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mercoledì 22 luglio 2015

"Nuovi giorni di polvere" di Yari Bernasconi

Il segmento testuale "uno dei più..." che si trova sovente nelle quarte di copertina o in altri paratesti sta diventando quasi un tic e sarebbe davvero curioso tentare una statistica lessicale in merito. L'avrò usato anch'io su queste pagine, e spero soltanto di averlo fatto in momenti di poca lucidità e poca fantasia. All'espediente però non sfugge nemmeno un decano come Goffredo Fofi il quale, nella nota a Nuovi giorni di polvere (Casagrande, pp. 96, euro 18 - CHF 20), parla di Yari Bernasconi (Lugano, 1982) come di "uno dei più coinvolgenti poeti delle ultime generazioni". Il problema non è quanto Fofi sia lontano da fare centro - pure l'obiettivo di questo mio scritto è simile a quello di Fofi, ossia suggerire la lettura del libro di Bernasconi cercando di metterlo in relazione con altro che ho letto e magari con altro che si scriverà - bensì la scorciatoia critica che queste espressioni spesso racchiudono e il loro avvitarsi sulla base di un principio di auctoritas che ancora, in qualche modo, soprattutto nella critica letteraria, sembra tenere, aggrappato però a una roccia friabilissima. (Penso ora a Mengaldo, che non era estraneo a scorciatoie analoghe, anche se nel suo caso il giudizio di valore diventava spesso un giudizio ben raccordato a un sistema di valori emerso o autoemergente nel testo critico.) Insomma la formula "uno dei più |aggettivo| della sua generazione/delle ultime generazioni" per me diventa ormai automaticamente una sorta di "abuso di posizione critica dominante" se non è supportata da una congrua analisi del testo e sortisce ormai effetti contrari dell'invito a leggere. Non so voi. Quest'auctoritas, fra l'altro, è qualcosa che i poeti intimamente vorrebbero o dovrebbero sempre rifiutare, a trenta come a novant'anni, così come mi pare rifiutarla la vena del polso di Bernasconi. Si noti anche un altro aspetto, ovvero la collosità problematica del concetto di "generazione" in poesia, ripreso anche da Fofi nel suo giudizio che parla di "ultime generazioni"; verrebbe da chiedere: quante generazioni? Quali "ultime generazioni"? Intende quelle dopo la sua? Che cosa ci entusiasma ancora nel parlare per generazioni in poesia e non ad esempio in altri generi letterari o nel campo della ricerca scientifica? Parlare di generazioni inizia ad aver senso se è in atto una vera "questione morale" che le sta attraversando, ma nella megamonogenerazione serpeggiante in cui si ricade spesso oggi tutti quanti, dal-nipote-al-nonno senza soluzione di continuità, da Noto a Oslo, parlare per generazioni rischia di configurarsi come l'ennesimo e fiacco ritrovato del marketing.

Passo finalmente al libro, tralasciando giudizi diretti su autore o biografia, a mio avviso sempre pericolosi e poco fertili. Tra le pagine, fra l'altro, scompare un battito generazionale per lasciar posto a un'anabasi camminata quasi sempre da un'enigmatica, forse inconciliata prima persona plurale (che sia la prima persona plurale il fine e la fine di questa scrittura?). Bernasconi scrive spesso di un noi, a volte esplicito, altre meno. Di polvere, polvere e (nuovi) giorni. Quante polveri conoscete? C'è quella da sparo, quella cosmica, quella che rimane delle lavorazioni e dalle limature, e poi la polvere delle case che si appoggia sui piani. Ci sono polveri più o meno visibili. Ci sono anche le polveri che ulcerano i nostri stati di coscienza e il nostro organismo o quelle farmaceutiche. Ad un livello letterario, almeno per chi scrive, forse per piccolezza di vedute, il rimando più immediato è John Fante di Ask the Dust. In effetti ci sono molte domande che possiamo rivolgere alla polvere. Il titolo rinvia anche a un immaginario biblico e, tutto sommato, sembra sottolineare la portanza e durata del concetto di vanitas vanitatum che può essere ridestata un istante da un'"aria improvvisa" (come in una poesia della serie irlandese). Nel libro la polvere è quella che raccoglie un dito indice che, nell'atlante d'Europa, si sposta a indicare la località estone di Dejevo, nella più grande isola del paese baltico (Lettera da Dejevo fu l'esordio di Bernasconi pubblicato dall'editore Alla chiara fonte) alla Svizzera e all'Italia, per poi tornare a nord con una cospicua sezione irlandese, Piccolo diario d'Irlanda (con Emanuela). In questa sezione abbiamo la riprova che spesso si scrivono i versi più bellamente vagolanti in quello stato di alterazione che il viaggio può comportare, agostinianamente più per la pressione del viaggio sulla pelle dei nostri giorni che per quello che possiamo effettivamente scoprire distanti da casa. Come in Galway: "Se c’è qualcosa di vero in questa strada, tra le case, / attorno ai corpi dei turisti che spingono all’entrata / dei locali, cantando con voci grasse, è tutto / nell’asfalto. L’asfalto levigato e la sua inerzia. / L’asfalto sotto i ciottoli, negli interstizi, nelle crepe. / Quell’asfalto ignorato. // Se c’è qualcosa di vero è già sbiadito, già trascorso."

Facciamo ora un passo indietro. Dopo l'iniziale Dejevo s'apre la sezione dal titolo fortiniano Non è vero che saremo perdonati ("Non è vero che siamo in esilio. / Non è vero che torneremo in patria, / non è vero che piangeremo di gioia / dopo l’ultima svolta del cammino. / Non è vero che saremo perdonati." dai versi del fiorentino). Qui entra il paesaggio della Svizzera, il discrimine del San Gottardo e la sua galleria ferroviaria, il treno per Zurigo, ma poi trovano spazio frammenti di conversazione e "Cartoline", dalla località francese di Saint-Gilles-du-Gard e da quella svizzera di Herisau. Siamo vicini a San Gallo: "Dalle colline si vede San Gallo, rassicurante, / col suo stadio. Gli anziani stanno insieme, salutano / il soldato che torna in caserma dagli altri. / Immacolate, le case e le facciate respingono i prati, / troppo verdi. Ristagna una fierezza vaga: / le nostre donne, le nostre terre, le nostre bestie. // È strano che in un bosco, proprio qui, / ci sia il corpo senza vita di una bambina. / Così stonato. È strano che una terra come questa / dia anche, ogni tanto, di che morire. /". Spesso capita che in questi versi si immischi nel paesaggio un elemento di forte inquietudine, quasi misterioso. Il controllo formale è sempre molto alto, il metro quasi rassicurante anche se non si capisce bene su che cosa rassicuri (ho avvertito in questo l'aspetto intrigante del libro). Di certo Sereni, Orelli e il già citato Fortini sono stati a lungo meditati (Orelli pure conosciuto e frequentato, ricordo infatti la curatela del suo Abbecedario), eppure il piglio più interessante giace dove Bernasconi s'allontana da un'idea di tradizione e calca uno scarabocchio sopra quella che un tempo si chiamò "linea lombarda" ("Siamo cambiati senza movimento: all’oscuro / delle unghie più nere, grati dei sentieri battuti, / le strade e i cortili puliti. Sangue? Macerie? / La guerra vera era noiosa: distante e prevedibile.").

Lungo la Landstrasse è una sezione anaforica. Molte poesie di questo terzo movimento del libro iniziano infatti con "Siamo": "Siamo diversi, ma il sangue dei nostri padri / è rosso. [...]", "Siamo tanti, ma presto ci perderemo.", "Siamo in viaggio, ma non in fuga. [...]", "Siamo selvaggi, dicono, come se fosse / un problema. [...]", "Siamo felici nella nostra carovana, tra i volti / che conosciamo. [...]", "Siamo indifesi davanti ai bastoni / che sembrano forconi; [...]". Anche qui torna prepotente la prima persona plurale, di cui si diceva sopra. La quarta sezione, La montagna di fuoco, raggruppa solamente due prose poetiche e la poesia intitolata "Residui". Ora, se vogliamo criticare chi scrive di residui possiamo farlo, possiamo giocare a individuare i pusterliani in Ticino o in Italia (poco cambia), resta che a mio avviso scrivere di residui significa accogliere nell'opera qualcosa che è etimologicamente ma anche ontologicamente rimasto indietro. Io penso allora, per contrapposizione, più che a Pusterla, a I compagni corsi avanti del Vocativo zanzottiano, quel finale "[...] Strugge la mite / notte Hitler, di fosforo, e congiunta // in alito di belva sugli estremi / muschi dardeggia Diana le impietrite / verità della mia mente defunta." Quest'associazione dovrebbe tornarmi utile per un pensiero alla fine.

La sesta sezione segue la già ricordata Piccolo diario d'Irlanda (con Emanuela) e si intitola Se camminiamo. Questo è anche il titolo della prima poesia: "Se camminiamo è per andare avanti, / per cercare qualcosa, per non abbandonare / una speranza. Dimenticando tutto il resto. / Tornare ha sempre avuto poco significato. / Tornare dove? Riconosciamo i sassi / e gli orizzonti: i sentieri ci dicono / che ci siamo, che andiamo.". I toni tornano intimi (stavo per scrivere intimissimi), quasi un morettiano diario senza le date ma ritorna forte un senso del luogo, come nel "luogo vacillante" di un testo, nella ferroviaria "Berna–Milano–Napoli (quadretto di genere)" o nella poesia conclusiva "Un commiato" che termina con questi versi: "L’acqua che passa si è già presa il domani. / Io ti scrivo da qui, dove poi si scompare. / Perdona se non tornerò in quello spazio / perenne.". Questo richiamo ai e dei luoghi resta, come residuo, uno degli aspetti più coinvolgenti e convincenti di queste poesie. Se restassimo alle parole di Fofi, spostando l'accento più sull'opera che sul nome del poeta, mi domanderei allora dove e in che misura è "coinvolgente" la scrittura poetica di Bernasconi? Paradossalmente - e non intende essere un gioco di contrari - è tanto più coinvolgente quando ci parla in modo chiaro, anche se obliquo, di una esclusione che ci riguarda. Non mi riferisco alla sbandierata esclusione di una (nostra?) generazione al cospetto della Storia, ma a quell'esclusione forse salvifica e persino rassicurante che sperimentiamo nel viaggio e nel sentimento di un luogo, è la nostalgia "di seconda mano" richiamata in un testo di spostamento tra la Svizzera e l'Italia, sempre nella sezione conclusiva del libro. Può essere persino il rischio di un'esclusione perenne dall'azione e in questo i versi provano a tenere alta la guardia. Non è e non può essere l'esclusione da un'autonomia di pensiero che dobbiamo comunque provare a conquistare se non vogliamo cadere in quella pressoché unica, lunga e sinuosa generazione destinata a essere fatta a pezzi all'occorrenza, per questo e quell'utilizzo nella macelleria del reale o del virtuale. Attraverso il perseguimento di una spazializzazione e scansione della propria scrittura, Bernasconi rimane aggrappato a quell'esclusione, spesso incistata nei luoghi, ma che da sola può divenire il fondamento di qualsiasi principio-appartenenza, di un'anabasi forse incompiuta e tuttavia senza ritirata: "Tornare ha sempre avuto poco significato. / Tornare dove?", appunto.

lunedì 27 ottobre 2014

Poesie inedite di Yari Bernasconi


"al cor gentil ratto s'apprende" è il titolo dello spazio che Librobreve dedica alle poesie inedite. Qui si ospitano testi che probabilmente andranno a costruire nuovi libri di poesia. Si propone come rubrica di solo testo, priva di foto glamour degli autori. L'unica immagine rimarrà quella del ratto qui sopra, identificativa di ogni post, un portafortuna che dedico agli ospiti. La pubblicazione avviene su invito e pertanto non ha senso inviare i propri testi all'autore del blog se non vi è stato prima un dialogo e accordo tra Alberto e chi ha scritto le poesie. Non ho previsto commenti o preamboli ai testi. I lettori invece possono commentare.

Due poesie inedite di Yari Bernasconi (Lugano, 1982)

Conosci il mare


Conosci il mare e il sale che corrode,
che scava nelle piccole esistenze.
Ne avrai bisogno un giorno, se tornerai
dove sei nata: ritroverai le cose
indistinte in una voce, come non fossi
mai partita. I laghi saranno cancellati
dalle vie lastricate e la salsedine.
Avrai gli occhi ancora più aperti.

Anch’io, senza saperlo, sono figlio
di questa terra. Me ne accorgo dall’autostrada,
quando intravvedo la distesa d’acqua
nei pressi del Turchino, superando il Piemonte,
e sento un nodo passeggero che è nostalgia,
ma di seconda mano.


Warschauer Strasse


Il treno è arrivato in orario. Salire
le scale umide di fango, tra la folla,
significa anche vederti. Superare
l’Imbiss sulla destra; scorgere in fondo,
oltre il ponte, l’antenna; scendere
per la strada; svoltare davanti a un gruppo
di ubriachi che cantano e festeggiano
qualcuno. Ecco, significa questo,
senza tornare né arrivare:
essere a casa, qui con te, sentirlo
da una lingua straniera.

giovedì 17 luglio 2014

"Quasi un abbecedario" di Giorgio Orelli. Sei domande a Yari Bernasconi

Librobreve intervista #43

LB: Quasi un abbecedario, libro postumo di Giorgio Orelli che hai curato per le edizioni Casagrande (in uscita in questi giorni, pp. 80,  Eu 14.50 - CHF 18.00), ha una genesi singolare. Potresti raccontarla?
R: L’idea dell’intervista in forma d’abbecedario è nata tra il 2010 e il 2011, durante una riunione del comitato di redazione di «Viceversa Letteratura», che voleva dedicare a Giorgio Orelli un dossier del suo quinto numero. Un modo per evitare toni celebrativi, ma anche per lasciare Orelli – conversatore straordinario – più libero di raccontarsi. L’iniziale lista di parole che gli abbiamo sottoposto cercava di toccare – dalla A alla Z – alcuni cardini della sua esperienza di scrittura (e non solo), così da ispirare aneddoti, precisazioni o approfondimenti. Da subito, però, l’esercizio si è trasformato in qualcosa di ancora più creativo: gli incontri si sono moltiplicati; alcune parole sono state aggiunte e altre lasciate cadere; la stessa forma orale dell’abbecedario – fondato sulla trascrizione poi rivista e approvata di diverse registrazioni sonore – si è fatta elastica e ha accolto alcuni testi battuti a macchina direttamente da Orelli. La prima tappa di questo abbecedario è appunto apparsa su «Viceversa» (n. 5, 2011), mentre il libretto Quasi un abbecedario rappresenta in un certo senso l’aggiornamento di quella prima esperienza e, insieme ai testi del 2011, rende conto dei successivi incontri (ci siamo visti l’ultima volta nell’autunno del 2013). In fondo, ci siamo lasciati guidare dalle conversazioni e dalla loro imprevedibilità, con stupore, senza porci troppe domande.


LB: Si ritrovano in questo libro, a mio avviso, molte delle caratteristiche di un altro libro di Orelli, La qualità del senso. Dante, Ariosto e Leopardi (uscito sempre per Casagrande). Mi riferisco a quel lavoro di torsione sulle parole e sulla lingua, un lavoro per certi aspetti "sporco", rasoterra. Ci sono sicuramente Contini, Spitzer, padre Giovanni Pozzi. Pure Roman Jakobson. Tutti nomi che tra l'altro appaiono in questo libro e ai quali è talvolta dedicata persino una lettera. Ma chi sto dimenticando tra quelli che Orelli amava e che non sono presenti in questo libro?
R: Giorgio Orelli si è sempre interessato alla critica cosiddetta “verbale”, aderente cioè – come afferma lui stesso, «alla testualità, o semplicemente all’espressività del discorso poetico». Il “manifesto” di questo impegno critico è il volume Accertamenti verbali (Milano, Bompiani, 1978), a cui sono seguiti diversi altri libri. L’ultimo è proprio La qualità del senso, senz’altro legato all’abbecedario in tutte le sue parti di critica letteraria, che si alternano però ad aneddoti e momenti più colloquiali. Del resto, alla lettera V come Varianti, l’incipit è significativo: «Certo, ogni critica è buona quando è buona. E poi: la critica è opera di intere generazioni. E poi... Stiamo col Contini, per il quale “è evidente che quella buona si svolge tutta sopra un solido fondamento verbale”». Ma sui “nomi” amati da Orelli si potrebbe discutere (chiaramente Contini, suo docente a Friburgo negli anni dell’università, è il primo nome da fare), con alcune sorprese: alla lettera J come Jakobson, per esempio, compaiono le Microlectures di Jean-Pierre Richard. Restando alla critica verbale, comunque, i nomi che ritornavano più spesso durante le chiacchierate (anche per alcune loro parole particolarmente felici o memorabili) sono Valéry e 
Mallarmé.


LB: Quello che mi stupisce di fronte a questi ragionamenti di cui sopra è come una solida base teorica lasci tuttavia spazio a impennate di critica e analisi testuale degne di una fantasia straripante, "infantile" nel senso più bello del termine. Ecco, la "fantasia di Orelli" (a mio avviso massima quando si addentra in certe analisi su Dante). Tu l'hai conosciuto e sai dire se questo aspetto fantastico è centrato e come va aggiustata eventualmente questa percezione.
R: Giorgio Orelli era molto curioso e non finiva mai di stupirsi. Penso che questo possa essere un buon punto di partenza – ancorché semplicistico – per avvicinarsi al suo lavoro (parlo della critica come della poesia, della narrativa, della traduzione). E il suo formidabile orecchio, unito all’erudizione ma soprattutto all’incredibile memoria, gli ha permesso di scoprire come pochi altri (forse come nessun altro, almeno in Italia) quanto agiscano sui testi – consciamente o inconsciamente – le infinite risorse del linguaggio. Orelli è stato per esempio capace di leggere passi battuti e ribattuti della nostra tradizione letteraria (come L’infinito, o l’attacco della Commedia) illuminandoli ulteriormente e illustrando caratteristiche che, a posteriori, sembra impossibile fossero rimaste nascoste.

LB: Te la senti di spendere la parola "maestro" per Orelli?
R: Senza ombra di dubbio.

LB: Qual è la tua lettera-parola preferita in questo abbecedario?
R: Da una parte, R come Rösti mi ha sempre divertito molto. Dall’altra, però, G come Goethe è l’ultimo testo battuto a macchina da Orelli per l’abbecedario, e l’ultimo a essere entrato nel libro: forse ci sono ancora più legato.

LB: Il libro è incompiuto (Orelli è morto nel novembre 2013), tuttavia giustamente tu ricordi nella nota introduttiva che non ha molto senso appassionarsi troppo al confine tra compiuto/incompiuto. Secondo te, se ci fosse stato modo di proseguire, quale lettera sarebbe arrivata dopo?
R: Ne sarebbero arrivate molte altre, e altre ancora sarebbero state scartate, poi forse ripescate, poi forse perse. Una lettera che gli avrei ancora proposto? La prima che mi viene in mente è Z come zoo.

martedì 15 luglio 2014

"L'importanza di essere piccoli". Poesia e musica nei borghi dell'Appennino bolognese dal 5 al 9 agosto 2014



Per il quarto anno, dal 5 al 9 agosto, torna “l'importanza di essere piccoli” un festival in cui musicisti e poeti si incontrano riabitando i borghi, i cortili, i sentieri e le radure dei boschi.
La bellezza ruvida dei paesaggi che fanno da sfondo agli incontri e ai concerti è la materia viva del festival che da alcuni anni rende possibile, insieme agli artisti e agli abitanti dei paesi, la parabola della poesia, il suo fremito. I versi oracolari tratti dal poemetto di Amelia Rosselli ‘Libellula, panegirico della libertà’, hanno suggerito l’immagine, emblema di grazia e gravità, un lapsus poetico che nel suo librarsi bilancia le ali e si dona allo sguardo.


io amo più forse,
le colline e le fresche brezze e le verdescuro
pinete, che i giganti passi dell'uomo
a. rosselli


IL PROGRAMMA

5 agosto – “Scaialbengo” centro culturale ippico, Castel di Casio ore 21
DINA BASSO, YARI BERNASCONI, ALBERTO CELLOTTO (letture)
ROBERTO ANGELINI (live acustico)

6 agosto – Molino del Pallone, Granaglione ore 21
LUIGI SOCCI (lettura/incontro)
DAVIDE TOFFOLO (concerto/spettacolo Graphic Novel is Dead)

7 agosto – Pieve della Rocca di Rofeno, Vergato ore 21
MARIO BENEDETTI (lettura/incontro)
RICCARDO SINIGALLIA (concerto)

8 agosto – Capugnano, Porretta Terme ore 21
FABIO PUSTERLA (lettura/incontro)
PEPPE VOLTARELLI (live acustico)

9 agosto – Castagno, Pistoia ore 21
LIVIA CHANDRA CANDIANI (lettura incontro)
MARA REDEGHIERI (concerto progetto Dio Valzer)

Tutti gli eventi sono a ingresso libero e in caso di pioggia si svolgeranno ugualmente nei luoghi indicati.

INFO
www.sassiscritti.wordpress.com
sassiscritti@gmail.com
fb: L'importanzaDiEsserePiccoli
mob: 349 5311807 | 349 3690407
Come raggiungere i borghi:
http://sassiscritti.wordpress.com/come-arrivare/

“L'importanza di essere piccoli” è organizzato dall'associazione culturale SassiScritti Circolo Arci di Porretta Terme (Bo) con la direzione artistica di Azzurra D’Agostino e Daria Balducelli

con il sostegno di
Regione Emilia Romagna, Provincia di Bologna, Comune di Castel di Casio, Comune di Granaglione, Comune di Pistoia, Comune di Porretta Terme, Comune di Vergato, Arci Bologna, Pro Helvetia Fondazione svizzera per la cultura.

con il contributo di
Fondazione del Monte, Banca di Credito Cooperativo Alto Reno, Banca di Imola filiale di Porretta Terme, Gelati Sammontana, Helvetia Thermal SPA Hotel

con la collaborazione di
Associazione “Amici dell’ antica pieve”, Associazione parrocchiale “Beata Vergine della neve” Pro loco di Capugnano, Circolo ricreativo Arci di Piteccio , Pro loco di Castagno, “Scaialbengo centro culturale ippico” di Castel di Casio, Pro loco Molino del Pallone, Libreria l’Arcobaleno di Porretta Terme, Centro turistico La Prossima di Castel di Casio, Arci Pistoia e circolo Arci Sperone, Libreria Lo Spazio di via dell'Ospizio di Pistoia, Anonima impressori di Bologna, The Califfo Pub di Porretta Terme, La Baracchina f.lli Tovoli lago di Suviana, Gelateria La Baracchina di Porretta Terme.

sabato 18 gennaio 2014

La collana "Isola", libriccini di poesia e disegni a cura di Mariagiorgia Ulbar e Andrea Bruno

Storie di collane micro #11

Per chi voglia provare a fare buoni libri di poesia c'è spazio. Forse c'è più spazio che mai. Ovvio che magari dobbiamo scordarci copertine rigide, sovraccoperte, grandi formati e foliazione, distribuzione capillare. Ma questo non significa scarsa cura grafica, anzi. E poi non è in quelli apparati che dobbiamo cercare e possibilmente trovare la poesia, anche se la fattura del libro può ancora rivestire una certa importanza: il blasone di certe collane di poesia storiche ormai inizia a scricchiolare sonoramente. Mi pare di aver sostenuto quest'idea già altre volte e la ribadisco. Un'ulteriore conferma arriva anche dalla nuovissima collana dal nome huxleyano di "Isola" di Mariagiorgia Ulbar e Andrea Bruno. "Libriccini di poesia e disegni" recita il sottotitolo. Libri davvero piccoli, 16 pagine, che però dimostrano una progettazione coerente ed efficace, nata - suppongo - sulla scia di un libretto che oggi potremmo considerare il numero zero della collana, Osnabrück, contenente poesie della Ulbar e illustrazioni di Bruno. Se quel libretto presta forse il format a questa nuova collana, l'ultima sezione de I fiori dolci e le foglie velenose, "Isola", presta il nome a questa nuova collana terracquea. Chi la inaugura? In alto vedete la copertina di Da un luogo vacillante di Yari Bernasconi (1982), poeta della Svizzera italiana che avevamo già potuto apprezzare nell'ultimo Quaderno edito da Marcos y Marcos (si veda anche qui) e che rileggeremo presto per le sue importanti curatele su Giorgio Orelli, in uscita in questo 2014. Il suo libro illustrato da Guido Volpi inizia così: "Correvi nelle stanze disfatte, tra i mattoni, / nel grumo di pareti sbiadite e abbandonate. / Sapevi dove andavi: anche al buio, la sera, / riconoscevi il contorno dei mobili, le tracce / di chi aveva deciso di partire (lasciando tutto). [...]".

Sono contento di aver trovato in un altro libretto della collana, Cosa inutile, l'opportunità di leggere più diffusamente Dina Basso (siciliana di Scordia, classe 1988) che scrive nel proprio dialetto. Nel suo libretto illustrato da Elena Guidolin mi ha colpito in particolar modo questo testo che comincia così: "Arristava abbabanuta / ogni vota ca scupreva / do trasportu de' cavaddi / verso i cursi e no maceddu. / Iddi fermi, supra i rroti / u travagghiu è ddo muturi, / comu u latti dintra i camii / comu i camii da binzina / ca ieunu versu u rifornimentu. [...]" (Restavo abbacinata / ogni volta che scoprivo / del trasporto dei cavalli / verso le corse e al macello. / Loro fermi, sopra le ruote / il lavoro è del motore, / come il latte dentro i camion / come i camion della benzina / che andavano verso il rifornimento. [...]").


"distratti / dal profumo delle rose / abbiamo barattato / il cosa era con il quanto siamo // simili nel gambo // storti nelle pose // dentro un male incorniciato/  stiamo cresciuti / ma completamente soli [...]" La poesia di Sergio Rotino (Lecce, 1958, da tempo a Bologna, tra i fondatori di una delle più belle riviste degli anni passati, "Versodove") è contenuta in Altra cosa da inventare, libriccino stavolta intervallato dai disegni del bravissimo Davide Catania, illustratore dotato di uno dei tratti più convincenti tra quelli che accompagnano questa prima infornata di titoli. La lunga frequentazione del cinema salda in questo volume di "Isola" la compenetrazione tra parole e quel delicato fenomeno che diventa un'illustrazione di queste. Di Rotino vorrei consigliare un piccolo proseguimento qui (ma prima di cliccare arrivate alla fine di questo post, se avete voglia, sennò non tornate più).

L'accoppiata Ulbar-Bruno ritorna dopo Osnabrück in Transcontinentale, volume dove l'ossessione del viaggio dell'autrice abruzzese  nata a Teramo nel 1981 appare sin da un titolo che s'annuncia più come una lacerazione che come un'unione di terre. La rete da pesca della scrittura insulare di Mariagiorgia Ulbar ha rivisitato e riparato tante maglie, se la confrontiamo con il bel libro d'esordio I fiori dolci e le foglie velenose (un libro che ha solo il difetto, a causa della copertina, di finire sicuro dentro lo scaffale "Giardinaggio" delle librerie se nelle librerie dovesse arrivare). Cambia la rete, cambiano le maglie e cambiano i pesci di cui si nutre l'autrice ("che se mangi poi per forza devi espellere / e che questo vale anche per l'affetto" scriveva a proposito nel libro d'esordio), ne restano imbrigliati altri, nuovi animali, nuove peregrinazioni sul tempo con un passo che batte un ritmo tra l'ancestrale e il postatomico: "Pur cercando io non ho mai trovato / una cosa in me che mi rendesse / un essere stanziale , un animale / come un cane, un cinghiale o un lupo. / Vagare per desolazioni ampie / - territori boscosi o di pietre - / lunghe, spaziose, remote / ma sapere riconoscere le proprie."

Una nuova infornata di titoli è già impastata. Di Alessandra Carloni Carnaroli è già pronto Sei Lucia illustrato da Paolo Parisi. Le accoppiate poeti-illustratori annunciate sono degne di nota. Un'anticipazione? Carlo Bordini-Silvia Rocchi, Azzurra D'Agostino-Michelangelo Setola e Fabio Donalisio-Marco Corona. Questo è il sito della collana Isola. Un'intervista di approfondimento e presentazione del progetto di Gianni Montieri a Mariagiorgia Ulbar si può leggere qui.

In bocca al lupo.

giovedì 22 agosto 2013

Viceversa Letteratura, la Svizzera in una rivista trilingue

Riviste #1

Da tempo cullo l'idea di tornare a un vecchio amore, cioè quello per le riviste. (In fondo questo blog è nato dopo aver collaborato per diversi anni a una rivista e per non aver accettato del tutto la fine di quell'esperienza.) E volevo tornare alle riviste proprio da questa cornice del blog, visto che alcune di loro si comportano (o noi le facciamo comportare) come dei piccoli libri brevi, che apriamo, spulciamo, leggiamo a più riprese, a salti. Certe riviste sono come una collezione di libri brevi, di piccole sillogi, di minuscoli libri-intervista. Le riviste poi, quando sono ben fatte, sono importanti tanto quanto i libri ben fatti. Le riviste parlano di libri e a volte si possono ricavare bei libri dalle riviste (in Italia ricordiamo gli esperimenti di Minimum Fax o di Isbn). Canova ad esempio, editore della mia città, pubblicò tanti anni fa una serie bellissima di riviste-antologia in una collana intitolata "Riviste dell'Italia moderna e contemporanea" (Pègaso-Pan, Cronaca bizantinaProspettive/Primato, Strapaese e Stracittà, Fanfulla della Domenica, Riviera Ligure, Il caffè, La frusta letteraria del grande Baretti e molte altre). Io credo che quella collana abbia un discreto potenziale commerciale tuttora, se opportunamente ripubblicata, ma sembra che non sia pensabile una ristampa o riedizione a breve: misteri dell'editoria.

Cercavo comunque il giusto stimolo per aprire uno spazio dedicato alle riviste e questo finalmente è arrivato dalla Svizzera, da Friburgo per l'esattezza, dove ha sede la rivista "Viceversa Letteratura", pubblicata, per quel che concerne l'edizione in lingua italiana, dall'editore Casagrande di Bellinzona. "Viceversa" è una rivista annuale, un volume brossurato ricco che può davvero tenervi compagnia attraverso dodici mesi e quattro stagioni. Ha una redazione multilingue e prende poi tre strade: un'edizione in italiano, una in tedesco e una in francese. Non manca tuttavia, e nei vari dossier e nella consueta "Annata letteraria svizzera" pubblicata alla fine di ogni numero, l'attenzione costante a ciò che si scrive in romancio (così come a quello che si scrive nei dialetti tedeschi).

Il numero di cui vi parlo è il più recente, ma vi consiglio di andare a guardarvi l'archivio degli arretrati, visto che ogni annata cela dei dossier ricchi e polposi. Si crea così uno strano rapporto tra l'anno che trasforma il volume quasi in un annuario e una sorta di intramontabilità di ogni singolo volume. Il numero 7 del 2013 porta in copertina i nomi di Paolo Di Stefano, Anne Perrier, Händl Klaus, Leta Semadeni, Kurt Marti, Monique Schwitter, Étienne Barilier, Maurizia Balmelli (qui già ricordata per le traduzioni da Ágota Kristóf), Christian Viredaz, Christina Viragh, i testi inediti di Ugo Petrini, Noëlle Revaz, Werner Lutz, Ángela Pradelli. Molto interessante per me è stata la scoperta, grazie al contributo dedicatogli da Matteo Ferrari, della figura di Plinio Martini, giunto alla notorietà con il romanzo del 1970 Il fondo del sacco.

Un cenno deve essere riservato anche alla cura tipografica di ogni volume, segnatamente svizzera verrebbe da dire, se non fosse che anche gli italiani, troppo spesso dimentichi dei padri e delle madri che hanno alle spalle in fatto di tipografia e cultura visuale, potrebbero giocarsi qualche buona carta nella storia della cultura tipografica.

Per concludere pubblico (e così farò con le prossime puntate dedicate ad altre riviste) una breve scheda, per agevolare la rintracciabilità e i contatti con la rivista stessa:

Viceversa Letteratura
Periodicità: annuale
Direzione e redazione: Yari Bernasconi (redazione italiana), Ruth Gantert (edizione tedesca), Marion Rosselet (edizione francese)
Sito web: www.viceversaletteratura.ch
Contatti: contact@viceversaletteratura.ch
Twitter: https://twitter.com/viceversa_l

Rivista pubblicata con il sostegno di Ufficio federale della cultura, Pro Helvetia, Fondation de Famille Sandoz, Loterie Romande, Percento culturale Migros, Fondation Leenaards.
Edizione italiana: Edizioni Casagrande
Edizione tedesca: Rotpunktverlag
Edizione francese: Éditions d'En Bas

martedì 2 luglio 2013

"Il passo dell'uomo" di Vanni Bianconi

"Qualsiasi anno di vita è un dottore / che si sbaglia sull'organo malato / ma in confidenza ti segnala dove / lo specialista è l'anno passato." Vanni Bianconi appartiene, senza vincoli di appartenenza, a quella bella orografia (idrografia?) di poeti ticinesi che in questo avvio di terzo millennio costituisce una delle più promettenti formazioni della poesia in lingua italiana. Dico "formazione" non nella sportiva accezione di équipe, ma in un senso più naturale, quasi geologico, di fenomeno che si manifesta allo sguardo. Bianconi vive tra Locarno e Londra. Sua è la cura del Babel Festival che si tiene ogni anno a settembre a Bellinzona. Normale, quando camminiamo da queste parti, pensare subito a Fabio Pusterla, che di questo nuovo libro di Bianconi intitolato Il passo dell'uomo (Casagrande, pp. 64, euro 12,50/CHF 16) firma, ancora una volta, una bella quarta di copertina (quarta di copertina d'autore: versione più discreta ma più incisiva delle tante prefazioni che popolano i libri di poesia in Italia?). Normale pensare anche a molti altri. Per rimanere ai più giovani si può sostare sull'ottimo lavoro di Fabiano Alborghetti, al già ospitato Yari Bernasconi e, scavalcando la generazione di Pusterla, risalire fino ad Alberto Nessi e al grande Giorgio Orelli, anch'egli ricordato su queste pagine tempo addietro. Ricorro a questi nomi per andare davvero a sommi capi, anzi, a somme cime e bacini, come le montagne e i laghi di quella regione. Non posso dimenticare poi di citare, almeno di passaggio, scoperte per me recenti come Matteo Campagnoli e Elena Jurissevich. Tra l'altro, quasi tutti questi autori transitano per la casa editrice Casagrande di Bellinzona, esempio tangibile di un'arte del fare libri ancora viva (strano che spesso siano gli svizzeri a ricordarci le nostre origini tipografiche, la cura nel far libri, l'amore per i caratteri). 

Era necessaria questa premessa? Credo di sì, perché intendevo ribadire una convinzione personale: lì, in quel cantone fortunatamente trascurato dalla chiacchiera poetica della penisola, ormai relegata/delegata e finita in pasto alle riviste più glamour - può accadere, in fondo non credo di essere così bacchettone, ma temo possa diventare una sorta di regola e pericolosa abitudine -, continuano a succedere cose belle per la poesia in lingua italiana e per quella traduzione che positivamente alimenta il farsi della poesia (Bianconi stesso è traduttore, da Somerset Maughan, Faulkner e Auden). E ne Il passo dell'uomo abbiamo conferma di una grande architettura pubblica, uno spazio-libro camminabile, anche grazie ai piedi metrici di una scrittura versicolore. L'architettura e l'architettura di un libro poetico sono arti che si possono comprendere e praticare quando la poesia e il ritmo si raggiungono per davvero. Sono arti "tarde", se proviamo a parafrasare certi discorsi sullo stile di Theodor W. Adorno e Edward Said, nel senso che sono tra le ultime che impariamo a comprendere. Dovrete resistere dalla tentazione di afferrare subito questi testi, ma non perché vi siano tracce d'ermetismo o oscurità. La poesia di Bianconi si tende e distende verso il lettore senza apparenti problemi, eppure è un concentrato di forme minerali che rilascia un contenuto che da liquido si fa solido a poco a poco, come stalattite e stalagmite prossime a formare una colonna di senso, lentissima: un calcare verticale, ma anche un calcare di passi, nel solco in fondo petrarchesco che lo stesso titolo del libro prova a inseguire. Un tratto rimarchevole è l'avvenuto contatto corrusco, in un silenzio e buio di grotta, tra la tradizione anglosassone frequentata anche dal parlante Bianconi (si veda la presenza di Sylvia Plath nella bellissima Poesia della montagna) e quella svizzera, gli orelliani spiracoli che continuamente s'aprono tra gli anagrammi delle parole, tra le lettere che cadono e salgono, che ritornano nella distanza, in un respiro acquatico e sciacquio che potrebbe persino ricordare i suoni di un poeta così lontano come Biagio Marin, nel frastagliato profilo costiero delle rime che chiudono i versi. Nel passo breve di Bianconi c'è anche molto Caproni. Nella passeggiata di questo autore invece possiamo intravedere persino il cappello e la sciarpa invernali di Zanzotto dell'Ipersonetto: nella già citata Poesia della montagna, 14 "pseudosonetti sotto mentite spoglie", concatenati tra loro dalle ganasce di ultimo e primo verso e chiusi da una quindicesima Corona, restituiranno probabilmente il senso dei ragionamenti architetturali che ho provato a fare sin qui.


Significativa, anche se non soverchiante, è la presenza di alcuni testi in traduzione inglese. La domanda che però si insinua suona circa così: si tratta davvero di traduzione? Oppure si tratta di compresenza di due lingue che dicono quasi la stessa cosa? Il lettore potrà rispondere meglio di me a questa domanda. Credo si tratti comunque di un'esperienza inedita e nuova. Come in fondo è nuovo anche il silenzio, polveroso, di frana, che lascia questo libro nelle orecchie del lettore, che un po' ci trasforma tutti in "manzi incapaci di ridere". In Miserere l'annosa questione dell'io, di un io, in poesia e non solo, viene fronteggiata con un testo che potrebbe essere a lungo discusso e analizzato, sigillato da congiunzioni disgiuntive fratte dall'a capo che finiscono per travolgere la stessa parola "io":

Sto in piedi accanto a me
mi sto seduto accanto
sacco di rifiuti in bilico
80 litri, pieno, semiaperto.

Nella plastica sottile
il mio amalgama di organi
gusci cellophane lattine;
accanto a me con brio da coroner

io bisbiglio di bibite e uova;
se misurassi le parole
almeno l'umido nel petto
si farebbe inceneritore.

Non so chi sia l'impostore, io
o io. Siamo raccolti e separati.
Ogni tanto le parole
offrono rifiuti misurati.

Non credo di esagerare se scrivo che in questo "[...] dialogo, anche, aperto e franco con i propri maestri e con i compagni di strada, che l’autore chiama a fraterna raccolta dai due vastissimi territori culturali a lui noti e cari" (Pusterla) si può iniziare un viaggio non facile attraverso l'interrogativo legato al senso dello scrivere poesia nell'Occidente, o quantomeno nel palinsesto d'Occidente ("La poesia è una tecnica per preparare la tela", si legge in Previsione del tempo) che abbiamo ereditato e erediteremo, un po' come i funghi della Plath:

Overnight, very
Whitely, discreetly,
Very quietly

Our toes, our noses
Take hold on the loam,
Acquire the air.

Nobody sees us,
Stops us, betrays us;
The small grains make room.

Soft fists insist on
Heaving the needles,
The leafy bedding,

Even the paving.
Our hammers, our rams,
Earless and eyeless,

Perfectly voiceless,
Widen the crannies,
Shoulder through holes. We

Diet on water,
On crumbs of shadow,
Bland-mannered, asking

Little or nothing.
So many of us!
So many of us!

We are shelves, we are
Tables, we are meek,
We are edible,

Nudgers and shovers
In spite of ourselves.
Our kind multiplies:

We shall by morning
Inherit the earth.
Our foot's in the door.

(Sylvia Plath, Mushrooms)

Ho preferito chiudere così. Ho riportato per intero soltanto una poesia del libro, anche perché esiste un video molto bello della RSI disponibile a questo indirizzo web dal quale potrete ascoltare le poesie de Il passo dell'uomo direttamente dalla voce dell'autore: è meglio se lo guardate e ascoltate, anche per ripulirvi da questi appunti di lettura un po' sciocchi.

giovedì 28 giugno 2012

Poesia Contemporanea. Undicesimo quaderno italiano di Marcos y Marcos

Recentemente è uscito Poesia contemporanea. Undicesimo quaderno italiano per la solita e benemerita Marcos y Marcos (pp. 285, euro 17; direte che 285 pagine non possono dar vita a un "libro breve" eppure, a suo modo, questo è un libro breve), una pubblicazione giustamente attesa, dal momento che di qua sono spesso transitate le voci più promettenti e sillogi importanti. La cura è di Franco Buffoni, mentre le prefazioni ai singoli poeti sono firmate da nomi di rilievo del panorama critico e poetico (Giancarlo Alfano, Rosaria Lo Russo, Paolo Morelli e Carla Vasio, Uberto Motta, Fabio Pusterla e Fabio Zinelli).
Ho chiesto a ciascuno degli autori un testo e, unitamente a questo, brevi risposte ad una microintervista composta di quattro domande. Li ringrazio tutti nuovamente, da qui, per la collaborazione e la simpatia. Mi auguro arriviate sino in fondo, anche se il post è lungo. Ma vale davvero la pena arrivare fino in fondo stavolta.

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YARI BERNASCONI











Una conversazione con T. (frammento)

«Un giorno bombardarono le baracche dove stavamo.
Io ritornavo da un colloquio col mio vestito bello,
l’unico, e una giacchetta beige. Scarponcini puliti.
Cominciammo a scavare, a cercare nel fango
la nostra roba. Ma tutto era stato inghiottito.
Io sembravo un pulcino, tra le macerie:
un punto bianco. Alla fine, sporca e ricoperta di terra,
chiamai mio padre. Non avevamo ritrovato nulla.
In quel momento ci appartenevano soltanto
le nostre ossa».



1. Ultimo libro di poesia letto che ha lasciato il segno?
Indipendentemente dall'avventura comune del Quaderno, dico senz'altro Osnabrück di Mariagiorgia Ulbar.
2. Quali le primissime letture, i poeti che lasciano continuamente il segno?
Senza pensarci troppo (che è anche, credo, l'unico modo per rispondere): Gli strumenti umani di Sereni, alcune cose di Fortini, Lavorare stanca di Pavese e Bocksten di Pusterla. Ma uno dei primissimi libri di poesia letti – o quantomeno sfogliati – è la traduzione dell'Antologia di Spoon River di Edgar Lee Master (scoperta a casa, su uno scaffale).

3. In quale lingua ti piacerebbe veder tradotta una tua poesia?
Forse in tedesco (anche se sarei tentato di rispondere: in qualsiasi lingua a me incomprensibile).
4. Se dovessi cercare una similitudine per descrivere il tuo rapporto con la metrica e il discorso metrico in generale, quale similitudine adotteresti?
Come il silicio per la crosta terrestre.

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AZZURRA D'AGOSTINO













Lago di Suviana

Una passeggiata poco prima di buio, fiori che non si sfanno
nella pineta scricchiolante e un bacino
d'acqua scura dove tremola il doppio del mondo.
Nei tuffi del cane, nei bastoni levati per gioco,
gente coi piedi a bagno, pescatori,
un ragazzino nel silenzio delle fronde. 
Così è questo, l'altro volto del male
un tempo breve, un sollievo elementare.


1. Ultimo libro di poesia letto che ha lasciato il segno?
 Non è l'ultimo ma mi ha lasciato il segno: La steppa e altre poesie di A. Tarkovskij.
2. Quali le primissime letture, i poeti che lasciano continuamente il segno?
Le primissime scoperte son stati tre grandi classici: Leopardi, Ungaretti, Montale e non in quest'ordine.
3. In quale lingua ti piacerebbe veder tradotta una tua poesia?
Mi è successo recentemente di vedere una poesia tradotta in giapponese. Vedere gli ideogrammi e non capirci niente credo sia la cosa più inaspettata.
4. Se dovessi cercare una similitudine per descrivere il tuo rapporto con la metrica e il discorso metrico in generale, quale similitudine adotteresti?
La goccia di un rubinetto che perde.

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FABIO DONALISIO










there is a crack in everything, thatʼs how the light gets in
l.c.

ci sono cose spalancate
o socchiuse
magari spifferi, anche sibili
solo il saldo è concetto contabile
o, sia pur di conti, resa
il sigillo è roba di dio
(ovvero colui che vieta, non dice ma disse)
e la luce, ovunque
entra dalla crepa


1. Ultimo libro di poesia letto che ha lasciato il segno?
Riletto in questi giorni Macello di Ivano Ferrari. Ripropone intatta la violenza nuda e la capacità di incarnare e scarnificare. Grande sfida quella che sto ingaggiando con Sanjut de stran di Luciano Cecchinel, di cui, da dialettofono nordico ma occidentale, sto cercando di estrarre il succo dal legno. Restando in zona, plaudo agli endecasillabi di Francesco Targhetta, con cui la dialettica ormai è longeva. Un “scusate il ritardo”: Giuliano Mesa. Un “simile-dissimile”: l'ultimo Giovenale. Un appello: leggere Sui campi di battaglia di Nicola Peretti.
2. Quali le primissime letture, i poeti che lasciano continuamente il segno?
I primordi, i prodromi. Se proprio devo sceglierne uno, Giorgio Caproni. Tutt'attorno, asserragliati: il Montale tardo e secondario, il Sereni degli Strumenti, Antonio Porta tutto, Pagliarani in vena di brevitas. Poi Ivano Ferrari ancora, arrivato un pelo dopo ma rimasto forse ancora di più, e il Planaval di Stefano Dal Bianco. Due stranieri vivi: Simon Armitage e Durs Grünbein. Un grande vecchio: Leopardi. Un insospettabile: Foscolo sepolcrale. Un “cantante”: Leonard Cohen (ma anche Mick Jagger, Iggy, Cave, Waits, Joey Ramone, per altri motivi). Un poeta in prosa: Roberto Bolaño.
3. In quale lingua ti piacerebbe veder tradotta una tua poesia?
L'inglese che so, e il tedesco che non so, forse. Vorrei vedere i miei accenti seguire schemi quantitativi e i miei sostantivi flessi. Credo suonerei bene in latino, quindi. In cinese per l'effetto che fa il cantato tonale. Per il piemontese mi sto attrezzando da solo. Vedremo con che esito.
4. Se dovessi cercare una similitudine per descrivere il tuo rapporto con la metrica e il discorso metrico in generale, quale similitudine adotteresti?
La metrica è come memoria olfattiva, per me. La riconosci, la annusi con l'emozione, non con il raziocinio. C'è un periodo per educarla, degustarla con l'orecchio. Poi la possiedi senza coscienza e se la cerchi non la trovi.

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VINCENZO FRUNGILLO














Da La parte mancante

[...]
Ma tentare, bisogna tentare,
perché il vuoto valga per ciò che vale,
resti una variante, sia lo sguardo pulsante,
ci distragga per un solo istante, ci porti a fondo,
ci porti a trasformare il tempo in spazio,
in camere e strofe, ci ricordi le parole,
la nostra scommessa finale. "Una volta Celan
chiese al maestro l'ultima parola.

Heidegger rimase scosso da tanta innocenza".
Ripeto la formula, una semplice equazione:
                non si dice ciò che ci precede.
E allora si pone sulla bilancia la propria vita
(e la propria morte), chi tenga in equilibrio il tutto
non si conosce; la chiamo meccanica pesante
questo stare fermi a guardare il sistema di leve
in cui siamo entrati senza far rumore.


1. Ultimo libro di poesia letto che ha lasciato il segno?
Biografia sommaria di Milo De Angelis.
2. Quali le primissime letture, i poeti che lasciano continuamente il segno?
Arthur Rimbaud, Osip  Mandel’štam, Vladimir Holan, Hölderlin, Tasso, Milo De Angelis, Elio Pagliarani.
3. In quale lingua ti piacerebbe veder tradotta una tua poesia?
Tedesco, anche se alcune mie strofe sono già state tradotte in questa lingua.
4. Se dovessi cercare una similitudine per descrivere il tuo rapporto con la metrica e il discorso metrico in generale, quale similitudine adotteresti?
L'agrimensore di Kafka.

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ELEONORA PINZUTI













P’t [post]

Mi rialzo in quest’autunno
scalzo il senso delle tracce
(ardo? agghiaccio? serve?).
Io non fui l’erba,
o la foglia che s’assottiglia,
ma la soglia sempre sospesa,
forse la chiglia.
Ho picchiato in tutti gli angoli del labirinto,
rivisto nelle pozze
le trame, riletto il palinsesto.
Ho adesso muscoli dolenti,
ossa crocchianti,
la rabbia come patina sui denti.
So per certo che la trama è, non vista, nelle glosse.
Che il sentiero è rilkiano, fatto di sassi bianchi,
di sinossi sulla piega della carta.

Mi rialzo. E tolgo ad una ad una le schegge.
Non sono altro che tatuaggio, simbolo,
la polena sulla barca.

Quello che mi interessava di più, in questo testo, era esprimere il tratto biografico, le cadute, le impossibilità, i dolori: si tratta di una interrogazione al “destino”, evidenziato dal mitologema della barca e variato sul gender femminile (la polena). L’ho intarsiato di citazioni dalla tradizione lirica novecentesca per legarlo sia alla filologia, che ha formato la mia giovinezza (le glosse, la trama, la sinossi, il palinsesto), sia a quel meta-scrivere (Rilke e il suo Lettera a un giovane poeta; Le Labyrinthe du monde della Yourcenar) che è, per me, a qualche livello, la metafora stessa della vita e dell’intero libro di Èsodi.


1. Ultimo libro di poesia letto che ha lasciato il segno?
Il più recente è Antonella Anedda, Salva con nome, comprato qualche giorno fa. Ma ogni libro lascia addosso dei segni, dei glifi.
2. Quali le primissime letture, i poeti che lasciano continuamente il segno?
Primissime letture, alle elementari: Leopardi, La quiete dopo la tempesta. Pascoli con Myricae e Petrarca alle scuole medie. Torno sempre alla versificazione italiana (da Dante a Caproni) e ai temi della poesia europea.
3. In quale lingua ti piacerebbe veder tradotta una tua poesia?
Forse in Giapponese, lingua che sembra unire una vocalità melodica alla pittura, ai “mondi in grafia” degli ideogrammi.
4. Se dovessi cercare una similitudine per descrivere il tuo rapporto con la metrica e il discorso metrico in generale, quale similitudine adotteresti?
Mi piace paragonare la metrica al suono delle onde. Per me la metrica perfetta dovrebbe avere quella ritmicità, quella cadenza. E anche quelle burrasche, quelle impennate. Sarà che sono nata sul mare….

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MARCO SIMONELLI










Condominio Magnolia 

La casa nuova mi piace è più grande c’è un ampio salone
c’è anche la stanza per un fratellino 
nel condominio se l’ascensore si rompe ti tocca salire le scale
e un giorno ho portato alla mamma i sacchetti su fino in cima 
le ho dato una mano a portarli all’ottavo piano 
ma quando una volta mi sono affacciato
faceva paura vedere gli omìni piccini picciò 
però non ho pianto mi sono affacciato soltanto una volta
faceva paura pareva cadessi e forse è cascata persino
la mamma dell’altro bambino che vive più sotto

non è che è cascata si è proprio buttata 
è successo mentre dormivi ed era in ciabatte e vestaglia 
diceva da tanto che urlava che povera donna il marito
è quello che ha sempre la borsa di pelle e fa il ragioniere
credo lavori in piazza puccini ma mamma ma mamma
ma come faceva? ma non ci pensava ai bambini?

è malata! è come la pazza del terzo piano che butta
i sacchetti della nettezza dalla finestra! 
va sempre a comprare la birra ne porta su pacchi 
ma quando la vedi non glielo dire mi raccomando
ma quando una volta tornavo da scuola non ho fatto in tempo
a entrare nell’ascensore ho pensato è maleducato 
non aspettare una signora anche se pazza
però quella sembrava normale soltanto puzzava un po’ di sudore 
e io stavo zitto non lo sapevo che dire avevo paura e pensavo
non è che la pazza adesso m’ammazza?

io non lo so come mai se n’è andato il marito
la vedi la panda in fondo al parcheggio? tu guarda è un rottame

in effetti non ha i finestrini né i seggiolini neppure il volante
è tutta vernice scrostata è stato il marito a lasciarla così
tu pensa da quanto quella macchina è lì 

un giorno da qui me ne andrò per entrare in un coma
abbracceranno il mio corpo più morto che vivo e pesante
poi chiederanno una sedia perché non possiamo portarlo
dall’ottavo piano facendo le scale con la barella
è troppo rischioso perdiamo del tempo prezioso
spostalo tienilo eccolo legalo sgombra la stanza
ché fuori ci aspetta l’autoambulanza.  


1. Ultimo libro di poesia letto che ha lasciato il segno?
Voluntary Servitude di Mark Wunderlich. Non è esattamente l'ultimo che ho letto ma senza ombra di dubbio l'ultimo che mi ha costretto a pormi un bel po' di domande.
2. Quali le primissime letture, i poeti che lasciano continuamente il segno?
Avevo sedici anni quando andai per la prima volta in libreria per comprare due libri di poeti italiani: erano Proclama sul fascino di Dario Bellezza e Vuoto d’amore di Alda Merini. Forse hanno lasciato un segno nel senso che il mio lavoro, ultimamente,  sembra costruirsi intorno ai temi dell'omosessualità e del trauma. Il poeta che non smette di lasciare il segno però è Dante, ad ogni lettura. Temo sia inevitabile, soprattutto per un fiorentino.
3. In quale lingua ti piacerebbe veder tradotta una tua poesia?
Ho avuto la fortuna di vedere miei testi tradotti in francese, inglese, tedesco e spagnolo. Mi piacerebbe veder tradotto un mio testo in russo, giapponese o arabo, una lingua insomma anche visivamente più distante dalla mia.
4. Se dovessi cercare una similitudine per descrivere il tuo rapporto con la metrica e il discorso metrico in generale, quale similitudine adotteresti?
Direi che la metrica è una trivella cesellata a mano che penetra un terreno all'apparenza abbastanza desertico.

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MARIAGIORGIA ULBAR












Sono solo un uomo piccolo,
mi rimetterò in cammino
perché fermi stanno solo i morti
e mi vergogno a farmi accogliere da loro.
Andrò sul fondo, sulla sabbia
dove vivono le salme e i relitti
le stanze sotto, le silenziose parti;
voglio andare a vedere di che colore sono
a sentire quale idioma escogitano
lì dove sembra che parlare non si possa.



1. Ultimo libro di poesia letto che ha lasciato il segno?
Dico di quello che sto leggendo: Il grasso di lepre del poeta bosniaco Abdulah Sidran (Edizioni Casagrande), che raccoglie le poesie scritte tra il 1970 e il 2009. Un’immersione nella storia di Sarajevo, ma anche nel paesaggio e nell’immaginario dell’Europa dell’est, che è una parte di mondo che amo e mi attrae. E quella di Sidran è il tipo di poesia che ho voglia di leggere ora, una poesia che racconta, aderente alla realtà e con improvvisi vertiginosi stacchi di metafora. Come la poesia epica.
Poi ci sono le letture e riletture di Amelia Rosselli, Sandro Penna e Osip Mandel’štam, che mi accompagnano in maniera costante.

2. Quali le primissime letture, i poeti che lasciano continuamente il segno?
Appunto, come detto, Rosselli, Penna e Mandel’štam che lasciano continuamente il segno, insieme a certi versi di Pavese, Montale, Cardarelli, Cavalli e, tra gli stranieri, Bachmann e Eliot. Tra le primissime letture in versi: l’epica, l’Inferno di Dante, il Faust di Goethe (letto a 16 anni con pretese di leggerlo in originale, roba da pazzi!), La vita è sogno di Caldéron de la Barca, la prima Merini, anche.
3. In quale lingua ti piacerebbe veder tradotta una tua poesia?
Sicuramente in tedesco. Ma poi inglese, francese, spagnolo, urdu, afrikaans, rumeno, russo, hindi, armeno, turco… Tutte! Non è presunzione, è che le lingue e i passaggi e gli scambi tra esse che avvengono con la traduzione sono quanto di più interessante e stimolante ci sia per chi scrive e ha una formazione linguistica.
4. Se dovessi cercare una similitudine per descrivere il tuo rapporto con la metrica e il discorso metrico in generale, quale similitudine adotteresti?
Due similitudini: l’endecasillabo è come la mamma italiana: sempre legati e sempre a tentare di staccarci, di creare la frattura  e di non lasciare che controlli tutto ciò che facciamo. E poi: la metrica come modo di camminare, andatura: cadenza ritmica e progressione, insomma qualcosa che ti tira avanti, una “macchina” fatta di muscoli volontari e involontari.