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martedì 29 maggio 2018

"Una donna" di Annie Ernaux: un'ombra larga e bianca sopra di me

C'è un contrasto forte tra il titolo indeterminativo Una donna, pronto ad accogliere proiezioni e traslazioni, e la conoscenza che il lettore farà della protagonista di questo brevissimo libro di Annie Ernaux, l'ultimo proposto in ordine di tempo da L'orma, editore italiano che si è incaricato delle traduzioni di questa fortunata scrittrice francese (pp. 112, euro 13, traduzione di Lorenzo Flabbi). La protagonista è infatti la madre di chi scrive, evocata con una scrittura che trova il proprio incipit qualche giorno dopo la morte e affonda il proprio cominciamento in una telefonata di un infermiere di una casa di riposo di Pontoise, Île-de-France, che comunica il decesso avvenuto la mattina di un 7 aprile, lunedì. Tempo fa, scrivendo de Il posto, altro suo breve libro, mi interrogavo, anche con qualche perplessità, sulle ragioni del successo di questa scrittrice. Voglio dire, ad esempio, che se leggo Ernaux mi pare di fare un percorso simile a quello che Luigi Tenco, nell'orbita della canzone italiana, ha fatto tanti decenni fa. Non mi pare un'esagerazione questa. Chiaro, quella era canzone, questa di Ernaux è scrittura. Ora comprendo che non ha molto senso soffermarsi su questi aspetti o rinverdire questioni da manuale scolastico, come quella del "best seller di qualità", anche se i legacci che uniscono godibilità e qualità non possono non starci a cuore. Annie Ernaux ha mostrato, e non solo con questo libro, di coinvolgere i lettori con una prosa che puntella il proprio voler esserci tra l'auto-bio-grafia, la letteratura, la sociologia e persino un'analisi socio-economica sui generis. Nei suoi libri si rilegge la storia di quasi un secolo attraverso una scrittura lenticolare che ritorna spesso sulla storia di una famiglia. È qui che continuamente Ernaux saccheggia il proprio immaginario per la parola, salvo poi confessare, proprio in questo corto libro, di voler insultare le persone che le chiedono notizie sul suo prossimo libro.

Chi legge Una donna fa la conoscenza di più parti della Francia, dalla Normandia con le sue fabbriche di inizio Novecento all'hinterland della capitale, segue la storia di questa donna nata nel 1906 attraverso più decadi, con particolare indugio nella vita di commerciante, consumata nella classica configurazione casa-bottega che abbiamo conosciuto anche qui. Si giunge, in mezzo a una miriade di descrizioni, a un primo incidente stradale grave in età avanzata e poi all'Alzheimer. La madre è al centro della scrittura, ma anche Ernaux è al centro di una scrittura che sospinge e ritira come la marea, con lievi ellissi, corpose analessi o fugaci prolessi. Curioso è che quando deve ricorre al discorso diretto Annie Ernaux elida verbi come "disse", "esclamò" o "urlò", dando solo una minima coordinata di quel frammento di voce che si incastra improvvisamente nel tessuto del memoir. Raramente si concede aperture che fuoriescono dal materialismo dell'analisi, come ad esempio potrebbero essere quelle che sconfinano nei mondi del sogno. Un esempio è questo, e capita verso la fine:
Nei dieci mesi in cui ho scritto l'ho sognata quasi ogni notte. Una volta ero sdraiata sull'acqua, in mezzo a un fiume. Dal mio ventre, dal mio sesso di nuovo liscio come quello di una bambina, si dipanavano piante in filamenti che galleggiavano, molli. Non era soltanto il mio, di sesso, era anche quello di mia madre.
Ad un certo punto pare sia l'autrice stessa a voler offrire un'imbeccata per interpretare quanto ha scritto nei dieci mesi, ammettendo di aver scordato nel percorso della scrittura alcuni dettagli delle prime parti del testo, scritte dopo quella telefonata, il funerale e la sepoltura:
Questa non è una biografia, né un romanzo, naturalmente, forse qualcosa tra la letteratura, la sociologia e la storia. Era necessario che mia madre, nata tra i dominanti di un ambiente dal quale è voluta uscire, diventasse storia perché mi sentissi meno sola e fasulla nel mondo dominante delle parole e delle idee in cui, secondo i suoi desideri, sono entrata.
Ernaux scrive che non vorrebbe sapere più niente sulla madre dopo la sua morte, niente oltre quello che sapeva quand'era viva, insomma vorrebbe congelare la conoscenza a quando c'è stata compresenza nel mondo. L'immagine materna sgattaiola allora come "un'ombra larga e bianca sopra di me". E questo libro, che a un certo punto viene considerato "un lusso" poter scrivere avendo il tempo e i mezzi dopo la perdita della madre, si apre sotto un'epigrafe da Hegel che vale la pena riportare in chiusura: C'è chi dice che la contraddizione non si può pensare: ma essa nel dolore del vivente è piuttosto una esistenza reale.

mercoledì 19 marzo 2014

Lontano lontano. Perché è giunta l'ora di affrontare a viso aperto Luigi Tenco

Libri brevi che mi piacerebbe scrivere o trovare #1

In questo nuovo spazio così titolato proverò a fermare pensieri che mi vengono spesso su libretti che mi piacerebbe scrivere se avessi capacità, tempo, spazi o persino, ancora più presuntuosamente, un committente. Oppure, meglio ancora, librini che vorrei trovare già scritti da altri. Libri piccoli, che provino ad affrontare temi o autori che già hanno una bibliografia, ma con la voglia di provare a dire cose nuove, magari correndo qualche rischio. Non occorre scrivere tanto, pensate a certi articoli filosofici brevissimi, a come hanno cambiato tutto. Scrivendone così brevemente qui, mi faccio passare l'idea di intraprendere tortuosi percorsi inconcludenti. Chissà se dura.

"Mi sono innamorato di te perché non avevo niente da fare". Più passano gli anni e più mi rendo conto di quanto stupore e quanta acqua scorra sotto questo attacco di una famosissima canzone di Luigi Tenco. Certo, bisognerebbe intendersi bene sul quel niente da fare, oltre quello che dispiega in un primo momento. Incomincio così a ricordare la centralità che la figura di Luigi Tenco può - e a mio avviso dovrebbe - rivestire nell'universo della scrittura in italiano, anche in quella poetica. E non sto pensando a malsane e sbagliate sovrapposizioni tra poesia e cosiddetta canzone d'autore. Su questo sto con Valerio Magrelli. Non so se avete presente un video, passato di recente anche da Rai Storia, in cui il poeta romano quasi si accanisce a marcare bene i confini tra poesia e canzone. Lì Magrelli ha ragione da vendere. Sono due cose così diverse, lontanissime, che non si possono confrontare, pena la perdita di libertà delle loro forme e un fraintendimento radicale. Anche se la canzone si basa su dei testi che si possono leggere come una poesia e la poesia si dice abbia musica e ritmo che si possono accogliere come canzone, poesia e canzone non vanno confuse o avvicinate troppo, mai, anche quando la tentazione diventa forte. Restano quadranti diversi di un piano cartesiano. Molti anni fa mi rincuorai durante una chiacchierata con Andrea Zanzotto, scoprendo che ad esempio su De André pensavamo le stesse cose e forse storcevamo persino il naso nella stessa direzione quando sentivamo parlare di lui come "poeta" (non ricordo quale fatto di cronaca avesse riguardato il cantautore genovese). Al di là del fatto che, pur rispettandolo, non ho mai amato De André (trovo un Piero Ciampi molto sopra, solo per fare un nome), c'era il rischio di dare adito a fraintendimenti pericolosi che potevano avere un effetto domino sugli errori di percezione negli anni a seguire. Questo non significa che sia contrario a certe ibridazioni, a certi esperimenti o alla frequentazione simultanea di queste forme, anzi. Il legame tra poesia e musica resta però controverso, aperto, doppio legame, batesonianamente double bind.

Io credo che Luigi Tenco dovrebbe essere finalmente tolto, strappato a forza dalle discussioni che riguardano soltanto Sanremo, il suo suicidio, la sua carriera, la tradizione genovese e tutti quelli che l'hanno coverizzato (compreso l'insospettabile Mike Patton dei Faith No More e Mr. Bungle, che ha dichiarato il suo amore per il pop italiano di quegli anni e come Tenco lo abbia condotto alle lacrime). E quindi capire perché la traccia di Tenco sia una di quelle più profonde del secolo scorso, non solo per la musica, ma persino per la storia del nostro paese (è qui che una bibliografia forse manca, anche se molti sono i titoli a Tenco dedicati). Mi toccherà parlare brevemente dell'esperienza personale, ma non ho scelta. E forse va bene così. Era mio padre che teneva molti vinili di Tenco a casa e che lo amava. Ricordo quando, bambino o poco più, ascoltai la prima volta "Cara maestra" e mi dissi circa "ah però, facile, semplice, vera". In realtà erano altre le canzoni con le quali avrei dovuto fare i conti e con le quali sto tuttora facendo i conti. "Vedrai, vedrai", ad esempio, diventò né più né meno la canzone della generazione con cui immaginavo mio padre, la cosiddetta generazione del baby-boom, un'espressione strana ed edulcorata per intendersi (e autodefinirsi) in fondo come "nuova fresca carne da macello" dopo la "carne macellata dalla guerra". Altri spazi, altre velocità hanno comunque spappolato loro e noi. Ecco, anch'io ho spesso pianto con le canzoni di Tenco. In realtà soprattutto con due, con "Vedrai, vedrai" e "Lontano lontano" (due titoli simili, tra l'altro, con quella ripetizione). Credo - non lo so - che i motivi per cui ho pianto io siano diversi da quelli per cui ha pianto Mike Patton. (Mi piacerebbe incontrarlo 5 minuti per chiederglielo, l'ho visto dal vivo una sola volta a Milano, Sonoria '95, durante il tour di King for a Day... Fool for a Lifetime, rassegna bella, peccato solo per l'annullamento dei Massimo Volume). Io piangevo per una sorta di pietà che avvertivo, forse pena, per tutta quella generazione, una pietà che quasi trovava nel profilo di Tenco nel vinile di Se stasera sono qui il suo simulacro. Immaginavo mio padre al bar del paese nella pausa pranzo con degli amici, prima di ritornare al lavoro, al primo impiego da ragioniere in un mobilificio presto fallito di Casale sul Sile, distante da dove abitavano. Immaginavo il ritorno a casa descritto in "Vedrai, vedrai" quando non si ha "neanche voglia di parlare" ma piuttosto - era il suo caso - si ha voglia di pensare al "grano da crescere" o "i campi da arare", in un frangente di migrazione interna fortissima che però non l'aveva toccato ("Ciao amore ciao"). Ovviamente era un pensare che provava ad abbracciare tutta quella generazione, avvolta in una sorta di strana sofferenza, uno strano male mitigato dai luccichii del boom che ha lasciato davvero terra bruciata. Pensavo e trovavo anche il motivo di un distacco profondo. E questo era un pensiero che si allargava a tutta quella generazione, donne incluse (penso a una canzone come "Una brava ragazza"), alle madri. Eppure, lo dico a costo di sembrare poco correct, per me Tenco rappresenta più un pensiero che parte e ritorna agli uomini.

Oltre a quelle già citate, sono tante le canzoni di Tenco su cui varrebbe la pena sostare. (Ora mi tornano in mente "E se ci diranno" o la stupenda "Quando", che in un fazzoletto tiene assieme tutte le parole di una tradizione lirica.) In realtà è "Lontano lontano" però la canzone dove sento tutta la grandezza e il pianto irrinunciabile che ci offre Tenco. A partire da quell'uso di un avverbio di luogo vicino a nel tempo, nell'attacco, e poi da quella macchia che si spande come un liquido sopra una tavola per tutta la canzone e che passa dalla sponda della determinatezza (occhi, occhi, sorriso, labbra, mio volto, ad un tratto) a quella della vaghezza, la quale non può che spingerci verso Leopardi, e che ritroviamo in altri segmenti del testo (lontano lontano, qualche cosa, timidezza, un po' in giro, per caso, l'aria triste, chissà come e perché). E tutto oscilla tra futuro e imperfetto, come bicchieri attaccati sopra una tavola durante un terremoto. Questa canzone è centrale nella mia memoria ora perché è una canzone d'amore e sul volto, sulle scosse elettriche che collegano tra loro i volti nei diversi luoghi e tempi, e la percezione che abbiamo noi dei volti, la quale regola, almeno secondo me, uno spazio importante della vita. E poi è una canzone che nomina il mondo, il modo che abbiamo di portare in noi gli altri, l'accettazione della vita, la collocazione spaziale dell'amore. Credo risieda qui la grandezza di questo testo e di questa canzone. Non so, ma quando ho cominciato, più tardi, a leggiucchiare qualche libro di neuroscienze, su come queste studiano i processi cerebrali di riconoscimento del volto dell'uomo, ho iniziato a immaginarmi Tenco come un neuroscienzato che aveva deciso di cantare (e a vedere come stanno andando le frettolose neuroscienze, forse non ha nemmeno sbagliato strada). Pensavo proprio a "Lontanto lontano", a cosa innescano i volti, i movimenti facciali, in questa canzone. E tanto per cambiare ho pianto, ancora una volta.




Lontano lontano nel tempo
qualche cosa
negli occhi di un altro
ti farà ripensare ai miei occhi
i miei occhi che t'amavano tanto
E lontano lontano nel mondo
in un sorriso
sulle labbra di un altro
troverai quella mia timidezza
per cui tu
mi prendevi un po' in giro
E lontano lontano nel tempo
l'espressione
di un volto per caso
ti farà ricordare il mio volto
l'aria triste che tu amavi tanto
E lontano lontano nel mondo
una sera sarai con un altro
e ad un tratto
chissà come e perché
ti troverai a parlargli di me
di un amore ormai troppo lontano.