Il segmento testuale "uno dei più..." che si trova sovente nelle quarte di copertina o in altri paratesti sta diventando quasi un tic e sarebbe davvero curioso tentare una statistica lessicale in merito. L'avrò usato anch'io su queste pagine, e spero soltanto di averlo fatto in momenti di poca lucidità e poca fantasia. All'espediente però non sfugge nemmeno un decano come Goffredo Fofi il quale, nella nota a Nuovi giorni di polvere (Casagrande, pp. 96, euro 18 - CHF 20), parla di Yari Bernasconi (Lugano, 1982) come di "uno dei più coinvolgenti poeti delle ultime generazioni". Il problema non è quanto Fofi sia lontano da fare centro - pure l'obiettivo di questo mio scritto è simile a quello di Fofi, ossia suggerire la lettura del libro di Bernasconi cercando di metterlo in relazione con altro che ho letto e magari con altro che si scriverà - bensì la scorciatoia critica che queste espressioni spesso racchiudono e il loro avvitarsi sulla base di un principio di auctoritas che ancora, in qualche modo, soprattutto nella critica letteraria, sembra tenere, aggrappato però a una roccia friabilissima. (Penso ora a Mengaldo, che non era estraneo a scorciatoie analoghe, anche se nel suo caso il giudizio di valore diventava spesso un giudizio ben raccordato a un sistema di valori emerso o autoemergente nel testo critico.) Insomma la formula "uno dei più |aggettivo| della sua generazione/delle ultime generazioni" per me diventa ormai automaticamente una sorta di "abuso di posizione critica dominante" se non è supportata da una congrua analisi del testo e sortisce ormai effetti contrari dell'invito a leggere. Non so voi. Quest'auctoritas, fra l'altro, è qualcosa che i poeti intimamente vorrebbero o dovrebbero sempre rifiutare, a trenta come a novant'anni, così come mi pare rifiutarla la vena del polso di Bernasconi. Si noti anche un altro aspetto, ovvero la collosità problematica del concetto di "generazione" in poesia, ripreso anche da Fofi nel suo giudizio che parla di "ultime generazioni"; verrebbe da chiedere: quante generazioni? Quali "ultime generazioni"? Intende quelle dopo la sua? Che cosa ci entusiasma ancora nel parlare per generazioni in poesia e non ad esempio in altri generi letterari o nel campo della ricerca scientifica? Parlare di generazioni inizia ad aver senso se è in atto una vera "questione morale" che le sta attraversando, ma nella megamonogenerazione serpeggiante in cui si ricade spesso oggi tutti quanti, dal-nipote-al-nonno senza soluzione di continuità, da Noto a Oslo, parlare per generazioni rischia di configurarsi come l'ennesimo e fiacco ritrovato del marketing.
Passo finalmente al libro, tralasciando giudizi diretti su autore o biografia, a mio avviso sempre pericolosi e poco fertili. Tra le pagine, fra l'altro, scompare un battito generazionale per lasciar posto a un'anabasi camminata quasi sempre da un'enigmatica, forse inconciliata prima persona plurale (che sia la prima persona plurale il fine e la fine di questa scrittura?). Bernasconi scrive spesso di un noi, a volte esplicito, altre meno. Di polvere, polvere e (nuovi) giorni. Quante polveri conoscete? C'è quella da sparo, quella cosmica, quella che rimane delle lavorazioni e dalle limature, e poi la polvere delle case che si appoggia sui piani. Ci sono polveri più o meno visibili. Ci sono anche le polveri che ulcerano i nostri stati di coscienza e il nostro organismo o quelle farmaceutiche. Ad un livello letterario, almeno per chi scrive, forse per piccolezza di vedute, il rimando più immediato è John Fante di Ask the Dust. In effetti ci sono molte domande che possiamo rivolgere alla polvere. Il titolo rinvia anche a un immaginario biblico e, tutto sommato, sembra sottolineare la portanza e durata del concetto di vanitas vanitatum che può essere ridestata un istante da un'"aria improvvisa" (come in una poesia della serie irlandese). Nel libro la polvere è quella che raccoglie un dito indice che, nell'atlante d'Europa, si sposta a indicare la località estone di Dejevo, nella più grande isola del paese baltico (Lettera da Dejevo fu l'esordio di Bernasconi pubblicato dall'editore Alla chiara fonte) alla Svizzera e all'Italia, per poi tornare a nord con una cospicua sezione irlandese, Piccolo diario d'Irlanda (con Emanuela). In questa sezione abbiamo la riprova che spesso si scrivono i versi più bellamente vagolanti in quello stato di alterazione che il viaggio può comportare, agostinianamente più per la pressione del viaggio sulla pelle dei nostri giorni che per quello che possiamo effettivamente scoprire distanti da casa. Come in Galway: "Se c’è qualcosa di vero in questa strada, tra le case, / attorno ai corpi dei turisti che spingono all’entrata / dei locali, cantando con voci grasse, è tutto / nell’asfalto. L’asfalto levigato e la sua inerzia. / L’asfalto sotto i ciottoli, negli interstizi, nelle crepe. / Quell’asfalto ignorato. // Se c’è qualcosa di vero è già sbiadito, già trascorso."
Facciamo ora un passo indietro. Dopo l'iniziale Dejevo s'apre la sezione dal titolo fortiniano Non è vero che saremo perdonati ("Non è vero che siamo in esilio. / Non è vero che torneremo in patria, / non è vero che piangeremo di gioia / dopo l’ultima svolta del cammino. / Non è vero che saremo perdonati." dai versi del fiorentino). Qui entra il paesaggio della Svizzera, il discrimine del San Gottardo e la sua galleria ferroviaria, il treno per Zurigo, ma poi trovano spazio frammenti di conversazione e "Cartoline", dalla località francese di Saint-Gilles-du-Gard e da quella svizzera di Herisau. Siamo vicini a San Gallo: "Dalle colline si vede San Gallo, rassicurante, / col suo stadio. Gli anziani stanno insieme, salutano / il soldato che torna in caserma dagli altri. / Immacolate, le case e le facciate respingono i prati, / troppo verdi. Ristagna una fierezza vaga: / le nostre donne, le nostre terre, le nostre bestie. // È strano che in un bosco, proprio qui, / ci sia il corpo senza vita di una bambina. / Così stonato. È strano che una terra come questa / dia anche, ogni tanto, di che morire. /". Spesso capita che in questi versi si immischi nel paesaggio un elemento di forte inquietudine, quasi misterioso. Il controllo formale è sempre molto alto, il metro quasi rassicurante anche se non si capisce bene su che cosa rassicuri (ho avvertito in questo l'aspetto intrigante del libro). Di certo Sereni, Orelli e il già citato Fortini sono stati a lungo meditati (Orelli pure conosciuto e frequentato, ricordo infatti la curatela del suo Abbecedario), eppure il piglio più interessante giace dove Bernasconi s'allontana da un'idea di tradizione e calca uno scarabocchio sopra quella che un tempo si chiamò "linea lombarda" ("Siamo cambiati senza movimento: all’oscuro / delle unghie più nere, grati dei sentieri battuti, / le strade e i cortili puliti. Sangue? Macerie? / La guerra vera era noiosa: distante e prevedibile.").
Lungo la Landstrasse è una sezione anaforica. Molte poesie di questo terzo movimento del libro iniziano infatti con "Siamo": "Siamo diversi, ma il sangue dei nostri padri / è rosso. [...]", "Siamo tanti, ma presto ci perderemo.", "Siamo in viaggio, ma non in fuga. [...]", "Siamo selvaggi, dicono, come se fosse / un problema. [...]", "Siamo felici nella nostra carovana, tra i volti / che conosciamo. [...]", "Siamo indifesi davanti ai bastoni / che sembrano forconi; [...]". Anche qui torna prepotente la prima persona plurale, di cui si diceva sopra. La quarta sezione, La montagna di fuoco, raggruppa solamente due prose poetiche e la poesia intitolata "Residui". Ora, se vogliamo criticare chi scrive di residui possiamo farlo, possiamo giocare a individuare i pusterliani in Ticino o in Italia (poco cambia), resta che a mio avviso scrivere di residui significa accogliere nell'opera qualcosa che è etimologicamente ma anche ontologicamente rimasto indietro. Io penso allora, per contrapposizione, più che a Pusterla, a I compagni corsi avanti del Vocativo zanzottiano, quel finale "[...] Strugge la mite / notte Hitler, di fosforo, e congiunta // in alito di belva sugli estremi / muschi dardeggia Diana le impietrite / verità della mia mente defunta." Quest'associazione dovrebbe tornarmi utile per un pensiero alla fine.
La sesta sezione segue la già ricordata Piccolo diario d'Irlanda (con Emanuela) e si intitola Se camminiamo. Questo è anche il titolo della prima poesia: "Se camminiamo è per andare avanti, / per cercare qualcosa, per non abbandonare / una speranza. Dimenticando tutto il resto. / Tornare ha sempre avuto poco significato. / Tornare dove? Riconosciamo i sassi / e gli orizzonti: i sentieri ci dicono / che ci siamo, che andiamo.". I toni tornano intimi (stavo per scrivere intimissimi), quasi un morettiano diario senza le date ma ritorna forte un senso del luogo, come nel "luogo vacillante" di un testo, nella ferroviaria "Berna–Milano–Napoli (quadretto di genere)" o nella poesia conclusiva "Un commiato" che termina con questi versi: "L’acqua che passa si è già presa il domani. / Io ti scrivo da qui, dove poi si scompare. / Perdona se non tornerò in quello spazio / perenne.". Questo richiamo ai e dei luoghi resta, come residuo, uno degli aspetti più coinvolgenti e convincenti di queste poesie. Se restassimo alle parole di Fofi, spostando l'accento più sull'opera che sul nome del poeta, mi domanderei allora dove e in che misura è "coinvolgente" la scrittura poetica di Bernasconi? Paradossalmente - e non intende essere un gioco di contrari - è tanto più coinvolgente quando ci parla in modo chiaro, anche se obliquo, di una esclusione che ci riguarda. Non mi riferisco alla sbandierata esclusione di una (nostra?) generazione al cospetto della Storia, ma a quell'esclusione forse salvifica e persino rassicurante che sperimentiamo nel viaggio e nel sentimento di un luogo, è la nostalgia "di seconda mano" richiamata in un testo di spostamento tra la Svizzera e l'Italia, sempre nella sezione conclusiva del libro. Può essere persino il rischio di un'esclusione perenne dall'azione e in questo i versi provano a tenere alta la guardia. Non è e non può essere l'esclusione da un'autonomia di pensiero che dobbiamo comunque provare a conquistare se non vogliamo cadere in quella pressoché unica, lunga e sinuosa generazione destinata a essere fatta a pezzi all'occorrenza, per questo e quell'utilizzo nella macelleria del reale o del virtuale. Attraverso il perseguimento di una spazializzazione e scansione della propria scrittura, Bernasconi rimane aggrappato a quell'esclusione, spesso incistata nei luoghi, ma che da sola può divenire il fondamento di qualsiasi principio-appartenenza, di un'anabasi forse incompiuta e tuttavia senza ritirata: "Tornare ha sempre avuto poco significato. / Tornare dove?", appunto.
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