La guerra civile americana, che imperversò tra il 1861 e il 1865, fece più di 600.000 morti. È un dato impressionante, sul quale non si ritorna mai a sufficienza. Ci sono i presupposti per dire che la "morte di massa", categoria che fu impiegata per la prima volta per la Prima guerra mondiale da Pierre Chaunu, ebbe un prodromo rilevante anche in quel conflitto. Ed è curioso che il libro più celebre su quel conflitto non sia stato scritto da chi ne ebbe esperienza diretta, ma da quello Stephen Crane che nacque a Newark nel 1871 e morì per le complicazioni della tisi in un sanatorio della Foresta Nera nel 1900. The Red Badge of Courage, uscito nel 1894, ebbe infatti da subito un impatto straordinario e un successo enorme. Chi di quella guerra aveva esperienze e lo lesse rimase impressionato: come poteva una persona nata sei anni dopo la fine del conflitto ricreare con grande rigore e vividezza la situazione fisica, psicologica e anche paesaggistica di un battaglione di soldati? come era possibile farlo seguendo prevalentemente il profilo del protagonista, "il giovane" (come lo chiama il narratore) "Henry Fleming" (come lo chiama qualche commilitone). Un'analisi dell'opera in odore di strutturalismo indugerebbe ancora sulla coppia antitetica data da coraggio e paura, l'asse su cui effettivamente scorre l'opera. Sappiamo, non sono più tempi buoni per lo strutturalismo, anche se non sarà tutto da buttare quello che ha portato. Comunque, per quanto il titolo parli di "coraggio", bisognerà dire che questo resta un grande libro, un classico, sulla paura di guerra, come potrebbe essere, nel caso della Prima guerra mondiale, la novella intitolata proprio La paura di Federico De Roberto (che curiosamente come Crane non fu combattente).
Il libro di Stephen Crane conta ormai diverse traduzioni in italiano, quasi tutte rese con lo stesso titolo (fa eccezione la prima di Bruno Fonzi del 1947: Rosso è l'emblema del coraggio). Vi si sono cimentati in molti insomma, da Giulio Bollati a Gaetano e Giacomo Prampolini, e tra questi si registra anche il caso di Luciano Bianciardi. Non stupisce trovare il nome dello scrittore grossetano tra i traduttori di Crane, considerato il suo interesse per l'Ottocento, per quel periodo storico, per Garibaldi. In questi mesi di ritorno bianciardiano (pensiamo al recente volumone Il cattivo profeta. Romanzi, racconti, saggi e diari pubblicato da Il Saggiatore), la casa editrice SE ripropone nella collana "Assonanze" la traduzione bianciardiana de Il segno rosso del coraggio apparsa per Mondadori nel 1966 e nel 1976 (pp. 160, euro 20, revisione di Luciana Bianciardi). Il libro, che in quanto classico non necessita di troppi cenni alla trama né rischia cedimenti in spoiler pesantemente sanzionati, può rappresentare una lettura diramata su più fronti: al di là dell'eccezionale testimonianza-senza-testimonianza che si trovò a rappresentare questo titolo di Crane, ci troviamo di fronte a uno dei casi di "realismo" di fine Ottocento che più fece discutere. Al centro vi è sia la questione psicologica, sia quella descrittiva e mimetica, come in tutto ciò che riporta a parlare di realismo. Discorsi di gloria, brandelli di eroismo, un'enorme paura, la vergogna e infine il coraggio sono gli stadi sui quali Crane ha dipinto le campate di questo moderno romanzo sulla solitudine di guerra. Immagino si sia già operato in tal senso, ma credo che un raffronto tra l'opera di Crane e la successiva fiumana di scrittura prodotta dalla Prima guerra mondiale possa portare a proficue osservazioni. E la traduzione di Bianciardi, nonostante il mezzo secolo abbondante sulle spalle, non è così invecchiata, anzi. Considerando la velocità alla quale sono invecchiate alcune traduzioni coeve di altri libri, magari anche di autori americani, verrebbe quasi da parlare di un prodigio bianciardiano.
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