Da pochi giorni è in libreria il trentaseiesimo volume della rivista "Riga" dedicato a Goffredo Parise (Marcos y Marcos, pp. 544, euro 28, a cura di Marco Belpoliti e Andrea Cortellessa). La pubblicazione coincide con il trentennale della morte dello scrittore, avvenuta il 31 agosto 1986 all'ospedale di Treviso. I motivi per avvicinarci al fascicolo sono numerosi. Questo contiene infatti, oltre a una prima serie di scritti originali di autori contemporanei (Andrea Bajani, Giuseppe Montesano e Vitaliano Trevisan), una sezione di narrazioni inedite, una di "Luoghi scritti e reportage", ampi stralci di diari e carteggi (particolarmente significativo quello con Italo Calvino, per le questioni editoriali emergenti ma non solo) e raduna due sezioni di testi critici, già editi altrove ma anche inediti, progettati appositamente per questa pubblicazione. Le pagine sono intervallate da un apparato iconografico di foto e dalla "Galleria" di Giosetta Fioroni che chiude il volume. Nelle due sezioni di inediti parisiani spicca sicuramente la pubblicazione del romanzo inedito del 1977 intitolato La politica (trotto leggero). Dalla sezione dei "Luoghi scritti e reportage", per concessione gentile dei curatori, pubblico uno dei "Due frammenti inediti sull'America (1961)". Il primo è dedicato a New York mentre il secondo, che trovate di seguito, all'Arizona. Dopo il frammento trovate la breve nota di Dario Borso.
Arizona
di Goffredo Parise
(testo tratto da "Riga 36. Goffredo Parise", Marcos y Marcos, 2016)
Sulla grande autostrada che attraversa il deserto dell’Arizona, a 400
miglia da Albuquerque nel Nuovo Messico e a 300 da Las Vegas in Nevada,
improvvisamente, la rossa Chevrolet, ippogrifo del nuovo mondo, si ferma. Non
c’è benzina, per la terza volta da che si è iniziato questo viaggio, e sempre
per colpa mia, per mia pigrizia. La prima volta l’alato carro si fermò davanti
a un distributore, la seconda a poche miglia da una città e un camionista ci
regalò una tanica, la terza, questa, ci sorprende nel mezzo di un deserto. Ai
due lati dell’autostrada, giallo deserto di pietra, cactus, fallica
protuberanza di un terreno senza speranze, e ai due lati all’orizzonte fino a
congiungersi davanti ai nostri occhi, immenso anfiteatro, i profili delle
montagne da cui sale la notte. Non c’è nulla da fare. Non passa nessuno. Ci
mettiamo sulla strada, aspettiamo, mezz’ora, un’ora; si avvicina un enorme
camion da trasporti, transatlantico viaggiante su terra, con comignolo. Si
arresta. Il mio compagno di viaggio, che conosce l’inglese molto meglio di me,
sale con loro per fare qualcosa, per muoversi dall'immobilità, per accennare a
un moto verso luogo che in questo caso significa trecento miglia prima di
giungere ad una pompa di benzina. Attivo, e storico, di temperamento, egli
decide appunto di costruirsi l’avvenire con le proprie mani. Un poco meno
storico, io decido di rimanere ad attendere. Chi? Che cosa? Nulla, so bene che
attendere nel cuore dell’Arizona non può avere che un significato,
attendere che corvi aquile e sciacalli degustino me e l’ippogrifo Chevrolet, ma
così ho deciso; di seguire la mia apparente antistoria, cioè la pigrizia, il
non desiderio d’azione in un mondo (anche nell’Arizona) volto all’azione
nell’azione.
Vedo l’enorme transatlantico nerastro fumare via come un giocattolo nella retta matematica della strada, e scomparire, lui, i viventi e la storia medesima.
E resto così solo, nel cuore di questo deserto. Fumo qualche sigaretta nell’auto, poi scendo a fare quattro passi. Intanto il sole, sceso oltre le lontane annebbiate montagne, ha portato con sé gli ultimi bagliori di luce. E la notte scende rapidamente sull’infinita distesa di uno dei più bei paesaggi del mondo, il deserto. Con la notte salgono le stelle e la luna. Continuo a camminare tra i sassi, ascoltando i mille fruscii di animali che conosco, il fruscio delle biscie, di certi topolini che appena scorgo correre e nascondersi in certe buche dopo avermi osservato a lungo con un minuscolo bagliore d’occhi rossastri da dietro le spine di un cactus: altri versi, suoni infiniti di una natura che non conosco. Seguito il cammino. Guardo dietro di me in direzione della strada dove ho lasciato l’auto con i fari accesi. Sono lontani, molto di più di quanto non pensassi. E allora, quando il senso delle distanze reali, oggettive e non quelle interiori, che pur sono immense prende i suoi aspetti prospettici, allora mi vien voglia di continuare a camminare nel deserto, in direzione delle montagne. Cammino per qualche ora senza accorgermene. Solo, dopo questo tempo, quando volgo lo sguardo in direzione dell’autostrada, nord-est a giudicare dalle stelle, non vedo più i fari della Chevrolet. E inizia così, una edificante sensazione di solitudine assoluta, cioè di intensa riflessione, di dolore delle cose del mondo.
La luna illumina davanti a me la distesa di sassi e di cactus che proiettano una lunga ombra trasversale. Un poco più in là strane ombre, perforate dai raggi lunari, enormi crani, teschi che formano una collinetta. Mi avvicino a passo svelto. A mano a mano che le distanze si accorciano riconosco in quelle ombre carcasse di automobili, di autocarri, di pullmans. Abbandonate da anni e trasportate fin là chissà come. È una sorta di città defunta, a seconda delle dimensioni delle carrozzerie, può apparire all’occhio fantastico, non storico, non realistico, una defunta città futura. Mi aggiro tra le carrozzerie, in questo dedalo vastissimo, in questo gigantesco incidente automobilistico, tra le lamiere contorte, i vetri rotti, i sedili sfondati dell’inutile. Così osservando mi accorgo di non essere solo. Un gatto selvatico balza fuori da una finestra di pullman curvo, col pelo ritto, urlando. Subito seguito da una folla di gatti in fuga che corrono a nascondersi nelle forre, negli anfratti, nei buchi di quella montagna di lamiere contorte. Per qualche istante ancora silenzio, poi un miagolio diffuso, che sale dall’oscurità dei cofani, delle carrozzerie, dalla iuta delle imbottiture. Poi altre fughe, poi silenzio. Mi allontano.
Sono stanco e mi siedo. Non posso sdraiarmi perché il terreno è cosparso di sassi aguzzi, appuntiti e nemmeno un filo d’erba: secchi e infidi cespugli bruciati nascondono nell’erba la puntura mortale, dell’insetto mortale, che è lì; per me, creato apposta per me, per finire, per rendere una buona volta concluse nello stabile equilibrio le antinomie, i dubbi, i tentennamenti, i punti oscuri dell’essere mio. Mi alzo, cammino ancora in direzione della Chevrolet, che non vedo.
Nota
di Dario Borso
Vedo l’enorme transatlantico nerastro fumare via come un giocattolo nella retta matematica della strada, e scomparire, lui, i viventi e la storia medesima.
E resto così solo, nel cuore di questo deserto. Fumo qualche sigaretta nell’auto, poi scendo a fare quattro passi. Intanto il sole, sceso oltre le lontane annebbiate montagne, ha portato con sé gli ultimi bagliori di luce. E la notte scende rapidamente sull’infinita distesa di uno dei più bei paesaggi del mondo, il deserto. Con la notte salgono le stelle e la luna. Continuo a camminare tra i sassi, ascoltando i mille fruscii di animali che conosco, il fruscio delle biscie, di certi topolini che appena scorgo correre e nascondersi in certe buche dopo avermi osservato a lungo con un minuscolo bagliore d’occhi rossastri da dietro le spine di un cactus: altri versi, suoni infiniti di una natura che non conosco. Seguito il cammino. Guardo dietro di me in direzione della strada dove ho lasciato l’auto con i fari accesi. Sono lontani, molto di più di quanto non pensassi. E allora, quando il senso delle distanze reali, oggettive e non quelle interiori, che pur sono immense prende i suoi aspetti prospettici, allora mi vien voglia di continuare a camminare nel deserto, in direzione delle montagne. Cammino per qualche ora senza accorgermene. Solo, dopo questo tempo, quando volgo lo sguardo in direzione dell’autostrada, nord-est a giudicare dalle stelle, non vedo più i fari della Chevrolet. E inizia così, una edificante sensazione di solitudine assoluta, cioè di intensa riflessione, di dolore delle cose del mondo.
La luna illumina davanti a me la distesa di sassi e di cactus che proiettano una lunga ombra trasversale. Un poco più in là strane ombre, perforate dai raggi lunari, enormi crani, teschi che formano una collinetta. Mi avvicino a passo svelto. A mano a mano che le distanze si accorciano riconosco in quelle ombre carcasse di automobili, di autocarri, di pullmans. Abbandonate da anni e trasportate fin là chissà come. È una sorta di città defunta, a seconda delle dimensioni delle carrozzerie, può apparire all’occhio fantastico, non storico, non realistico, una defunta città futura. Mi aggiro tra le carrozzerie, in questo dedalo vastissimo, in questo gigantesco incidente automobilistico, tra le lamiere contorte, i vetri rotti, i sedili sfondati dell’inutile. Così osservando mi accorgo di non essere solo. Un gatto selvatico balza fuori da una finestra di pullman curvo, col pelo ritto, urlando. Subito seguito da una folla di gatti in fuga che corrono a nascondersi nelle forre, negli anfratti, nei buchi di quella montagna di lamiere contorte. Per qualche istante ancora silenzio, poi un miagolio diffuso, che sale dall’oscurità dei cofani, delle carrozzerie, dalla iuta delle imbottiture. Poi altre fughe, poi silenzio. Mi allontano.
Sono stanco e mi siedo. Non posso sdraiarmi perché il terreno è cosparso di sassi aguzzi, appuntiti e nemmeno un filo d’erba: secchi e infidi cespugli bruciati nascondono nell’erba la puntura mortale, dell’insetto mortale, che è lì; per me, creato apposta per me, per finire, per rendere una buona volta concluse nello stabile equilibrio le antinomie, i dubbi, i tentennamenti, i punti oscuri dell’essere mio. Mi alzo, cammino ancora in direzione della Chevrolet, che non vedo.
Nota
di Dario Borso
Durante il suo primo viaggio negli Stati Uniti, svoltosi tra il 20 marzo e
il 25 aprile 1961, Goffredo Parise scrisse un mazzetto di lettere all’amico
Vittorio Bonicelli, allora in forze come sceneggiatore presso la casa di
produzione cinematografica Dino De Laurentiis. Scopo non secondario delle
lettere, che sarebbero uscite postume trent’anni dopo per la Mondadori nella
raccolta Odore d’America,
era di suggerire spunti per un film americano di cui non si fece nulla. Parise
coltivò invece l’idea di farne un libro di viaggio a sé, come testimoniano due
frammenti conservati all’Archivio Parise di Ponte di Piave, che rielaborano due
lettere, rispettivamente da NY del 20 marzo e da Las Vegas del 12 aprile: il
primo segue abbastanza fedelmente l’originale, inserendo però all’inizio un
episodio nuovo di zecca che riporto qui sopra; il secondo riguarda lo stesso
episodio della lettera, variandone però radicalmente gli ingredienti, e perciò
lo riporto per intero.
Quanto alla data del rifacimento, posso avanzare solo un’ipotesi: poco dopo il rientro in Italia, basandomi su due elementi: Suor Bertilla Boscardin di Brendola (VI), cui s’accenna nel primo frammento, fu santificata l’11 maggio 1961 con gran risalto locale, e il momento topico dell’episodio nuovo lì inserito ricorda platealmente l’ultimo capitoletto degli Americani a Vicenza, scritto da Parise pochi anni prima.
Quanto alla data del rifacimento, posso avanzare solo un’ipotesi: poco dopo il rientro in Italia, basandomi su due elementi: Suor Bertilla Boscardin di Brendola (VI), cui s’accenna nel primo frammento, fu santificata l’11 maggio 1961 con gran risalto locale, e il momento topico dell’episodio nuovo lì inserito ricorda platealmente l’ultimo capitoletto degli Americani a Vicenza, scritto da Parise pochi anni prima.
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