppure è preservata integra la tragicità di quelle "apparizioni larvali" (Montale) che, dalla "Musa addormentata" al "Bacio", riservano - almeno per me - anche etruschi rimandi con il lavoro quasi coevo di Arturo Martini. E non c'è l'incompleto o il non-finito nella sua scultura: la forma deve riposare nella materia (per questo la fotografia?). E allora ritorna l'interrogativo che personalmente trovo sempre più affascinante: quando un'opera d'arte è detta/pensata conclusa? Questa è la domanda che vorrei spesso fare ad ogni artista, ai poeti. Non è tanto l'inizio che interessa, l'attacco, neanche in una poesia, ma diventa molto più interessante capire quando una poesia si ritiene conclusa, finita. E queste forme di Brancusi che riposano, riposano spesso in un colore, quello che assomma in sé la luce, il bianco, riverberato dalla presenza diffusa di un materiale tradizionale e in fondo scolastico come il gesso, anche per terra e nell'aria, nell'atelier, o persino nei suoi cani somoiedi bianchi alimentati a latte bianco in una ciotola bianca. Costantin Brancusi fu anche tutto questo, scultore-fotografo e scultore-scrittore (scultura e scrittura condividono radici linguistiche, scrab e scar).
Il volume di Abscondita curato da Paola Mola raccoglie in chiusura interventi di Ezra Pound, Michael Middleton, Paul Morand, Eugenio Montale (in una veste di timido reporter accolto nell'atelier e invitato pure, a tempo debito, ad andarsene), Henri-Pierre Roché e Man Ray. Ricordo inoltre che negli ultimi tempi s'è rivisto in libreria pure il diaciannovesimo numero della rivista "Riga" dedicato all'artista, meritorio progetto monografico a cura di Marco Belpoliti e Elio Grazioli, uscito anni fa e ora riproposto in edizione ampliata, sempre dall'editore Marcos y Marcos. Sono tutti brani fondamentali per ricostruire la bibliografia italiana su Costantin Brancusi. Nel volume di Marcos y Marcos troverete, tra gli altri, anche un prezioso contributo di Rosalind E. Krauss, poesie di Jean Arp, altri saggi (ricordo John Berger, Mircea Eliade, Michel Frizot, Sidney Geist, Ettore Sottsass) e "interventi visivi" di Aurelio Andrighetto, Dario Bellini e della stessa Paola Mola.
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Colonna senza fine |
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Uccello nello spazio |
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Il numero 19 di "Riga" |
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