lunedì 29 settembre 2014

da "Tutte le poesie" di Edoardo Cacciatore

Una poesia da #43


Nomen omen. Edoardo Cacciatore (Palermo, 1912 - Roma, 1996) rimane ancor oggi, a quasi vent'anni dalla morte, un poeta cacciatore. Scusate questa banalità, così telefonata in sede introduttiva, ma non troverei un modo più semplice per avviare questo breve post dedicato alla poesia di questo semidimenticato del Novecento, del quale l'editore Manni rende ancora disponibili le poesie in un unico volume intitolato Tutte le poesie (pp. 672, euro 30, a cura e con presentazione di Giorgio Patrizi, all'interno della collana curata da Romano Luperini). Il compito di illustrare la sua poesia mi è precluso, ma le intenzioni che per me mettono in opera simili brevissimi post sono circa le seguenti: 1) rimettere in circolo da questo spazio comunque appartato e non rilevante un nome di un poeta che pare scomparso: è comunque un inizio; 2) provocare ovvero provocare sia reazioni, se ve ne sono, ma anche essere provocatorio contro la sicumera diffusa attorno al sapere cosa sia o non sia poesia oggi; 3) tradizione, tradizione, tradizione e tradizione e non lo scrivo quattro volte per essere conservatore, anche se essere conservatori è pur sempre un'opzione filosofica e epistemologica rispettabile che dobbiamo provare a comprendere, tanto più in poesia, un'opzione che quasi paradossalmente hanno meglio presente i poeti che fanno vera ricerca e vera caccia. Lo scrivo quattro volte perché non possiamo pensare di fare poesia senza desiderare di conoscere la tradizione di Tasso, Poliziano, Parini e aggiungo - non a caso scrivendo di Cacciatore - di tutta la nostra lirica manierista; parimenti poi non possiamo nemmeno pensare che conoscerla sia un viatico per essere poeti, anzi, ma questo è fin troppo ovvio forse; 4) io credo che avendo chiari questi punti sia allora possibile riconoscere che i percorsi della poesia non sono mai autostrade o linee ad alta velocità, ma sempre più spesso sentieri mal tracciati o addirittura fiumi carsici e anche quando paiono linee ad alta velocità (come pareva la linea lombarda?) è più saggio percorrerle con un turistico e quasi irrispettoso passo, lentamente, lasciando una bava di lumaca o, meglio ancora, addirittura stando fermi a osservare tutto da sopra un viadotto o a cavalcioni di un guardrail. Edoardo Cacciatore oggi mi ha aiutato a dire di tutto ciò. Non so se sarebbe contento. Probabilmente no. Ma è così che si va a caccia, coi pensieri del mattino presto e chi potrà mai dire se fu proprio cacciando che si registrarono le prime manifestazioni di quella che chiamarono poesia. Ma poi scusatemi: vi interessa così tanto il problema dell'origine della poesia?



Il testo che segue è tratto da La puntura dell'assillo: cinquanta ed un sonetto pubblicato a Milano da Società di poesia nel 1986 con una prefazione di Alfredo Giuliani.

XXXVII
Smania è il pensiero

Per quanto l'astuzia il rigore pareggi
Nel mettere in orbita audacia di razzi
L'assillo che punge può più - in beccheggi
Di slanci e di transiti ormai tu ti spiazzi
In corpo ci sei ma non avvantaggi
Quell'area esule sempre sul piede
D'imporre al sorpasso accedente viaggi
In cui minimizzi la gretta tua sede
Insisti e l'assillo ha preso il tuo posto
Molteplice pensi ed i sensi pedestri
Già pèrdono alluzzo ancor più discosto
Ti esoneri esòrbiti in smania di estri
-----Senz'orbita ormai assai volentieri
-----Tu calcoli e scòrpori ubiquo i pensieri.

venerdì 26 settembre 2014

Andrea Zanzotto: la natura, l’idioma. Il convegno internazionale a Pieve di Soligo, Solighetto e Cison di Valmarino dal 10 al 12 ottobre 2014

Il libro con gli atti che seguiranno uscirà per le edizioni Canova presumibilmente entro la fine dell'anno. Si tratta del primo convegno internazionale che l'Italia dedica ad Andrea Zanzotto (Pieve di Soligo, 10 ottobre 1921 – Conegliano, 18 ottobre 2011) a tre anni dalla morte e avrà luogo a Pieve di Soligo, Solighetto e Cison di Valmarino dal 10 al 12 ottobre 2014. Ricopio qui sotto il programma dei tre giorni.


Andrea Zanzotto
la natura, l’idioma
Convegno internazionale

Pieve di Soligo (TV)
Biblioteca Comunale, Auditorium “Battistella-Moccia” 
(P.zza Vittorio Emanuele II, 9)

Solighetto (TV)
Locanda da Lino 
(Via Roma, 19)

Cison di Valmarino (TV)
Teatro Comunale “La Loggia” 
(Piazza Roma, 9)

10, 11, 12 ottobre 2014

A cura del Dipartimento di Filologia Classica e Italianistica
dell’Università di Bologna

(Rinvio anche a questo link per il file PDF con il programma completo)

Comitato scientifico
Stefano Agosti (Università Ca’ Foscari di Venezia)
Francesco Carbognin (Università di Bologna), Coordinatore
Michele Cortelazzo (Università di Padova)
Maria Antonietta Grignani (Università di Pavia)
Niva Lorenzini (Università di Bologna)
Silvana Tamiozzo Goldmann (Università Ca’ Foscari di Venezia)


Segreteria organizzativa e informazioni
Marisa Michieli Zanzotto
Francesco Carbognin

e-Mail: francesco.carbognin@unibo.it

Aggiornamenti:
http://www.ficlit.unibo.it/eventi
https://www.facebook.com/events/361612307336850


Programma 

venerdì 10 ottobre

Pieve di Soligo (TV)
– Biblioteca Comunale, Auditorium “Battistella-Moccia”
ore 9.30

 
Coordina Niva Lorenzini (Università di Bologna)
Marzio Breda (“Corriere della Sera”), Poesia come profezia: la continua riscoperta di Zanzotto
Francesco Carbognin (Università di Bologna), «Napalm dietro il paesaggio»
Luigi Perissinotto (Università Ca’ Foscari di Venezia), Che cos'è la natura? Un confronto filosofico con la poesia di Andrea Zanzotto
Umberto Curi (Università di Padova), Sul concetto di natura


Pausa caffè


Coordina Marzio Breda (“Corriere della Sera”)
Niva Lorenzini (Università di Bologna), Parola e silenzio
Nico Stringa (Università Ca’ Foscari di Venezia), Andrea e gli artisti (con una postilla “indiaéto”)
Francesco Vallerani (Università Ca’ Foscari di Venezia), Agire poetico e produzione di paesaggio: ecologia letteraria in Andrea Zanzotto
Cesare De Michelis (Università di Padova), Zanzotto: Dietro il paesaggio
 

Solighetto (TV) - Locanda da Lino
ore 14.30

 
Coordina Francesco Carbognin (Università di Bologna)
Francesco Zambon (Università di Trento), Le pietre che gridano di Andrea Zanzotto
Giulio Ferroni (Sapienza - Università di Roma), «Veglio in iperacusia»: Andrea in ascolto
Maurizio Cucchi (Poeta e Critico), Zanzotto precursore
Gian Mario Villalta (Poeta e Critico), In te un parlar che l'à la dh e la th. Con Andrea Zanzotto, due anni dopo (2013)
Stefano Dal Bianco (Università di Siena), Appunti sull’ultimo Zanzotto


Pausa caffè


Coordina Francesco Zambon (Università di Trento)
Claudio Ambrosini (Compositore e Direttore d’orchestra), «’l pien e ’l vódo dela testa-tera»
Silvana Tamiozzo Goldmann (Università Ca’ Foscari di Venezia), Dai Fondi veneziani CISVe: Zanzotto, Carlo Della Corte e i Novissimi
Maria Antonietta Grignani (Università di Pavia), Immagini dall'archivio Zanzotto del Centro Manoscritti di Pavia


ore 19.00
Patrizia Valduga
Lettura di poesie di Andrea Zanzotto


ore 21.00

 
Coro Montecimon (direttore Paolo Vian) – Corale Barbisano (direttore Rinaldo Padoin): esecuzione di musiche di Roberto Padoin su poesie di Andrea Zanzotto, con un intervento del compositore.


Sabato 11 ottobre
 
ore 9.00 - 13.00

 
Visita ai luoghi zanzottiani
Partenza: Solighetto, Locanda da Lino; presentarsi automuniti. Nel corso della visita, si terranno letture di poesie di Andrea Zanzotto eseguite da Giuliano Scabia e da Pierluigi Tomasi

 
Cison di Valmarino (TV) - Teatro Comunale “La Loggia”


ore 14.30-19.00

 
Coordina Niva Lorenzini (Università di Bologna)
Andrea Cortellessa (Università Roma Tre), Sotto la pelle della lingua
Roberto Cicala (Università Cattolica di Milano), Zanzotto «in su la cima». Gli esordi in Mondadori nella corrispondenza editoriale con Sereni
Luigi Reitani (Università di Udine), Sovrimpressioni: Andrea Zanzotto legge Hölderlin e Celan
Giuseppe Sandrini (Università di Verona), Scrittura epistolare e scrittura poetica: le lettere a Sereni
Massimo Natale (Università di Verona), Commentare Zanzotto: un esercizio di lettura
Raffaella Scarpa (Università di Torino), «La memoria è nella lingua»
Mario Santagostini (Poeta e Critico), Le note ai testi


Pausa caffè


Coordina Andrea Cortellessa (Università Roma Tre)
Giorgio Tinazzi (Università di Padova), Zanzotto e il cinema: «al grop che è pi scondést de noialtri stessi»
Matteo Giancotti (Università di Padova), Versi di 'matricola'. Sulla prima fase della poesia zanzottiana
Denis Brotto (Università di Padova), Barene. Materiali e pensieri sparsi per un documentario
Giovanna Frene (Poeta e Critico), «Mai mancante neve di metà maggio»: aspetti stilistici nella poesia dell'ultimo Zanzotto
Alberto Cellotto (Poeta e Critico), Una fantasia di avvicinamento a Gli sguardi i fatti e Senhal
Tecla Gaio (Liceo Statale “G. Bagatta” - Desenzano), Alcune note sull'ultimo Zanzotto
Costanza Lunardi (Giornalista), Nel Kēpos della poesia


domenica 12 ottobre

Solighetto (TV)
- Locanda da Lino


ore 9.30

 
Testimonianze
Adriana Guarnieri (Università Ca’ Foscari di Venezia)
Guido Tonietto (Medico)
Luciano Cecchinel (Poeta e Critico)
Nico Naldini (Poeta e Critico)


ore 12.00


Riconoscimento “Andrea Zanzotto” per l’impegno nella tutela dell’ambiente
Premiati: Marzio Breda (Giornalista e Critico); Istituto Comprensivo Statale Vittorio Veneto 2 “A. Zanzotto”; Istituto Comprensivo Statale di Caneva (PN) “A. Zanzotto”; Scuola Primaria Contà di Pieve di Soligo

 
L’opera del Maestro Pino Castagna sarà consegnata da Stefano Soldan (Sindaco del Comune di Pieve di Soligo) e dal Coordinatore del Comitato Scientifico Francesco Carbognin (Università di Bologna).

mercoledì 24 settembre 2014

"Dove sei Mathias?" e "Line, il tempo" di Ágota Kristóf

Riletture di classici o quasi classici (dentro o fuori catalogo) #23

Dove sei Mathias? (pp. 51, euro 8, traduzione di Maurizia Balmelli, ancora disponibile) non è certo una novità editoriale, ma è forse uno di quei libri fuoriusciti dai circuiti principali di lettura di questa scrittrice naturalizzata svizzera e nata in Ungheria, della quale ho scritto anche qui, molto tempo fa. Il librino edito da Casagrande raccoglie due testi, entrambi calati nel mondo dell'infanzia ma entrambi proiettati oltre. Il primo è il racconto che dà il titolo al volume e attraversa i modi di Ágota Kristóf che ritroveremo nei libri della notorietà. Il secondo testo, splendido, è la breve pièce teatrale intitolata Line, il tempo del 1978. Un testo semplicissimo quest'ultimo, dalla struttura esile quasi evanescente, diviso in due parti con un'ellissi temporale di dieci anni nel mezzo. Line e Marc, i due protagonisti, dialogano nella prima parte quando lui ha 22 anni e lei soltanto 12. Lei lo ama, lo osserva mentre sta seduto al parco a inseguire con lo sguardo un'altra donna (che poi sposerà e dalla quale divorzierà). Marc non ha tempo e occhi per Line, è troppo piccola. In questa prima parte della pièce i due protagonisti parlano di amore, di tempo, di età in un dialogo serrato che poi riprende a parti invertite dopo il vuoto dei dieci anni. I due si ritrovano quindi nello stesso parco, siamo nella seconda parte. Line ha ora 22 anni e Marc 32; lui è tornato, è stato via, lontano. La strategia di Ágota Kristóf prevede un'inversione pressoché totale, accorgimento narrativo tanto semplice quanto ricco di conseguenze. Ora è Caroline (Line era un'abbreviazione del nome poi abbandonata) che è seduta su quella panchina ed è Marc che forse pensa di amarla. Lui però è diventato troppo vecchio e anche se lei lo ha sognato a lungo e ha sognato il suo ritorno, la pièce si chiude con il desiderio di (Caro)Line di non rivederlo mai più. 

Raccontare la struttura di questa pièce significa forse banalizzarla. Si sta prima a leggerla. Ma come intuite Line, il tempo è un testo di una semplicità che disarma, e che tuttavia prova a dire (anzi, prova a farsi raccontare) meglio di un grosso tomo qualcosa sull'amore, sul tempo, sul modo in cui siamo e diventiamo a nostra volta narrazione, racconto e desiderio, e su come questo divenire abbia a che fare con il tempo e con l'amore, nello stesso identico spazio, addirittura sulla stessa panchina. Racconta di come tutto ciò abbia a che fare con immanenza e trascendenza in ugual misura. E allora non sappiamo se il tempo, l'amore e lo spazio siano una linea, come la traduzione inglese del soprannome della protagonista, se siano un cerchio (com'è circolare la storia messa in scena) o se coincidano addirittura con l'ellisse fra i loro incontri. Fuori e dentro metafora: ellisse come luogo dei punti del piano per i quali è costante la somma delle distanze da due punti assegnati detti fuochi, ellisse come orbita descritta da un moto di rivoluzione di un corpo celeste nello spazio, ellisse etimologicamente intesa come "mancanza" e infine ellisse come la sola figura geometrico-retorica di cui disponiamo per dire il tempo e la sua assenza, le intermittenze ma soprattutto il desiderio.

lunedì 22 settembre 2014

Una poesia inedita di Klaus Miser


"al cor gentil ratto s'apprende" è il titolo dello spazio che Librobreve dedica alle poesie inedite. Qui si ospitano testi che probabilmente andranno a costruire nuovi libri di poesia. Si propone come rubrica di solo testo, priva di foto glamour degli autori. L'unica immagine rimarrà quella del ratto qui sopra, identificativa di ogni post, un portafortuna che dedico agli ospiti. La pubblicazione avviene su invito e pertanto non ha senso inviare i propri testi all'autore del blog se non vi è stato prima un dialogo e accordo tra Alberto e chi ha scritto le poesie. Non ho previsto commenti o preamboli ai testi. I lettori invece possono commentare.

Pubblico un solo testo di Klaus Miser


là dove la pioggia
libera la pianura

basse le strade
basso il bianco basso il pervinca basso il moderno
ma plastica la sera viola
la disperazione prefabbricata
il desiderio duttile

la morfologia pianeggiante
esclude fenomeni gravitativi
ma non risparmia asma da paese
le topografie labili
l'estate sabbiosa che arriva prima di te
alla quadratura dei pioppi

là dove la pioggia
libera la pianura
dove sei nata tu
svuota le avanfosse
incapaci di vivere betulle
ce le tatuammo sugli avambracci
per fendere una sera che sempre si richiude
l'eyeliner per andare a morire

là dove la torba le argille le case desolate
là dove la costrizione degli argini
come unico slancio dal basso continuo
là dove le notti dolci come pere
tra gradazioni acromatiche
improvvisi sanguinamenti di sambuco
fanno scintille gli ippocastani

là dove la pioggia
libera la pianura

c'è sempre la nebbia che scende dove una volta c'era il link

sabato 20 settembre 2014

Tradurre in italiano Yves Bonnefoy a altri francesi. Intervista a Fabio Scotto

Librobreve intervista #47

Fabio Scotto
Ariosto e Shakespeare. Li avevate mai accostati? Sia che la risposta sia affermativa, sia che sia negativa potete ora contare su un recente libro del poeta francese Yves Bonnefoy proposto da Sellerio e curato dal professor Fabio Scotto. Si intitola Orlando furioso guarito. Dall'Ariosto a Shakespeare (pp. 112, euro 14). Di questo libro e di molto altro abbiamo parlato con il curatore nell'intervista che segue. Ricordo che Fabio Scotto è il principale traduttore del corpus poetico di Yves Bonnefoy. Per una lista completa delle sue principali pubblicazioni rinvio a questa pagina dell'Università di Bergamo dove insegna letteratura francese.

LB: Sellerio ha da poco mandato in libreria Orlando furioso guarito. Dall'Ariosto a Shakespeare. Ci racconta brevemente quest'ultimo libro di Bonnefoy uscito in Italia?
R:In questo saggio a mia cura Yves Bonnefoy affronta attraverso Ariosto e Shakespeare il problema dell’idealizzazione amorosa, intesa come quel processo di natura concettuale che sostituisce all’altro un’idea nella quale l’amato o l’amata non si riconosce, cosicché l’amore è reso impossibile dall’astrazione che impedisce di individuare realmente l’essere nel mondo in quanto «presenza». Nell’Orlando furioso, il protagonista Orlando insegue ovunque la bella Angelica e, non appena la scorge con Medoro, è preda del furore, quando invece la figlia dell’imperatore cinese nell’idillio con il moro rivela la possibilità reale di un amore passionale fondato sulla compassione e sull’agape, ovvero la capacità di darsi generosamente all’altro senza nulla chiedere in cambio che Bonnefoy è solito contrapporre alla pulsionalità possessiva e reificante dell’eros. L’ipotesi di fondo è che Shakespeare abbia, dopo avere letto la versione inglese del poema ariostesco, preso spunto da esso per il personaggio omonimo di Come vi piace, che una figura femminile, travestita da uomo, può quindi indurre a una riflessione sul proprio sentimento al fine di guarirlo dall’idealizzazione della quale sarebbe vittima. È così che anche in Macbeth il protagonista, vittima a sua volta di un senso di esclusione dalla «catena dell’essere», è votato a un destino tragico profetizzato da presenze fantasmatiche che nessuno bramosia di potere può riscattare.

Yves Bonnefoy
LB: La poesia di Bonnefoy in italiano passa quasi sempre per le sue traduzioni (ricordiamo, oltre ai volumi usciti per Lo Specchio, anche la curatela del Meridiano). Poniamo di avere davanti un lettore di poesia digiuno di Bonnefoy. Per quali motivi ne consiglierebbe la lettura? E da quali opere consiglierebbe di partire?
R:Ho ormai dal 1999 un intenso sodalizio con Bonnefoy che è innanzitutto frutto di amicizia e reciproca stima umana e intellettuale basata su una autentica condivisione di valori e sull’amore per la poesia come ragione di vita. Consiglierei a un lettore di leggere Bonnefoy proprio perché è un poeta che da sempre colloca la poesia nell’àmbito dell’esistenza, del quotidiano, per cercarvi le ragioni fondamentali dell’essere al mondo e di una felicità possibile, la gioia, che è sempre frutto di relazione e di condivisione, nel tempo della finitudine che ci è dato. Partirei da Movimento e immobilità di Douve (Einaudi, 1969), libro a suo modo fondativo di una poetica, certo uno dei più alti del secolo, per poi passare, attraverso Nell’inganno della soglia (Einaudi, 1990), libro poematico della rinascita attraverso l’amore e l’infanzia, alle raccolte più recenti, da Le assi curve a L’ora presente (Mondadori, 2007, 2013), tranne l’ultimo tutti disponibili nel Meridiano a mia cura L’opera poetica (Mondadori, 2010). Ma riterrei necessario leggere anche le prose de L’entroterra (Donzelli, 2004), così incentrate sul rapporto con l’Italia, e le sue interviste sulla poesia, non ancora tradotte integralmente in italiano, Entretienssur la poésie (1972-1990) (Mercure de France 1990), e L’Inachevable. Entretienssur la poésie 1990-2010 (Albin Michel, Le Livre de poche,2010), che danno la misura di una profondità di rapporto fra pensiero e prassi poetica che mi pare oggettivamente non abbia eguali nell’odierno panorama poetico.

LB: Poesia in Francia e poesia in un paese vicino come l'Italia: da quello che ha potuto conoscere e percepire lei, se la "passano" all'incirca allo stesso modo?
R:La poesia vive un momento difficile in entrambi i Paesi, mi pare, almeno per visibilità pubblica e consenso sociale e di critica, ma questo non fa che renderla più che mai necessaria - parlo anche da autore di poesia nelle due lingue -, proprio perché l’isolamento di cui vive denuncia e rende palese la sua irriducibilità alle logiche commerciali e “spettacolari” oggi tanto in voga nel mondo dei media.
Direi che in Francia la poesia ha spazi di sopravvivenza forse maggiori, dovuti all’esistenza di un’edizione assistita finanziata dallo stato qui da noi inesistente, benché anch’essa sempre più ridotta e minacciata dalla crisi economica internazionale.

LB: Nel 2011 curò quel bel volume intitolato Nuovi poeti francesi per Einaudi. Ricordo di avervi trovato autori che mi fecero una forte impressione. La poesia francese contemporanea tuttavia non mi pare conosca una buona stagione di traduzioni in italiano. Concorda? E se sì, potrebbe indicare tre nomi (meglio ancora tre titoli di libri) dai quali iniziare?
R:Probabilmente vale per la poesia francese un po’ quanto vale anche, salvo rare eccezioni, per il romanzo francese contemporaneo: l’editoria italiana, dopo la stagione del Nouveau Roman che ha privato il romanzo dei suoi requisiti ritenuti fondamentali dal mondo commerciale come la trama, il personaggio, una contestualizzazione spazio-temporale riconoscibile, guarda con diffidenza alla letteratura d’oltralpe, ritenuta difficile, poco vendibile. Per questo poeti anche molto noti e influenti in Francia come Michel Deguy o Jacques Roubaud, per fare qualche nome senza pretese di esaustività, sono ancora poco tradotti, mentre maggiormente lo sono autori come Yves Bonnefoy, Philippe Jaccottet e Bernard Noël. Quanto alle nuove generazioni, c’è in atto un lavoro apprezzabile presso piccole case editrici però poco visibili e su taluni blogs, il che ha reso tanto più opportuno e necessario, credo, il volume a mia cura Nuovi poeti francesi, che cerca di dare qualche linea di lettura critica e di fare proposte sulla ricerca in corso, certo variegata e complessa, non più facilmente etichettabile a priori.
Nel catalogo italiano, consiglierei senz’altro, oltre a Bonnefoy, Estratti del corpo (Mondadori) e La Caduta dei tempi (Guanda, 1997) di Bernard Noël, Il barbagianni. L’ignorante (Einaudi, 1992) di Philippe Jaccottet, e Guy Goffette e Jean-Baptiste Para, credo usciti da Kolibris, naturalmente senza dimenticare Henri Michaux e Antonin Artaud, ancora così attuali e presenti da Quodlibet (Viaggio in Gran Garabagna, 2010) e Adelphi (Passaggi, 2012) l’uno, ed Einaudi e Stampa Alternativa l’altro. Dò inoltre un panorama ampio e credo rappresentativo del Novecento francese fino ai nostri giorni nel mio recente saggio La voce spezzata. Il frammento poetico nella modernità francese (Donzelli, 2012).

LB: Ha avuto modo di effettuare dei raffronti tra la recente poesia francese e quella italiana contemporanea? Se sì, quali le sembrano le direttive di sviluppo più marcatamente differenti o i punti di contatto più sorprendenti?
R: Sul piano della qualità della ricerca, esistono talune analogie e qualche differenza, ad esempio più presente da noi mi pare una poesia della dicibilità e del rapporto con la musicalità della lingua, con esiti significativi anche nell’àmbito dialettale, mentre in Francia è ancora molto avvertibile in vari settori una poesia fortemente concettualizzata, di pensiero, filosofica e incentrata sul lavoro del significante, ma formalmente più libera di spaziare dal verso alla prosa poetica, che da noi è troppo spesso guardata con diffidenza, credo a torto. È il “magma” cui alludeva Mario Luzi (non a caso estimatore di Michaux e amico di Bonnefoy), che accomuna la condizione attuale dell’uomo nel nostro tempo e la sua poesia.

giovedì 18 settembre 2014

Piero Calamandrei per la scuola

Riletture di classici o quasi classici (dentro o fuori catalogo) #22
Quote #5

"To repeat or copy the words of another, usually with acknowledgment of the source." Questo il verbo "to quote". Ma in italiano "quote" è il plurale di quota, parola che mi interessa soprattutto nel senso della misura di un'altezza o di un lato. Citando e contestualizzando minimamente passi importanti, cerco un modo assai svelto di dar notizia di libri significativi, possibilmente brevi. Stando breve, pure io.

Ora che il pachiderma della scuola ha ripreso a muoversi dopo il letargo estivo, potremmo tornare a leggere quanto sosteneva Piero Calamandrei nei discorsi che Sellerio ha raccolto in un volume del 2008 intitolato Per la scuola (pp. 144, introduzione di Tullio De Mauro, nota storico-bibliografica di Silvia Calamandrei, euro 10, libro ancora in commercio). Sono discorsi che oggi, se correttamente interpretati e applicati, potrebbero portare alla metamorfosi del suddetto pachiderma in una gazzella più pronta e agile. Non sto criticando chi fa al meglio ogni giorno il proprio lavoro negli ambienti scolastici e non sto nemmeno sostenendo che questa metamorfosi sia facile. A giudicare dall'assassinio collettivo premeditato che si è accanito sul corpo della scuola pubblica, a più riprese e da più parti politiche e sociali (famiglie in testa), oggi forse si starebbe prima a parlare di accanimento sul cadavere della scuola. Tuttavia serve un atto di fede generoso e disperato e credere fermamente che il cadavere sia invece un corpo intorpidito per il lungo freddo. E se poi è impossibile credere genericamente nella scuola come entità astratta, come a volte sembrano fare certi politici che si ricordano della scuola solo in situazioni protocollari, si può e si dovrebbe provare a credere in chi la scuola la fa, ovvero nelle persone che chiedono giustamente di essere messe nella condizione di lavorare. La prosa di Calamandrei, in più situazioni, e non solo quando affronta il tema della scuola, ha un effetto simile a quello che le chiacchierate con Piero Sraffa producevano su Wittgenstein: ci si sente come un albero al quale sono stati potati i vecchi rami. Quelle di Piero Calamandrei sono riflessioni dense di conseguenze, a maggior ragione alla luce dell'odierna corsa alla "scuola paritaria" alternativa alla scuola pubblica. Questa corsa rischia di trasformare in tante "scuole personali" tutti i neopartiti, le lobbies e le sette che senza sosta si affacciano all'orizzonte, persino quelle che poggiano la propria giustificazione e ragion d'essere su questioni passeggere e prosaiche come uno stile di vita e di consumo, spesso dimenticando che sono solo l'altra faccia della fuffa marchettara. Estremizzando volutamente per giungere al dunque, ma in fondo neanche troppo, mi auguro che non arriveremo un giorno a contare scuole per carnivori, per vegetariani, per vegani, per consumatori del biologico (pardon, biodinamico).

"Il mandare il proprio figlio alla scuola privata è un diritto, lo dice la Costituzione, ma è un diritto il farselo pagare? È un diritto che uno, se vuole, lo esercita, ma a proprie spese. Il cittadino che vuole mandare il figlio alla scuola privata, se la paghi, se no lo mandi alla scuola pubblica. Per portare un paragone, nel campo della giustizia si potrebbe fare un discorso simile. Voi sapete come per ottenere giustizia ci sono i giudici pubblici; peraltro i cittadini, hanno diritto di fare decidere le loro controversie anche dagli arbitri. Ma l'arbitrato costa caro, spesso costa centinaia di migliaia di lire. Eppure non è mai venuto in mente a un cittadino, che preferisca ai giudici pubblici l'arbitrato, di rivolgersi allo Stato per chiedergli un sussidio allo scopo di pagarsi gli arbitri! [...]. Dunque questo giuoco degli assegni familiari sarebbe, se fosse adottato, una specie di incitamento pagato a disertare le scuole dello Stato e quindi un modo indiretto di favorire certe scuole, un premio per chi manda i figli in certe scuole private dove si fabbricano non i cittadini e neanche i credenti in una certa religione, che può essere cosa rispettabile, ma si fabbricano gli elettori di un certo partito [...]."

Dal discorso pronunciato da Piero Calamandrei al III Congresso in difesa della Scuola nazionale a Roma il giorno 11 febbraio 1950. Il discorso completo si può leggere anche qui.

martedì 16 settembre 2014

"Le ore lunghe". Colette alla Prima guerra mondiale

Leggere una Grande Guerra #7

"Leggere una grande guerra" intende essere il breve spazio in cui segnalo dei libri sulla Prima guerra mondiale. Il quinquennio 2014-18 coincide con un lungo periodo di celebrazioni, commemorazioni ed eventi a livello internazionale. Segnalare semplicemente dei titoli di libri, brevi o meno brevi, passati o attuali, reperibili o non reperibili, italiani o stranieri, può essere un buon antidoto contro le fanfare e i tromboni che stanno pericolosamente giungendo un po' da ogni parte. Le segnalazioni saranno sintetiche, poco più di una scheda bibliografica. (In coordinamento con World War I Bridges).

Quella che l'editore Del Vecchio sta dimostrando verso il tema editorialmente abbastanza "caldo" della Prima guerra mondiale è un'attenzione non conformista, una voce fuori dal coro se volete. Recentemente è uscito anche il libro di Leonhard Frank con il ciclo di racconti de L'uomo è buono accompagnati da L'origine del male. Non era facile insomma ricavarsi nel panorama editoriale una posizione originale, fatta di proposte significative e nuove. In realtà quest'editore aveva già mostrato tale piglio pubblicando, mesi fa, Le ore lunghe 1914-1917 di Colette (pp. 240, euro 14, traduzione di Angelo Molica Franco), un reportage stranamente scappato alle traduzioni riservate a Colette dall'editoria italiana. Sono gli scritti usciti nell'anonimato per "Le Matin", dopo che la scrittrice aveva preso la decisione di seguire al fronte il marito, il barone Henry de Jouvenel des Ursins, attraverso una geografia puntiforme che vede sfilare Saint–Malo, Verdun, Parigi, l’Argonne, Roma e altri luoghi d'Italia. Si potrebbe anche chiamare "controreportage", perché qui c'è spazio per tutto ciò che altri reportage di guerra generalmente trascurano e per un'attenzione ai particolari che potrà stupire e risvegliare i lettori. Ciò che attrae Colette è "tutto il resto" e il nostro paese è largamente rappresentato in queste pagine: le donne al fronte, i bambini e i loro giochi, la moda, gli umori, il trascolorare della vita quando si è lontani dal fronte.

domenica 14 settembre 2014

"Testo a fronte" a quota 50 dopo 25 anni

Riviste #5

Torno a scrivere di riviste, realizzazioni che per tanti versi, quando scevre da accademismi autistici, reputo più importanti dei libri. Perché? Perché sono state spesso più necessarie dei libri. La nostra mente, un po' feticista in questo, ci porta spesso a credere che dietro alla realizzazione di un libro si celino chissà quali motivazioni culturali, ideologiche o di talento (dell'autore, dell'editore talent scout o del curatore/traduttore). A volte questo può verificarsi, ma molto spesso le ragioni per cui si fanno anche dei libri poi ritenuti importanti dai lettori o dalla critica sono inizialmente ascrivibili al regno delle fregnacce che si potrebbero benissimo spiattellare ai quattro venti senza vergogna. Chiamateli anche i casi della vita, se preferite un termine meno colorito. Anche un catalogo "fondante" come quello einaudiano del dopoguerra, che ha provato a incidere in qualche misura sulla società italiana, è figlio di un'atmosfera ben precisa e forse non molto edificante, ovvero della noia micidiale di quelli che sono passati alla storia come i mitici "mercoledì di via Biancamano", una noia che conta testimonianze efficaci e che ai nostri occhi oggi sembrano credibili. Tutto questo per dire che anche quello che ci sembra circondato di chissà quali aloni di prestigio nasce molto spesso da situazioni profondamente normali e male non farebbe ricordarlo, ogni tanto.

Ma torniamo alle riviste e alla rivista di oggi. Anche se forse nessuna disciplina come la traduttologia è estranea a bilanci o consuntivi, è stato corretto marcare sin dalla copertina il cinquantesimo numero di "Testo a fronte". Parliamo della sola rivista italiana di "teoria e pratica della traduzione letteraria", da anni pubblicata da Marcos y Marcos, editore che a ben vedere si propone come sostenitore di due delle riviste più belle degli ultimi tempi, "Riga" e "Testo a fronte" per l'appunto. I 50 numeri rappresentano ovviamente un traguardo simbolico, che però la dice lunga su un vuoto che la fondazione di questa rivista colse e iniziò a interpretare cinque lustri fa. A ricordarne gli albori è proprio l'editoriale di Franco Buffoni, che ha fondato la rivista e la dirige con scrupolo da tempo, ora assieme a Paolo Proietti e Gianni Puglisi. Così scrive nel suo editoriale, del quale per l'occasione riporto un ampio stralcio sotto, anche per ricordare le figure fondanti che in questi 25 anni la rivista ha incrociato:

Non avrei mai creduto, nel 1989, che saremmo giunti a festeggiare i venticinque anni di vita di «Testo a fronte», con cinquanta numeri pubblicati, e senza mai ricorrere all'escamotage dei numeri doppi.
Penso con nostalgia a quei primi anni: la redazione era nel mio studio a Bergamo, dove come professore associato l'anno prima avevo organizzato il convegno "La Traduzione del Testo Poetico". I laureandi correggevano le bozze: tutto era cartaceo, inevitabilmente, coi "compositori" che potevano aver digitato qualsiasi cosa.
Il convegno mi aveva regalato l'amicizia e la stima di Allen Mandelbaum e di Emilio Mattioli. Con loro formai il primo comitato direttivo: l'uomo forte di California University Press, traduttore della Divina Commedia; e il primo allievo di Anceschi, il filosofo dell'estetica che sapeva coniugare Luciano a Meschonnic.
E proprio Anceschi accettò di far parte del nostro comitato scientifico, con Gianfranco Folena e Cesare Segre, Maria Corti, Michael Hamburger, George Steiner… E i poeti-traduttori e i traduttori-poeti: Luzi, Fortini, Giudici, Solonovic, Macrì…
Prese così avvio un'affascinante riflessione teorica che – con Berman e Ladmiral, Efim Etkind e Friedmar Apel – è riuscita, nel tempo, a inoculare nella cultura italiana il germe della traduttologia. La parola stessa, allora, veniva messa in discussione: un disagio che in realtà celava il rifiuto ad ammettere la possibilità che una scienza della traduzione potesse esistere.
Con molta pazienza, numero dopo numero, forse siamo riusciti nel nostro intento. Sempre con i poeti al fianco, che intanto scalavano di una generazione; forse persino di due, se scorriamo l'attuale composizione del comitato.
E sono grato agli anni di Cassino, agli amici che lì mi affiancarono nella redazione e che permisero l'avvio dell'informatizzazione della rivista, nonché la realizzazione di un altro importante convegno, dedicato alla Ritmologia. La questione del "ritmo" è infatti uno dei cinque punti topici teorici – con poetica, intertestualità, movimento del linguaggio nel tempo e avantesto – che tanto ci hanno impegnati in passato e tuttora ci impegnano.
In un'ottica ormai di massima attenzione ai processi di globalizzazione – processi che non possono non avere come fulcro la "questione" della traduzione – la rivista è infine giunta al suo attuale approdo accademico alla iulm di Milano. Un'istituzione che, grazie alla generosa lungimiranza del suo rettore, ha saputo valorizzare e infondere nuova linfa all'azione di ricerca promossa da «Testo a fronte». [...]

Prima di chiudere, qualche notizia sui contenuti del numero 50. Vi trovete gli appunti sulla traduttologia italiana di Franco Nasi, il contributo di Alessandro Ghignoli intitolato "Il transautore nella comunicazione letteraria tradotta", una ricognizione di Vincenzo Pepe sulle traduzioni inglesi de Lo cunto de li cunti di Giambattista Basile, un'incursione di Antonio Bibbò sulle strategie traduttive in due versioni italiane dell'Ulysses. Si procede con il contributo di Francesca Cosi e Alessandra Repossi intitolato ""Il passaggio della mente per il mondo": la traduzione dei diari giovanili di Virginia Woolf", con quello di Massimo Bacigalupo che con un gioco d'iniziali titola "E.P. meets E.P.: Ezra Pound and Enrico Pea's Moscardino" e con uno scritto di Omar Ghiani Saba "La fede di Gianuario: discorso ipertestuale con il primo poeta in sardo". Punti di grande interesse sono le traduzioni realizzate da Fabio Pusterla e da Alberto Nessi, rispettivamente da Pascal Riou e da Nicolas Bouvier. Il numero prosegue quindi con il saggio e la traduzione di Pietro Taravacci, "Il Cristo, la città e il tempo di José Ángel Valente: tra memoria e invocazione", un componimento inedito fino a due anni fa, con la traduzione dal ceco delle "Quindici poesie da Na postupu" di Vladimír Holan (a cura di Vlasta Fesslová e con i versi italiani di Marco Ceriani) e infine con le poesie di Samuel Menashe curate da Elisa Armellino. Sigillano il fascicolo un ricordo di Giovanna Bemporad e, come sempre, l'abituale "Quaderno di traduzioni" seguito dalle puntuali recensioni e segnalazioni.

venerdì 12 settembre 2014

Cinque meditazioni sulla morte ovvero sulla vita di François Cheng

©overtures #6

Un nuovo libro di François Cheng è uscito per Bollati Boringhieri quest'anno. Si intitola Cinque meditazioni sulla morte ovvero sulla vita (pp. 128, euro 15, traduzione di Chiara Tarantini) e prosegue una sorta di serie del "cinque", visto era già uscito qualche anno fa, per lo stesso editore, il libro intitolato Cinque meditazioni sulla bellezza, tema tra l'altro non disgiunto dalla morte per Cheng. L'autore, un saggista-poeta e calligrafo-traduttore assai noto in Francia, non è infatti così distante dal sentire morte e bellezza come un foglio con due lati, dove poter scrivere, fronte e retro, e dove poter guardare in controluce la scrittura specchiata dell'altro lato, magari sovrapponendo i tratti più marcati con quelli più sbiaditi.

Veniamo alla nostra copertina, visto che è soprattutto di quella che vorrei scrivere oggi. Quel che recita l'antica massima cinese calligrafata da Cheng è: "la vita genera la vita senza fine". La vita è più forte di tutto, anche dell'amore e delle passioni e non si pone in contrasto con il suo termine contrario, la morte. Lo sappiamo, no? Ma non possiamo forse sfuggire all'attrazione che oggi più che mai possono esercitare la grafia e la calligrafia, e non certo per il nostalgico rinverdirsi di certe preoccupazioni attorno alle capacità che, a detta di molti angosciati, stiamo forse perdendo con l'avvento della scrittura digitale (chissà se sono solo preoccupazioni che guardano nella direzione sbagliata queste). La grafia può stare alla scrittura come l'interpretazione musicale sta allo spartito. Per molti versi la grafia è una magnifica traduzione della vita biologica, e volutamente dico grafia e non calligrafia. La copertina del nostro libro, con il titolo principale dedicato alla morte e il sottotitolo introdotto dalla congiunzione disgiuntiva "ovvero" dedicato alla vita, sembra quasi saldare un circolo tra grafia e vita e quindi anche con la morte. (Che effetto vi fa rivedere la grafia di persone che avete conosciuto e che sono morte? Forse lo stesso di una fotografia? Per me è profondamente diverso.). Il traduttore cinese di Apollinaire, Baudelaire, Char, Michaux e Rimbaud qui raduna il pensiero delle sue meditazioni in una strana veste di sogno della materia, quello della scrittura e della grafia. E alla fine, tutto sommato, sembrano tempi "favorevoli alla morte", almeno per quella dei filosofi o affini, e non soltanto perché Steve Jobs, un imprenditore da troppi scambiato per filosofo, ha dichiarato che la morte ha l'aria di essere la migliore invenzione della vita ("Death is very likely the single best invention of life"). Se volete meditare sulla morte e sulla vita, Cheng vi aspetta.

martedì 9 settembre 2014

Poesie inedite di Antonio Turolo


"al cor gentil ratto s'apprende" è il titolo dello spazio che Librobreve dedica alle poesie inedite. Qui si ospitano testi che probabilmente andranno a costruire nuovi libri di poesia. Si propone come rubrica di solo testo, priva di foto glamour degli autori. L'unica immagine rimarrà quella del ratto qui sopra, identificativa di ogni post, un portafortuna che dedico agli ospiti. La pubblicazione avviene su invito e pertanto non ha senso inviare i propri testi all'autore del blog se non vi è stato prima un dialogo e accordo tra Alberto e chi ha scritto le poesie. Non ho previsto commenti o preamboli ai testi. I lettori invece possono commentare.

Da Ècfrasis di Antonio Turolo (Mestre, 1962)


Esotico


A invogliarmi fu lei
sorriso un po’ sfrontato
o il di lei padre forse
coi suoi modi ruffiani

PERSISCHE SPEZIALITÄTEN                 
come più d’uno in quella stessa strada.

Passando sopra
a quei quadretti finti
i vassoietti in plastica
decorazioni in serie
mi ha preso – devo dire – quella stanza
nell’angolino in cui mi ero seduto
che il tram a intermittenza illuminava:
chiudendo gli occhi quasi mi pareva
trovarmi proprio nell’antica Persia,

non nella vita mia
che è brutta
e non mi piace.


Custodi


Chissà cosa si prova
vedendo tutti i giorni un grande quadro.

Ho paura che presto ci si abitua
e non si prova niente.

Come gli intercalari di quei vecchi
quando un po’ via di testa se ne vanno.

Così è la vita
                       Cosa ci vuoi fare
stringono tutto il mondo in una frase
tutto il passato in tre quattro parole
come una pennellata troppo densa.


Barricate


Qualcuno di un po’ esperto se ne accorge
Li compri e non li leggi –
                                           quando vede
Gli animali parlanti  del Casti
o Il triregno di Pietro Giannone.

Mi sento sempre in debito
già sulle difensive –
nei confronti dei classici
                                         comincio
il mio ben collaudato discorsetto.

Il fatto è che
anche se intonsi servono a difendermi –
era così anche a quindici anni
mentre gli altri giocavano a pallone.

Lei ha fatto troppa teoria,
troppa teoria – insiste la psicologa.

Ma così sto bene
con questi libri
come in un’astronave
tutta mia.

sabato 6 settembre 2014

Tradurre Seamus Heaney. Un'intervista con Marco Sonzogni in occasione dell'uscita di "Morte di un naturalista"

Librobreve intervista #46

Morte di un naturalista, il libro con cui il poeta e premio Nobel Seamus Heaney esordì nel 1966, esce in questi giorni per Mondadori all'interno della collana Lo Specchio (pp. 128, euro 17). La traduzione è di Marco Sonzogni, poeta e traduttore che mi risponde da Wellington dove vive e lavora e che per l'occasione ho il piacere di ospitare nuovamente in questo spazio, in veste di intervistato, commentatore e artefice della scelta dei testi che qui proporremo. Parleremo di Heaney e di questo importante esordio, di traduzione, dei rapporti di Heaney con l'Italia. E siamo in grado di offrire ai lettori, per gentile concessione della casa editrice, un paio di testi da questo volume freschissimo di stampa. Oltre all'intervistato ringrazio anche per la proficua e reattiva collaborazione Federico Napoli della casa editrice Mondadori.

LB: Prima ancora che la tua fatica confluisca nel Meridiano di Mondadori con l’opera poetica di Seamus Heaney, il lettore italiano avrà la possibilità di leggere a breve la tua traduzione di "Morte di un naturalista", il libro d'esordio del 1966 del premio Nobel nordirlandese morto lo scorso agosto. Che libro è? Cosa resta di questo esordio nel Seamus Heaney che verrà e in che cosa Heaney si distanzierà decisamente nella scrittura successiva?
R: Morte di un naturalista è un libro – volendo ricorrere a un solo aggettivo – pre-potente. Mi spiego. Segnala l’ingresso nel mondo della poesia di un autore nuovo e già maturo con un libro che è potente in sé e predice e prepara la piena potenza che troverà espressione nelle raccolte successive. Un libro di eclatante (e quasi spaesante) trasparenza: un libro che rivela. In esso, infatti, il poeta si conosce e ci aiuta a conoscerlo. In questo senso ogni poesia è un tassello prezioso con cui cominciare a comporre il puzzle di una figura straordinaria. Morte di un naturalista decreta la nascita di un uomo e di un autore che dal paesaggio (umano, animale, vegetale) della natia campagna nordirlandese ha tratto valori e coordinate esistenziali (sociali, culturali, politiche, religiose) che lo accompagneranno sia dal punto di vista umano che artistico (per questo ho scelto ‘Un avanzamento delle conoscenze’ e ‘Le prime purghe’ come testi rappresentativi). Inizia con questo libro un viaggio che si è prematuramente interrotto un anno fa con una raccolta, uscita postuma, di traduzioni pascoliane: L’ultima passeggiata.  

LB: "C'è qualcosa di nuovo oggi nel sole, / anzi d'antico: io vivo altrove, e sento / che sono intorno nate le viole." Heaney fu traduttore  di Giovanni Pascoli. In particolar modo ricordiamo la sua versione de "L'aquilone". Che cosa ricerca e cosa trova Heaney nel poeta di San Mauro?
R: Heaney ha trovato in Pascoli un compagno di campagna, se mi passi il gioco di parole – un’affinità umana prima ancora che poetica: un modo di vedere, di comprendere, di sentire le cose – e quindi un compagno di passeggiata. Quel ciclo di madrigali all’interno di Myricae è stato dunque un richiamo naturale e per questo poeticamente produttivo. Paolo Febbraro ed io ci siamo trovati a seguire lo sviluppo di questa raccolta, restando colpiti, appunto, dalla naturalezza con cui Pascoli era diventato Heaney: un incontro, quello tra Pascoli e Heaney, che illustra tutte le dimensioni della traduzione. 

LB: Tradusse anche altri poeti? E, al di là di questo, quali furono i poeti di cui Heaney scriveva spesso o i poeti dei quali magari ti parlava più spesso?
R: Heaney ha letto e tradotto Dante, e l’ombra lunga del sommo poeta avvolge tante poesie di Heaney, dagli anni ’70 fino alla fine. Heaney ha letto anche Leopardi e Montale, che non ha però tradotto – non nel senso letterale di traduzione. Alcune osservazioni, alcuni scarti epifanici per così dire, hanno, infatti, riflessi leopardiani (tanti poeti inglese e irlandesi del resto si sono confrontati in modo più o meno diretto con il poeta di Recanati); e le anguille che troviamo in Heaney sono anche di matrice montaliana, seppur mediate da quel poeta-traduttore tanto particolare quanto influente che è stato Robert Lowell.  

LB: Questa intervista appartiene a una serie che intendo dedicare ai traduttori. Tu vivi da tempo lontano dall'Italia. Che effetto ti fa tradurre e usare l'italiano, oltre che per ragioni quotidiane, per tradurre in poesia poeti che ami? Voglio dire, il fatto che tu viva lontano dall'Italia ha qualche riverbero sul modo in cui traduci e senti la lingua che usi?
R: Non ho mai preso per scontata la mia lingua madre. Quindi anche dopo più di vent’anni lontano dall’Italia, continuo, per così dire, a ri-scoprirla e ri-impararla, soprattutto attraverso la poesia – non solo le voci consacrate dalla tradizione ma anche quelle di oggi. L’esempio di altri traduttori (sono tanti quelli che si sono cimentati con la poesia e la prosa di Heaney) mi ispira e mi incoraggia sempre:  ci sono sempre tante cose da imparare e da migliorare. Ma i momenti più gratificanti sono stati quelli che ho vissuto attraverso la revisione. La generosità e la fiducia di Seamus Heaney, la sua incredibile pazienza e umiltà, mi hanno illuminato e guidato. E così la competenza e l’esperienza di Anna Ravano, che mi ha accompagnato oltre i miei limiti di traduttore. La traduzione richiede in primis umiltà – è, after all, un atto di servizio: tanto al testo originale quanto a chi a quel testo originale non ha accesso. 

LB: C’è un poeta che sogni di tradurre? E un romanziere?
R: Tradurre la poesia Seamus Heaney era un sogno che avevo dal momento in cui lessi una delle sue prime poesie dedicata ai trattori. Delle sue dodici fatiche – “twelve labours”, così Seamus si riferiva alle raccolte di poesia– in italiano mancano solo Wintering Out (1972) e Field Work (1979). Mi piacerebbe tradurre questi due libri. Ma il sogno si è avverato, e non voglio passare per ingordo o ingrato. Chamber Music di Joyce è un libro che mi ha sempre intrigato. E uno di questi giorni cercherò di tradurre gli haiku (Inchicore Haiku) dell’irlandese Michael Hartnett – persona e poeta di grande integrità e talento. Con così tanta poesia non avrei tempo per un romanzo: lasciamo allora la porta aperta a un’altra intervista.

An Advancement of Learning


I took the embankment path
(As always, deferring
The bridge). The river nosed past,
Pliable, oil-skinned, wearing

A transfer of gables and sky.
Hunched over the railing,
Well away from the road now, I
Considered the dirty-keeled swans.

Something slobbered curtly, close,
Smudging the silence: a rat
Slimed out of the water and
My throat sickened so quickly that

I turned down the path in cold sweat
But God, another was nimbling
Up the far bank, tracing its wet
Arcs on the stones. Incredibly then

I established a dreaded
Bridgehead. I turned to stare
With deliberate, thrilled care
At my hitherto snubbed rodent.

He clockworked aimlessly a while,
Stopped, back bunched and glistening,
Ears plastered down on his knobbled skull,
Insidiously listening.

The tapered tail that followed him,
The raindrop eye, the old snout:
One by one I took all in.
He trained on me. I stared him out

Forgetting how I used to panic
When his grey brothers scraped and fed
Behind the hen-coop in our yard,
On ceiling boards above my bed.

This terror, cold, wet-furred, small-clawed,
Retreated up a pipe for sewage.
I stared a minute after him.
Then I walked on and crossed the bridge.


Un avanzamento delle conoscenze


Presi il sentiero lungo l’argine
(come sempre, schivando
il ponte). Il fiume correva annusando,
flessuoso, impermeabile, coperto

da una decalcomania di facciate e di cielo.
Curvo sulla ringhiera,
ormai lontano dalla strada
osservai i cigni dalla chiglia sporca.

Qualcosa sciaguattò, brusco, vicino,
sbavando sul silenzio: un ratto
sgusciò viscido dall’acqua e
la nausea mi salì in gola così di colpo che

ripiegai lungo il sentiero sudando freddo
ma, Dio, un altro svelteggiava
su per l’argine opposto, tracciando i suoi archi
bagnati sui sassi. Incredibilmente allora

stabilii una temuta
testa di ponte. Mi girai a fissare
con meditata, fremente attenzione
il mio roditore fin lì snobbato.

Girò a vuoto su se stesso per un poco,
si fermò, rinsaccato e luccicante,
le orecchie appiattite sul cranio nocchiuto,
insidiosamente in ascolto.

La coda affusolata che lo seguiva,
gli occhi gocce di pioggia, il vecchio muso:
uno alla volta presi atto di tutto.
Mi puntò. Ressi la sfida e la vinsi

dimentico del panico che mi prendeva sempre
quando i suoi grigi fratelli grattavano e mangiavano
dietro al pollaio nel nostro cortile,
sulle assi del soffitto sopra il mio letto.

Quel terrore, freddo, il pelo bagnato, i piccoli artigli,
ripiegò su per un tubo delle fogne.
Stetti a guardarlo un altro istante.
Poi mi rimisi in cammino e attraversai il ponte.


The Early Purges


I was six when I first saw kittens drown.
Dan Taggart pitched them, ‘the scraggy wee shits’,
Into a bucket; a frail metal sound,

Soft paws scraping like mad. But their tiny din
Was soon soused. They were slung on the snout
Of the pump and the water pumped in.

‘Sure isn’t it better for them now?’ Dan said.
Like wet gloves they bobbed and shone till he sluiced
Them out on the dunghill, glossy and dead.

Suddenly frightened, for days I sadly hung
Round the yard, watching the three sogged remains
Turn mealy and crisp as old summer dung

Until I forgot them. But the fear came back
When Dan trapped big rats, snared rabbits, shot crows
Or, with a sickening tug, pulled old hens’ necks.

Still, living displaces false sentiments
And now, when shrill pups are prodded to drown,
I just shrug, ‘Bloody pups’. It makes sense:

‘Prevention of cruelty’ talk cuts ice in town
Where they consider death unnatural,
But on well-run farms pests have to be kept down.


Le prime purghe


Avevo sei anni la prima volta che vidi affogare dei gattini.
Dan Taggart li lanciò, “stronzetti tutt’ossa”,
dentro un secchio; un fragile suono metallico,

soffici zampe che graffiavano all’impazzata. Ma il loro minuscolo chiasso
fu presto affogato. Li appese al muso
della pompa e pompò l’acqua.

«È meglio così per loro, no?» disse.
Come guanti bagnati sobbalzarono lucenti finché lui li rovesciò,
acqua e tutto, sul letamaio, lustri e morti.

Di colpo impaurito, per giorni gironzolai triste
nel cortile, osservando i tre resti mollicci
diventare farinosi e croccanti come vecchio letame estivo

finché me li dimenticai. Ma la paura ritornava
quando Dan catturava grossi ratti, acchiappava conigli, sparava ai corvi
o, con uno strattone nauseante, tirava il collo alle galline vecchie.

Comunque, vivere rimuove i sentimentalismi
e adesso, quando striduli cuccioli sono spinti sott’acqua,
alzo solo le spalle, “Maledetti cuccioli”. Ha senso:

“Protezione degli animali” sono parole che fanno presa in città
dove la morte è ritenuta innaturale,
ma nelle fattorie ben gestite i parassiti vanno contenuti.


Per gentile concessione di:
Arnoldo Mondadori Editore S.p.A., Milano

Tratto da “Morte di un naturalista” di Seamus Heaney – traduzione di Marco Sonzogni
© 2014 Arnoldo Mondadori Editore S.p.A.
© Seamus Heaney, 1966, 1991