martedì 31 ottobre 2017

"Scatola sonora" di Alberto Savinio: la musica al suo primitivo significato di "moys", di acqua

Musicali pretesti #15

Di tanto in tanto, una notizia su un libro e un brano da ascoltare, al libro collegato.


A rammentarci lo spessore della critica musicale di Alberto Savinio giunge un libro considerevole come Scatola sonora (Il Saggiatore, pp. 600, euro 44, a cura di Francesco Lombardi, con un saggio di Mila De Santis). Considerevole per lo spettro di contenuti, nomi, situazioni affrontate, ma anche per l'ampiezza della trattazione. È un libro che si può consultare con incursioni brevi, discontinue e rabdomantiche e non necessariamente leggere "tutto d'un fiato" (gli editori ci vorrebbero tutti campioni di apnea e di velocità, salvo poi spesso propinarci libri sul valore della lentezza). Si sa, parlare e scrivere della musica è una delle attività più difficili. Basti oggi prendere in mano una qualsiasi rivista musicale alla rubrica recensioni e si scoprirà come pochissime siano le penne capaci di dire qualcosa di un disco o di una esibizione dal vivo. Non credo sarebbe difficile inventare - e forse qualcuno ci ha già pensato - un word processor mixer e frullatore che, programmato con un po' di ingredienti, sappia restituire una recensione già bella e confezionata, pronta a comparire nel grande "recensionificio" del discorso musicale (per contro, se vi capita e se vi interessa, riflettete invece su come la recensione sia quasi del tutto scomparsa dall'ambito dei libri di poesia). Molto più semplice provare a restituire qualcosa su un libro letto che su un disco ascoltato, almeno così mi pare. Parlare e scrivere di musica resta un'attività faticosissima e inavvicinabile ai più. Servono conoscenze plurime, intuito e intelligenza in pari grado, umiltà non finta, persino una certa dose di irriverenza. Il libro che la casa editrice Il Saggiatore propone raccoglie gli scritti a tema musicale che Savinio scrisse per diverse testate in un quarto di secolo circa, tra gli anni Venti e il secondo dopoguerra. Ecco un passaggio che restituisce almeno parzialmente la temperatura della sua scrittura e del suo stile, i veri ingredienti stupefacenti di questa lettura:
Torniamo alle Stagioni di Domenico Scarlatti. Il clavicembalo, che ogni tanto rimaneva solo per accompagnare i recitativi dell’estate o dell’inverno, dell’autunno o della primavera, ha per sua natura una voce di zanzara; a maggior ragione dunque, quando la falange macedone dell’orchestra tornava a rovesciarsi sul povero clavicembalo, noi spettatori pietosi ma inermi pensavamo agli effetti micidiali del “flit”.
Savinio cala spesso le giuste domande e saper porre le domande non è questione da poco. Significa saper porsi in un flusso che ci preesiste e che continuerà dopo noi. Ci è particolarmente chiaro in un passaggio come questo:
Nel maggio scorso sentii un concerto sinfonico alla Scala diretto da Erich Kleiber. Nel programma alcuni frammenti del Wozzeck di Alban Berg. Applausi scarsi alla fine e molti zittii. Io allora mi domandai: «E possibile una politica estera se si zittisce il Wozzeck?».
Pagine utili sono dedicate a Dallapiccola ("musico cartesiano") e ricca è la trattazione su Debussy, Stravinsky, Richard Strauss, Rossini, Tullio Serafin (il primo a dirigere Wozzeck di Berg in Italia nel 1942), Verdi, Wagner. Uno dei periodi su cui Savinio sembra più a suo agio e più in forma smagliante è il secondo Settecento. Pagine sicure e tese sono anche quelle su Goffredo Petrassi, il pretesto musicale di oggi, con il suo Coro di morti (parlando della sua musica Savinio nota che "egli la scrive sulla calce fresca, come si dipingono gli affreschi"):
"Goffredo Petrassi ha il doppio merito di aver scritto Coro di morti e di non averlo scritto per il teatro. L’avventura teatrale nella quale questo “madrigale” viene a trovarsi implicato non solo non gli giova ma nuoce pure a quel che di leopardianamente ispirato c'è in esso meno nelle parti corali a dir vero che in quelle puramente sinfoniche come nel gran movimento fugato del centro e nella gelida sonorità delle battute finali."


giovedì 26 ottobre 2017

"Ida o il delirio" di Hélène Bessette o reificazione del corpo (morto)

Se in tante case editrici italiane arrivasse oggi un dattiloscritto concepito similmente a questo Ida o il delirio di Hélène Bessette (Nonostante, pp. 184, euro 17, traduzione di Silvia Marzocchi, postfazione di Annalisa Lombardi), credo che ci sarebbero poche possibilità di vederlo passare ai playoff. Di certo se aleggiasse un pregiudizio positivo sull'autore, ingrediente importante e tuttora ingranaggio fondamentale della macchina editoriale, regno primario di un certo pregiudizio, allora potrebbe verificarsi una qualche possibilità di lettura e, infine, di pubblicazione di un testo del genere. Resta il fatto che si tratta di uno di quegli scritti che mettono giustamente in crisi le nostre certezze e abitudini talvolta malsane di lettori nonché quelle degli editori, i quali restano sicuramente interessati alle opere degli autori, ma continuano a usare il filtro autoriale in modo preponderante. Ho cercato di usare la parola "pregiudizio" senza le usuali connotazioni negative, perché non avrebbe senso trascinare quelle connotazioni nell'ambito editoriale, dove il pregiudizio ha un valore di risparmio di tempo e economia/ecologia della scelte. È un libro di prosa questo Ida o il delirio, ma potrebbe essere immaginato come un testo per il teatro a più voci, potrebbe essere addirittura descritto come un continuo intervallarsi di prosa e poesia, tanto sono frammentati gli enunciati, così da assomigliare, persino tipograficamente, alla configurazione di certe nostre chat. In realtà, se ripercorriamo le vicende teoriche che riguardarono la sua autrice, si dovrebbe parlare di "romanzo poetico". Al centro della scena (scena del discorso e non dell'azione) vi è Ida, che è però appena morta. Il personaggio principale è quindi protagonista di una assenza, evocato da un profluvio di voci che ricordano petulanti com'era prima della morte causata da un camion che l'ha travolta, scaraventandola a otto nove metri di distanza, mentre annaffiava i fiori a tarda sera, come le piaceva fare. Si verifica quindi la situazione di un personaggio-fantasma morto da poco, che non riesce da solo a muovere e intrecciare una vera e propria trama, ma che semmai innesca uno stordente e assurdo - in termini logici e terminologici - "monologo a più voci", il quale però non riesce a essere prensile sul "noumeno-Ida". Ed è per questo che Ida o il delirio non presenta una vera trama, altro motivo per cui forse sarebbe poco appetibile a editori in cerca di trame che sostengano libri che si leggono "tutti d'un fiato". Quella "o" del titolo, così in linea con una certa tradizione segnatamente francese (Candide, ou l'Optimisme di Voltaire, Justine ou les Malheurs de la vertu di Sade o Corinne ou l'Italie di Madame de Staël) svolge più una funzione congiuntiva che disgiuntiva, come ricorda con il Genette di Soglie Annalisa Lombardi nella sua mirabile postfazione.

Ida è la domestica dei Bessons, "un uccello notturno" dai piedi grandi che era solita contemplare in continuazione. Sulla scena arriva allora, necessariamente, il silenzio della domestica appena deceduta, annacquato dalle chiacchiere di chi, sopravvissuto, la ricorda. È come se la domestica venisse investita due volte, prima dal camion e poi dalle voci che si attivano dopo la sua morte e che tuttavia non riescono ad acciuffare un bel niente. Un corpo reificato come quello di Ida - la stessa reificazione su cui, più di quanto crediamo, si fonda la trama delle nostre esistenze - è reificato allora persino da cadavere. Sempre Annalisa Lombardi, cercando i modelli attivi in quest'opera, rimanda al Faulkner di Mentre morivo, notando però come in quel caso, attorno alla bara, si stringa una serie di monologhi. L'opera mette in scena le voci, il fiato, il ricordo post-mortem in un profluvio discorsivo che s'avvicina via via all'assurdo, all'inautentico becero del linguaggio, all'abisso delle domande lasciate sospese dalla sua morte, quelle normali che tutti si porrebbero: hanno voluto ucciderla? Si è suicidata? Si è trattato di un semplice incidente? Più che rinverdire certi discorsi sulla letteratura dedicata agli "ultimi" dal "cuore semplice", più che rifarsi alla critica della classe sociale che disponeva del lavoro di Ida (critica che comunque fa parte dell'opera) e più che sdilinquirsi in ragionamenti che riguardino nuove tragiche eroine dell'assenza, Ida o il delirio diventa un discorso di vivi che tastano con certezza l'illusione molle del proprio linguaggio quando riferito all'identità personale, alla storia, diventa una pacchiana fissazione del personaggio eseguita dai sopravvissuti, diversa dalla fissazione che aveva Ida per i propri grandi piedi.


Se oggi leggiamo i libri di Hélène Bessette in italiano è grazie alla casa editrice Nonostante, che fra l'altro sta sostanzialmente riproponendo, quasi in solitudine, una larga parte della letteratura francese uscita dai cataloghi degli editori considerati maggiori (Alain Robbe-Grillet, Marguerite Duras che di Bessette fu tra le più grandi ammiratrici, Nathalie Sarraute, Claude Simon, Jean Cayrol). Si tratta del secondo libro di Bessette tradotto in italiano, dopo l'epistolare vicenda de La rottura, pubblicato lo scorso anno, sempre nella traduzione di Silvia Marzocchi (anche quel libro è intelaiato attorno a un'assenza). Ida ou le délire apparve nel 1973 da Gallimard e fu in realtà l'ultimo di una serie di titoli che l'editore francese riservò a Hélène Bessette, dopo due decenni di collaborazioni iniziate nel 1953. Ora la sua opera in Francia è stata ripresa dall'editore Léo Scheer. L'autrice, che aveva fondato la Gang du Roman Poétique (G.R.P.) a Parigi nel 1956 e che per forza di cose non poteva essere estranea al gran daffare che suscitò la discussione sul romanzo, primariamente in Francia, ci offre così una bella sponda su cui riflettere e far rimbalzare la pallina impazzita del romanzo, restando all'interno della cornice borghese che ha partorito e forse ibernato il romanzo stesso. Al fondo resta in Ida o il delirio il senso di un'opera sull'uomo, sul non sapere nulla di Ida, del suo problema. E quello che colpisce è l'allestimento di voci che Bessette impagina, il ritmo stranito che compongono, pur nella loro risibile sicumera e vanità, persino il pessimismo gnoseologico attorno alla narrazione e al personaggio. Resta la vacuità discorsiva che la morte genera, resta un calco di calcoli affannati e l'impronta. Nella nota già ricordata, Annalisa Lombardi riporta in epigrafe un passo da La riva delle Sirti di Julien Gracq (da poco riproposto da L'orma editore): "Come se le parole, tutte le parole di una giornata, disegnassero ostinatamente una impronta: l'impronta di un qualche cosa; ma un'impronta che resta sempre vuota." Ida è quindi un personaggio-impronta, che resta vuota e riempita solo da un flatus vocis che non crea nulla e celebra la propria inanità sull'altare di un delirio, di ciò che etimologicamente esce dal solco.

domenica 22 ottobre 2017

I "Pensieri" di Alfonso Gatto tra Saba, Sbarbaro e Savinio

Quote #18

"To repeat or copy the words of another, usually with acknowledgment of the source." Questo il verbo "to quote". Ma in italiano "quote" è il plurale di quota, parola che mi interessa soprattutto nel senso della misura di un'altezza o di un lato. Citando e contestualizzando minimamente passi importanti, cerco un modo assai svelto di dar notizia di libri significativi, possibilmente brevi. Stando breve, pure io.


Impressionanti per mole, estensione e sporgenze questi Pensieri di Alfonso Gatto che l'editore Aragno ha pubblicato in una edizione come sempre di pregio a cura di Federico Sanguineti (pp. 370, al prezzo invitante, considerando la consistenza del volume, di soli 15 euro). Si tratta di grande libro di scrittura aforistica, ma non solo. Vi sono pensieri che superano la misura consueta dell'aforisma e i due esempi che a breve riporteremo ne sono conferma. Il curatore ha anteposto una premessa e ha concentrato il suo lavoro in un implacabile apparato di note che suggella il volume. Sanguineti accosta questo libro a Scorciatoie e raccontini di Saba e a Fuochi fatui di Camillo Sbarbaro (ma anche a La linea gotica di Ottiero Ottieri, la quale, datando 1962, è sicuramente più vicina a Gatto). Naturalmente tornano titoli come Zibaldone e leggendo certi "numeri" di questi pensieri credo possa ritornare alla mente la prosa vibrante delle voci di Nuova enciclopedia di Alberto Savinio (se n'è parlato qui). I pensieri, composti tra il 1964 e il 1971 e conservati in cinque quaderni manoscritti presso la fondazione Alfonso Gatto di Salerno, sono una risorsa sorprendente per avvicinarsi alle illuminazioni e ai fantasmi di una speculazione che si apre all'insegna di una singolare operazione matematica esposta così:


[Diario - prosa = poesia]

Il pensiero seguente, isolato tra i moltissimi altri, a mio avviso offre un bell'esempio di come la mente di Gatto si sganci dalla prime righe per arrivare ad altro. È l'agilità tipica dell'aforisma, della prosa che non ha l'ossessione di essere romanzo o racconto, e nemmeno del finito. E, diciamocelo, quando questa ossessione di impacchettare romanzi o racconti verrà meno si potranno sprigionare vere forze. Forze che forse si sprigionano ora nella migliore scrittura diaristica o aforistica, ora nelle corrispondenze, ora nella prosa filosofica e in altre forme di prosa che possiamo provare a scoprire o a tradurre, se già tentate altrove.
Ho sempre invidiato gli uomini che a quarant’anni restano soli con un figlio di dieci: tra i due è da immaginare la più dolce amicizia, la più delicata tristezza. (Ogni uomo ancora giovane ha sognato di avere un figlio, lasciatogli da una donna partita per sempre, ma non morta.) Chi crede di poterlo negare a se stesso è, quanto all’amore per la donna, un marito o un amante da nulla.
Una delle più flagranti contraddizioni del nostro tempo è che l’uomo si lascia dirigere anche nel timor proprio, cioè nel timore che ha o dovrebbe avere di sé: si lascia pensare e rilanciare in una scommessa d’avvenire, in una continua perdita dei suoi limiti, nello stesso tempo in cui è dominato (e direi “occupato”) dalla paura e dal terrore della morte. Questa paura e questo terrore della morte così restano nella storia, a causa di quel “doppio passo” con cui l’uomo d’oggi, nella fiducia in un progresso più veloce di lui, teme tuttavia di non giungere in tempo a [a soprascritto a per] usufruirne per una vita più lunga, se non addirittura per una rigenerazione, per una rinascita. Una alternativa, insieme primitiva e finalistica punge ed esaspera gli uomini – e non soltanto coloro che al vertice di una fortuna economica possono e potranno assicurarsi gli strumenti della propria longevità e della propria riedificazione fisica – ma anche tutti gli altri, il numero, che è già oggi sono al di qua delle assicurazioni e delle assistenze che la scienza può dare e che ancora di più lo sarebbero domani per gli alti costi economici delle ibernazioni, dei trapianti e di tutte le altre ipotesi di rifacimenti e di riprese vitali che si promettono. È la vera tragedia di una speranza che vuole essere e si dice singolarmente pessimista per quanto ha fiducia in un “futuro collettivo”. (Pensiero 448, pp. 203-205)
Poco sopra, nel numero 445, troviamo un pensiero che si apre all'insegna della scultura e vale la pena riportare. Le incertezze del manoscritto (si è visto anche nel pensiero precendente) sono segnalate puntualmente dal curatore e inondano l'aria della prosa con un sentore di non-finito che si protrae come un bell'interrogativo e talvolta anche come un buon aroma:
Fossi scultore, chiederei ai luoghi, ai particolari silenzi di uno spazio, quale presenza vogliono, quale assenza evocare. Questa presenza, questa assenza, insieme sono la "statua", per la cui identità, raggiunta nella pietra nel bronzo nel ferro - materie dotate di propria autorità e di propria legge interiore atte a contrastare l'intuizione, - ha da essere virtualmente umana, quale umano è ogni segno dell'uomo, anche il più religioso e il più astratto. La statua, cerco di spiegarmi, nasce sempre da una "somiglianza", la "somiglianza" reale e la "statua" ancora irreale. Può "essere" la somiglianza di una cosa che ancora non è, e tuttavia reale, di quale realtà? La statua (la scultura) nasce dall'assedio storico di tutte le presenze che si sono dileguate e che tornano ad apparire e a sparire con una velocità da luce che non ci è dato cogliere. Questo fa sì che è nell'aria di un luogo l'attesa della "presenza"-["]forma" che dovrà abitarlo fermandosi [,] è il veloce apparire-sparire di tutte le altre presenze che per approssimazione si sono via via rivelate e proposte. La somiglianza è l'ironia veloce dell'[ms. della] intuito che sorprende la meditazione. Si dice tempo di uno stesso tempo. In questa meditazione sarà dopo il dominio visuale della presenza-statua, ma è prima in noi ascolto, una pausa nel luogo che andiamo fissando [in interlinea: scoprendo]: e ancora più lo spazio dei nostri pensieri e delle memorie nostre. La "materia" in cui si va concependo la "somiglianza"[;] la probabilità errante è il lavoro sulla materia, verso la materia[,] l'intuito del fare[.] (Pensiero 445, pp. 202-203)

venerdì 20 ottobre 2017

Poesie di Juan Manuel Roca nella traduzione di Stefano Strazzabosco

Accanto ai ratti di "al cor gentil ratto s'apprende" con le loro poesie inedite, compare un altro animale per nominare uno spazio dove si ospitano traduzioni di poesia: lo stregatto o Gatto del Cheshire di Lewis Carroll. Ratti e stregatti, insomma. Adotterò pregiudiziali e faziosi criteri per vagliare proposte di traduzioni, anche nei casi di lingue totalmente sconosciute come russo, coreano o giapponese (insomma, mi baserò su un traballante concetto di fiducia). Il gatto qui sopra è un particolare del dipinto "San Girolamo nello studio" di Antonello da Messina. Al di là delle molteplici simbologie e caratterizzazioni dei gatti, da Antonello a Carroll (Dante non è tornato utile stavolta perché un po' li snobba), qui proviamo a stregarvi con nuove traduzioni facendo le fusa. L'augurio è incoraggiare la traduzione poetica che un po' latita, anche nelle generazioni più giovani, e che qualche stregatto un giorno possa precipitare altrove, anche in un libro se capita.


Juan Manuel Roca
Quando il fuoco conversa con l’aria
Versioni di Stefano Strazzabosco


POETICA

Dopo aver scritto sulla carta la parola coyote
Occorre stare attenti che quel vocabolo carnivoro
Non s’impossessi della pagina,
Che non riesca a nascondersi
Dietro alla parola iacaranda
Per aspettare che passi la parola lepre, e straziarla.
Per evitarlo,
Per dar voci d’allarme
Nel momento in cui il coyote
Prepara furtivo la sua imboscata,
Certi vecchi maestri
Che conoscono gli esorcismi del linguaggio
Consigliano di tracciare la parola cerino,
Sfregarla sulla parola pietra
E accendere la parola falò per tenerlo lontano.
Non c’è coyote o sciacallo, non c’è iena o giaguaro,
Non c’è puma né lupo che non fugga
Quando il fuoco conversa con l’aria.


TESTAMENTO DEL PITTORE CINESE

Quando il sobrio Imperatore
M’intimò di cancellare dal quadro una cascata,
- Il gorgoglio incessante gli turbava il sonno –
Da buon cortigiano gli obbedii
E sfumai il suo torrente.
Tuttavia, nascosi dietro al disegno di un ciliegio
Una rana che gracchia
E che l’anziano Imperatore confonde
Col suo cuore agitato.
In un paravento di lino dipinsi me stesso
Nell’atto di disegnare un cavallo.
La notte dopo spaventai col pennello il cavallo,
Perché non sopportavo i suoi nitriti.
Presto cancellerò la mia figura crepuscolare dall’olio,
- Imperatore del mio corpo –
E sapranno che sono della stessa materia
L’assenza di un uomo o di un cavallo.


ANTIPREGHIERA (Un reclamo per i poeti)

Nemmeno se tu mi dessi la lingua
E il tatto del Re Salomone,
Nemmeno se mi dettassi un bel Cantico
Che dissetasse al labbro di qualche moabita,
Né ricevendo in dono la figlia del Faraone,
Né per un cavallo nero
Che sguazzasse nella pioggia
E scalpitasse sotto un cielo d’olivi,
Né per la dignità del vento
O di un grande signore nelle vigne di Baal,
Né in cambio di un prospero commercio
Di botti di vino e di boschi aromatici,
Potrò capire, Signore,
Che nella lingua di John Donne,
La stessa di tuo figlio William Blake,
Si continuino a ordinare i massacri.


PARABOLA DELLE MANI

Questa mano prende un frutto,
L’altra lo allontana.
Una mano riceve il falco, si toglie un guanto,
L’altra lo scaccia, accende una fiaccola.
Una mano scrive lettere d’amore
Che la sua losca siamese infarcisce di ingiurie.
Una mano benedice, l’altra minaccia.
Una disegna un cavallo,
L’altra un puma che lo spaventa.
Dipinge un lago la destra:
L’affoga in un fiume d’inchiostro, la sinistra.
Una mano traccia la parola uccello,
L’altra ne scrive la gabbia.
C’è una mano di luce che fabbrica scale,
una d’ombra che allenta i loro pioli.
Ma viene la notte. Viene
La notte quando stanche di ferirsi
Concedono una tregua a quella guerra
Perché cercano il tuo corpo.


PREGHIERA AL SIGNORE DEL DUBBIO

Più che fede, concedimi un bagaglio di dubbi.
Sono loro il mio ponte, il mio affluente, le mie onde.
Venga a noi il Regno dell’Incerto.
Tieni in bilico le mie verità,
Concepite, morte e sepolte
Nei telai dell’oblio. Portami
In mezzo alle tue sabbie mobili,
Fa’ che io mangi il pane dello scacco,
Che beva l’acqua del silenzio.
Non c’è trucco né inganno:
Ferito, sono io il mio barelliere.
Siano le certezze i palazzi di neve
Che qualcuno assedia col fuoco.
Signore del dubbio, nel caso in cui tu esista,
Ascolta la preghiera di questo miscredente.


CANZONE DEL FABBRICANTE DI SPECCHI

Fabbrico specchi:
All’orrore aggiungo altro orrore,
Altra bellezza alla bellezza.
Porto in giro la luna di mercurio:
Il cielo si riflette nello specchio
E allora i tetti ballano
Come in un quadro di Chagall.
Quando lo specchio entrerà in altre case
Cancellerà tutti i volti già noti:
Gli specchi non raccontano il passato,
Non mostrano chi un tempo ci abitava.
Qualcuno costruisce delle carceri,
Sbarre per gattabuie.
Io fabbrico specchi:
All’orrore aggiungo altro orrore,
Altra bellezza alla bellezza.




POÉTICA

Tras escribir en el papel la palabra coyote
Hay que vigilar que ese vocablo carnicero
No se apodere de la página,
Que no logre esconderse
Detrás de la palabra jacaranda
A esperar a que pase la palabra liebre y destrozarla.
Para evitarlo,
Para dar voces de alerta
Al momento en que el coyote
Prepara con sigilo su emboscada,
Algunos viejos maestros
Que conocen los conjuros del lenguaje
Aconsejan trazar la palabra cerilla,
Rastrillarla en la palabra piedra
Y prender la palabra hoguera para alejarlo.
No hay coyote ni chacal, no hay hiena ni jaguar,
No hay puma ni lobo que no huyan
Cuando el fuego conversa con el aire.


TESTAMENTO DEL PINTOR CHINO

Cuando el sobrio Emperador
Me conminó a borrar del cuadro una cascada,
—El chapoteo incesante espantaba su sueño—
Como buen cortesano obedecí
Y esfumé su torrente.
Sin embargo, oculté tras el dibujo de un cerezo
Una rana que croa
Y que el anciano Emperador confunde
Con su agitado corazón.
En un biombo de lino me pinté a mí mismo
Al momento de dibujar un caballo.
Una noche después espanté con el pincel al caballo,
Pues no soportaba sus relinchos.
Pronto borraré mi crepuscular figura del óleo,
—Emperador de mi cuerpo—
Y sabrán que es de la misma materia
La ausencia de un hombre o de un caballo.


ANTIORACIÓN (Un reclamo por los poetas)

Ni aunque me dotaras con la lengua
Y el tacto del Rey Salomón,
Ni aunque me dictaras un bello Cantar
Que abreve en labios de alguna moabita,
Ni recibiendo en dádiva a la hija del Faraón,
Ni por un caballo negro
Que chapotee en la lluvia
Y piafe bajo un cielo de olivos,
Ni por la dignidad del viento
O de un gran señor en las viñas de Baal,
Ni a cambio de un próspero comercio
De toneles de vino y bosques de olor,
Lograré entender, Señor,
Que en la lengua de John Donne,
En la misma de tu hijo William Blake,
Se sigan ordenando las matanzas.


PARÁBOLA DE LAS MANOS

Esta mano toma un fruto,
la otra lo aleja.
Una mano recibe al halcón, se quita un guante,
La otra lo ahuyenta, prende una antorcha.
Una mano escribe cartas de amor
Que su equívoca siamesa puebla de injurias.
Una mano bendice, la otra amenaza.
Una dibuja un caballo,
La otra, un puma que lo espanta.
Pinta un lago la mano diestra:
Lo ahoga en un río de tinta, la siniestra.
Una mano traza la palabra pájaro,
La otra escribe su jaula.
Hay una mano de luz que construye escaleras,
Una de sombra que afloja sus peldaños.
Pero llega la noche. Llega
Cuando cansadas de herirse 
Hacen tregua en su guerra
Porque buscan tu cuerpo.


ORACIÓN AL SEÑOR DE LA DUDA

Más que fe, dame un equipaje de dudas.
Ellas son mi puente, mi afluente, mi oleaje.
Venga a nos el Reino de lo Incierto.
Mantén en vilo mis verdades,
Concebidas, muertas y sepultadas
En los telares del olvido. Llévame
Por las arenas movedizas,
Dame a comer el pan de la derrota,
A beber el agua del silencio.
No hay timos ni trucajes:
Estoy herido y soy mi camillero.
Sean las certezas palacios de nieve
A los que alguien asedia con el fuego.
Señor de la duda, si existieras,
Escucha la oración del descreído.


CANCIÓN DEL QUE FABRICA LOS ESPEJOS

Fabrico espejos:
Al horror agrego más horror,
Más belleza a la belleza.
Llevo por la calle la luna de azogue:
El cielo se refleja en el espejo
Y los tejados bailan
Como un cuadro de Chagall.
Cuando el espejo entre en otra casa
Borrará los rostros conocidos,
Pues los espejos no narran su pasado,
No delatan antiguos moradores.
Algunos construyen cárceles,
Barrotes para jaulas.
Yo fabrico espejos:
Al horror agrego más horror,
Más belleza a la belleza.



Queste poesie sono tratte dalle raccolte Cittadino della notte (1989), La farmacia dell’angelo (1995), Un violino per Chagall (2003), Le ipotesi di Nessuno (2005), Biblia pauperum (2012), Tempo di statue (2014).


Juan Manuel Roca (Medellín, Colombia, 1946) è poeta, saggista, critico d’arte, narratore e giornalista culturale. Considerato una delle voci più importanti della poesia latinoamericana attuale, le sue principali raccolte di poesia sono: Luna de ciegos (Luna di ciechi; Premio Nacional de Poesía Universidad de Antioquia, 1975); Los ladrones nocturnos (I ladri notturni, 1977); Ciudadano de la noche (Cittadino della notte, 1989); Pavana con el diablo (Pavana col diavolo, 1990); Monólogos (Monologhi, 1994); La farmacia del ángel (La farmacia dell’angelo, 1995); Las hipótesis de Nadie (Le ipotesi di Nessuno, 2005); Testamentos (Testamenti, 2008); Biblia de pobres - Biblia pauperum (Bibbia dei poveri; IX Premio Casa de América, 2009); Temporada de estatuas (Tempo di statue, 2010). Nel 1994 ha pubblicato la sua Prosa reunida (Prosa riunita). Ha ricevuto molti premi, e dai suoi libri son state tratte diverse antologie. Vive e lavora a Bogotá.

mercoledì 18 ottobre 2017

Scrivere sulla luna tra "La beltà" e la trilogia. Una fantasia di avvicinamento a "Gli sguardi i fatti e senhal" di Andrea Zanzotto

Il 18 ottobre 2011 morì Andrea Zanzotto. Ha più senso ricordare le date di morte che quelle di nascita e questo sosteneva Zanzotto stesso, aggiungendo che al momento della nascita, artisticamente parlando, nessuno ha combinato ancora nulla. 
Riporto di seguito il primo paragrafo del contributo che ho scritto per gli Atti del convegno internazionale Andrea Zanzotto, la natura, l'idioma (Pieve di Soligo - Solighetto - Cison di Valmarino / 10, 11, 12 ottobre 2014). Il testo affronta il poemetto del 1969 Gli sguardi i fatti e senhal. La pubblicazione degli atti del convegno, a cura del Dipartimento di Filologia Classica e Italianistica dell’Università di Bologna, è attesa a breve presso l'editore Canova.


Giulio Turcato - Superficie lunare (1968)
olio e tecnica mista su gommapiuma – diametro 90cm

Here’s a truck stop instead of Saint Peter’s. 
R.E.M., Man On The Moon 

Preambolo del divo Apollo 11


Andrea Zanzotto concepì e scrisse il poemetto Gli sguardi i fatti e senhal in quattro stagioni, tra l’autunno del 1968 e l’estate del 1969. L’apposizione di queste date alla fine del testo non è un fatto secondario nelle vicende editoriali di Zanzotto e nella storia di questo componimento frammentario che, come ebbe a dire il poeta, «non si presterebbe alla recitazione e che in qualche modo si nega perfino alla “lettura”»[1]. Il poemetto è stato a lungo assimilato a un peculiare instant book a bassissima diffusione, plaquette semiclandestina in un primo tempo[2], stampata in proprio in mezzo migliaio di copie presso la Tipografia Bernardi di Pieve di Soligo e inviata a una ristretta cerchia di persone, quand’era ancora viva l’eco della prima passeggiata americana sulla luna trasmessa in mondovisione. Quest’opera fu quindi a lungo meditata e, benché solitamente esterna alle orbite di studio più calpestate, costituisce un crinale privilegiato dal quale guardare il prima e il dopo, una forte tmesi con tutta la poesia precedente e una curvatura non trascurabile per tutta la poesia che verrà, inclusa l’ormai nota “trilogia” inanellata con Il Galateo in Bosco (1978), Fosfeni (1983) e Idioma (1986). Nella prefazione al Meridiano, Fernando Bandini scrisse che in questo poemetto «Zanzotto puntella le rovine del suo vecchio io lirico. Ma il “nuovo stile” gli permette anche di sgusciare da quell’io, di abbatterne la fissità contemplativa. A chi gli rimproverava, negli anni del suo esordio, il solipsismo e l’estraneità ai temi della “storia”, Zanzotto dimostra di essere oggi un grande poeta civile»[3].
Per avvicinarsi a un testo così “ostile” dovremmo auscultare i seguenti elementi: l’anno di pubblicazione e la collocazione dell’opera all’interno della bibliografia di Andrea Zanzotto, l’aspetto di urgenza non celato dall’autore, unito al senso di preziosità e parsimonia racchiuso nel gesto di una pubblicazione a tiratura limitata, la dedica in versi con cui Zanzotto era solito inviare la plaquette agli amici[4], la circolazione inizialmente ristretta in contrasto alla portata globale dell’allunaggio, il nuovo paesaggio “escrementizio” qui riaffiorante (un paesaggio per la prima volta lontano, psichico, cosmico, pop, cinematografico e televisivo), il quale si insinua nei versi dopo l’avvenuto saccheggio poetico di un altro paesaggio (prossimo, naturale, fisico) ampiamente messo in risalto dalla critica nelle opere antecedenti. Infine non è trascurabile la vicinanza temporale all’ecumenismo di una di quelle grandi cerimonie celebrate dai media che avremo conosciuto meglio, così come può essere il broadcasting di un’Olimpiade o del funerale di Lady Diana[5]. Come già sollecitato in apertura, vanno attentamente considerate le date che Zanzotto pone in calce al poema, «autunno 1968 - estate 1969». Questa traccia lasciata dal poeta in un posto canonico come la fine di un poemetto significa che il verificarsi dell’allunaggio in realtà ha probabilmente solo accelerato un processo di scrittura che era già in divenire, partito presumibilmente dopo la pubblicazione de La Beltà. Tale constatazione potrebbe mettere in dubbio la tendenza a incasellare Gli sguardi i fatti e senhal come poemetto del post-allunaggio.
In questo prendere le mosse dai dati più aderenti e asettici può essere utile soffermarsi sul titolo. Ogni titolo, come Zanzotto in sede critica ha spesso sostenuto, può diventare un filtro per setacciare e illuminare un’intera opera e esserne a sua volta illuminato. Questo titolo, che tra l’altro ha la peculiarità di essere il titolo più lungo scelto da Zanzotto per un’opera di poesia[6], è dapprima stilnovista e profondamente soggettivo nella parola «sguardi», si getta nella mischia del contemporaneo con l’ambiguità e l’apparente oggettività della parola «fatti» (ma che cos’è un fatto? Chi decide che cos’è un fatto? Esistono davvero i fatti? E che cosa avviene e che cosa significa se un “fatto” storico e documentato si confonde con la sua rappresentazione e la sua comunicazione diventa l’evento stesso?) e ripiega infine nuovamente nel poetico, anzi, nel meta-poetico più stretto e antico, con la parola «senhal»[7] ovvero l’espediente, il nome fittizio o segnale con il quale nella poesia trobadorica si designava la dama di cui parlava il trovatore, spesso dedicataria del componimento. Il circuito del titolo di uno dei testi più difficili, pessimisti e dolorosi di Zanzotto posiziona bene in realtà un disperato tentativo di rimagliatura del sublime e del poetico, nonostante un’infezione psichica dell’umanità ormai conclamata e richiamata dal poeta con note nitide e perentorie su cui torneremo. Nel titolo riaffiora una fiducia ancora salda nell’illusione della poesia, nella ricerca di senso in un tessuto cognitivo dove questo sembra perpetuamente mancare, la fiducia che il grido giungente dalla specola di un poeta possa ancora essere accolto.
Nelle pagine seguenti cercheremo di sostenere quindi la centralità di questo testo, anche in collegamento alla perenne trasversalità del tema del paesaggio in Zanzotto, e noteremo la presenza di una concezione di letteratura ancorata al proprio portato di testimonianza. Porremo dei dubbi sulla tradizione interpretativa che troppo collega questo testo all’evento dell’allunaggio, collocando questi dubbi nel rischio sempre presente di banalizzare e semplificare Zanzotto. Inoltre, isolando alcune opere di artisti figurativi che operavano in quegli anni, collocheremo una “fantasia di avvicinamento” a questo singolare coro di voci dialoganti con una voce centrale che parla tra virgolette.


René Magritte, La page blanche (1967)

NOTE

1. Si veda la nota intitolata Alcune osservazioni dell’autore pubblicata in A. Zanzotto, Gli sguardi i fatti e senhal, Milano, Mondadori, 1990 (=SFS), p. 44. 
2. La prima edizione in volume dell’opera è quella mondadoriana del 1990, op. cit.. 
3. PPS, p. LXXXII.
4. Nella già citata nota Alcune osservazioni dell’autore il poeta scrive «[…] quando ho inviato a qualche amico il poemetto, al posto del © del copyright, ho aggiunto a mano “Nessun diritto è riservato:/ magari da me si copiasse/ tanto quanto dagli altri ho copiato” (con varianti…)» (SFS, p. 44).
5. Si veda D. Dayan e E. Katz, Media Events: The Live Broadcasting of History, Cambridge, Harvard University Press, 1994 (trad. it. Le grandi cerimonie dei media, Bologna, Baskerville, 1995).
6. Ad una rapida analisi dei titoli delle opere poetiche di Zanzotto emerge una predilezione per titoli brevi, spesso di una sola parola, come sono tutti i titoli dei libri di poesia pubblicati dopo Il Galateo in Bosco.
7. La prima delle note scritte dall’autore è dedicata proprio alla parola “senhal” e recita «nome pubblico che nasconde quello vero (per i trovatori), o semplicemente “segnale”, o, volendo, “simbolo del simbolo del simbolo” e avanti» (SFS, p. 17).

DOWNLOAD

Qui l'intero contributo come estratto PDF.

Qui un documentatissimo e assai recente commento di Mattia Carbone al poemetto, scaricabile come PDF delle Edizioni Ca' Foscari. Lì potrete trovare anche le litografie di Tono Zancanaro che accompagnarono la plaquette zanzottiana e il testo del poemetto.

- Infine, su questo poemetto di Andrea Zanzotto, uno scritto di riferimento resta quello di Giorgia Bongiorno intitolato Désastres, profanations et résistances dans la poésie d’Andrea Zanzotto Gli Sguardi i Fatti e Senhal (1969) et Meteo (1996) (in Interférences littéraires, nouvelle série, n. 4, « Indicible et littérarité », s. dir. Lauriane Sable, mai 2010, pp. 211-230), reperibile qui.

martedì 17 ottobre 2017

"L'invenzione dell'autore. Privilegi di stampa nella Venezia del Rinascimento" a cura di Sabrina Minuzzi (l'autore è mobile)

Lo statuto di autore o, se preferite usare un'espressione sociologizzante, il costrutto sociale dell'autore non è una questione così scontata e nemmeno si può affermare che sia data una volta per tutte. Nell'ambito librario oggi siamo abituati al suo essere fattore trainante dell'intero sistema e spesso un libro è costruito proprio attorno all'autore, per quanto all'editore interessi sempre un'opera. Non va dimenticato però che sono quasi sempre tre gli elementi testuali che costituiscono la copertina di un libro: oltre all'autore (e eventuali nomi di coautori, curatori e traduttori) ci sono infatti anche il titolo (con eventuale sottotitolo) e il nome dell'editore, con il suo percepito di "marca editoriale". La triangolazione di questi tre elementi costituisce sempre una soglia fondamentale (la prima soglia!) di qualsiasi progetto di libro, naturalmente assieme al lato grafico della faccenda. Ma se le considerazioni sull'editore rimandano alla storia della stampa, dell'editoria, dei cataloghi e delle collane, se quelle sui titoli sono un interessante incrocio di fattori plurimi che vanno dalla creatività vera al calcolo del marketing tout court (compreso quello finalizzato alla SEO - Search Engine Optimization) tutto ciò che riguarda lo statuto dell'autore è un aspetto che rimane mobile e interessante da analizzare, primariamente nel suo sviluppo storico. Etimologicamente autore è colui che accresce, aumenta, fa prosperare (sé stesso e l'editore, verrebbe da dire). Ma naturalmente non è sempre così. Il concetto di autore va di pari passo con gli sviluppi della proprietà intellettuale e sappiamo tutti quanto questi temi siano caldi e attuali e non solo a causa della rete e dei suoi nodi. L'interessantissima campionatura che ci consegna Sabrina Minuzzi col titolo L'invenzione dell'autore. Privilegi di stampa nella Venezia del Rinascimento (Marsilio, pp. 112, euro 12) costituisce una lettura essenziale per affacciarsi su due versanti: da un lato avremo lo specifico corpo di testi analizzato dall'autrice, vale a dire una serie di suppliche orgogliose con le quali una serie di autori dei più vari settori chiedeva di proteggere le opere che consegnavano alla stampa. Dall'altro versante vedremo scaturire, quasi di riflesso e indirettamente, tutta una serie di possibili considerazioni sullo statuto di autore oggi, nel suo divenire negli ambiti intellettuali più disparati, compresi quelli che vanno a incrociare le moderne trattazioni su fiction, non fiction, autofiction ecc.

Restiamo all'oggetto di questa ricerca curata da Sabrina Minuzzi, la quale da anni si occupa di storia del libro e storia della produzione, circolazione e fruizione del libro medicoscientifico nell'ambito specialistico della storia sociale della medicina (per l'editore Unicopli trovate Sul filo dei segreti. Farmacopea, libri e pratiche terapeutiche a Venezia in età moderna). Spesso si crede che l'atto formale di nascita del diritto d'autore sia il "Copyright Act" londinese del 1710. Naturalmente le date e gli atti fondanti sono comodi, ma le idee, comprese quelle giuridiche, sono molte volte nell'aria già da tempo quando trovano un vero riconoscimento databile che ne sancisce l'albore. Così non è errato dire che, in ambito letterario, sia stato Petrarca a contribuire a scolpire il costrutto di autore così come ci è venuto incontro in età moderna (e pensiamo a fenomeni noti come il petrarchismo). Nella Venezia presa in esame da Sabrina Minuzzi l'autore non è ancora un dato così scontato e consolidato. Ci sono i tipografi e sappiamo tutti la centralità della brulicante città lagunare quando si parla di stampa e tipografia. Quella Venezia seppe riconoscere progressivamente determinati privilegi di stampa a chi ne faceva richiesta, fertilizzando il terreno per un graduale riconoscimento alla figura di autore (di qui anche il titolo dello studio che parla addirittura di "invenzione"). Ma non siamo solo di fronte a letterati e artisti, anzi, tutt'altro, e "si ha la netta impressione che l'autorialità si manifesti e prenda forza non solo e non tanto attraverso i creatori di capolavori letterari e di fantasia, quanto attraverso le opere connesse all'universo delle professioni e dei mestieri, che sono anche la maggioranza".  Molto più interessanti sono i casi di matematici, musici, agrimensori, maestri calligrafi, medici che trafficavano con le erbe o ragionieri. Il riconoscere a questi soggetti dei privilegi nella stampa delle loro opere di ingegno fece sì che la moderna concezione di autore si formasse e rafforzasse. Tutto ciò rappresenta un altro determinante tassello della costruzione dello statuto e del diritto d'autore, un tassello che merita la giusta attenzione che il libro di Sabrina Minuzzi finalmente riserva. Quanto descritto nel libro accadeva in un contesto che, analizzato da un punto di vista primariamente sociale ed economico, si apriva in modo straordinario e inedito all'invenzione all'incentivazione della "novità" e "utilità". Per forza di cose in questo scenario la stampa gioca un ruolo preminente. Scrive Minuzzi alla fine della nota introduttiva:
Fu così che a Venezia prima che altrove si creò il clima più favorevole alla nascita dell'autore, il quale prese corpo e si affermò grazie alle proprie invenzioni, materiali e immateriali. Nel Settecento vennero formalizzati la sua esistenza e i suoi diritti. Poi, con la rivoluzione romantica dell'io, l'autore somigliò sempre più a un'invenzione. Ma questa è un'altra storia. 
Il libro di Sabrina Minuzzi si inserisce nella collana "Albrizziana" dell'editore Marsilio, una serie di pubblicazioni che consta ormai di diversi titoli. Tutti questi costituiscono un bel passaggio per ragionare con più cognizioni attorno a temi di editoria, stampa e autorialità (si prenda ad esempio il volume di prefazioni e dediche di Aldo Manuzio La voce dell'editore). I titoli di "Albrizziana" si possono scorrere a questo link. Messi tutti in fila creano un riverbero profondo con le tante discussioni che riguardano la triangolazione di cui parlavamo sopra, quella ancora così centrale tra autore-titolo-editore. Naturalmente su questo panorama si affacciano nuovi percorsi, come quello del self-publishing. Ma anche questa è un'altra storia, anche se potrebbe essere inquadrata come un'evoluzione delle storie di cui abbiamo sin qui parlato. Se Amazon continuerà la crescita di cui è protagonista, probabilmente ne sentiremo sempre più parlare. E, anche qui, lo sfondo su cui si installa un possibile ragionamento è ancora una volta e prima di tutto economico e sociale.

venerdì 13 ottobre 2017

"Glitchine" di Luca Rizzatello, capitolo 1. Tutte le torture


Glitchine è la copertina vincitrice del contest VIVERE SENZA POESIA - FASE 2: UN LIBRO SI AGGIUDICA DALLA COPERTINA, organizzato da Luca Rizzatello nel luglio scorso:


Dopo 103 copertine, è tempo di scrivere almeno un libro. Ma quale? Ho pensato di aprire le votazioni, e di scrivere il libro che riceverà più voti. Direi di fare così: se vuoi, scrivi nei commenti qui sotto il titolo della copertina che preferisci, e tra una settimana (quindi mercoledì 26 luglio 2017) si vedranno i risultati. In caso di risultati a pari merito, si andrà al ballottaggio. Il libro verrà pubblicato a puntate su Librobreve. 


Promessa mantenuta, e questo è il primo capitolo. 



Glitchine

Capitolo 1. Tutte le torture

Il mio primo ricordo, certamente confezionato, mi vede vestito da Pierrot, solitario su una panchina nel giardino della scuola materna. Sul prato i coriandoli e suor Lisetta, fuori fuoco. Invece le stelle filanti spray approdarono a Costa di Rovigo svariati anni dopo, concedendoci l’euforia che ci sovviene quando si scopre qualcosa che garantisce dei vantaggi senza sacrifici in cambio: fottere il tribunale del Super Io, e fottere pure lo scendere e 'l salir per l'altrui scale, una volta per tutte. Ebbene, da allora soltanto due cose sono state in grado di rinnovare in me questa condizione: lo Sfornatutto De Longhi, che si pulisce da solo, e la bicicletta elettrica. La poltroncina montascale, pur avendo, ahinoi, le carte in regola – in regola al punto di blastare quel Paradiso XVII, 60 –, esce sconfitta sul filo di lana, costretta a pagare pegno coi gettoni della vecchiaia, o della disabilità, o di entrambe.
Alla scuola materna i mattini erano dedicati al punteruolo, con lo scopo di trarre dai cartoncini colorati dei soggetti a tema stagionale: in primavera la rondine, in estate il cocomero, in autunno la castagna, in inverno Gesù Bambino; zero compagni di classe guerci alle elementari, ecco l’evidenza del miracolo. Il primo pomeriggio invece trascorreva sulle brandine, cadenzato dai tonfi di mele sbucciate nel secchio per la merenda. Nessun corso di inglese, nessuna attività riconducibile all’universo polimorfo della baby dance, hanno mai turbato la nostra infanzia; di converso, sono piuttosto certo che i corsi di capoeira o di parkour durante l’occupazione scolastica, derivino da una mancata elaborazione del trauma della baby dance.
Per restare a casa con E.T., Elliott finge di avere la febbre riscaldando il termometro con la lampada; sua madre, che i figli chiamano variamente mamma o Mary, gli crede. Dodici ore prima Elliott aveva detto a Mamma Mary di aver visto E.T., ma MM non gli aveva creduto. Ventiquattro ore dopo MM per fare addormentare Gertie le leggerà un passo di Peter e Wendy, quello in cui Peter ci chiede se crediamo alle fate, così che Campanellino possa tornare in vita. Sul finire degli anni ’90 avrei scoperto, a distanza di qualche giorno, che Gertie era stata interpretata da Drew Barrymore, e che Jamie Lawson non era stato interpretato da Billy Corgan.
La ponderazione di costi e benefici di un handicap, perfezionata per secoli nelle sale d’attesa dei medici di base, si muove nell’intervallo che separa la pigrizia dall’invalidità di guerra. Così, se da più di sei mesi hai disturbi della memoria e della concentrazione, faringite, dolori delle ghiandole linfonodali cervicali e ascellari, dolori muscolari e delle articolazioni senza infiammazione o rigonfiamento delle stesse e cefalea, allora potresti soffrire di Sindrome da stanchezza cronica; la definizione risale al 1994, ma siccome in molti la considerano ancora un disturbo piscologico, diciamo pure una fisima, è stata rinominata Malattia da intolleranza sistemica allo sforzo.
Talvolta alla scuola materna la vita vera squarciava il crystal ball di un’infanzia paradisiaca portandoci delle epifanie, ben presto percepite come routinarie; ecco le isole di segatura per assorbire i vomiti, il sodale sdraiato sul pavimento per fermare il sangue dal naso, la pastiglia di fluoro, il gatto con il topo in bocca, le polpette occultate nelle tasche del grembiule.
Secondo la comunità scientifica del Regno Unito, lo squirting consiste in una emissione di urina, e dal momento che l’Obscene Publications Act vieta l’urofilia, diventa complicato girare scene in cui sia contemplata questa pratica.
Se avessi cominciato il libro con questa foto


avrei potuto affermare senza tema di smentita che il mio primo ricordo mi vede vestito da Zorro, a incrociare la spada con il Principe Nicola Cavallaro, insieme al quale svariati anni dopo avrei fondato Prufrock spa, e giù di risvolti allegorici. Ma non lo ricordo.

[continua - qui il sito di VIVERE SENZA POESIA]