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venerdì 29 settembre 2017

"Dalla Corea del Sud. Tra neon e bandiere sciamaniche" di Maria Anna Mariani

Persone giovani di tutto il mondo terminano gli studi universitari e, se motivate a rimanere nell’ambito accademico e della ricerca, spesso partono. Destinazioni? Molteplici. Vanno dove ci sono posizioni vacanti, affini ai loro curricula e alle loro ambizioni, giungono in contesti in cui convergono persone da più parti del mondo, più o meno giovani, sole o accompagnate, atterrando in appartamenti o dormitori più o meno rumorosi. Che cosa c’è in questi posti? C’è uno stipendio, innanzitutto. C’è anche la possibilità di inseguire un’ambizione o la prospettiva di carriera del tenure track. Può esserci la fuga da un horror vacui, lavorativo o più estesamente esistenziale, che si fa via via scorticante, così come scortica l’irrequietezza quando diventa il sale (o soltanto il cloro senza il sodio) di un’esistenza. Può esserci persino il tentativo di ridare un senso a parole forse sfibrate come ‘avventura’. Sono situazioni in cui può regnare o perpetuarsi la destrezza nell’arte di distanziarsi e “trasformare in un lampo una persona da essenziale a superflua”. Non c’è alcuna intenzione di giudizio racchiusa in queste considerazioni preliminari che riguardano esili lavorativi, eremitaggi, vagabondaggi o spaesamenti volontari, né da parte di chi ha scritto il libro di cui si parla oggi e tanto meno da parte di chi prova a darne notizia qui. La condizione dello sradicamento è del resto così nota e spesso foriera di esiti mirabili (pensiamo solo a Emanuel Carnevali, alla sua poesia come "grido del primo giorno di conoscenza, ch'io smarrii attraverso tanti giorni di dissipazione"). Spesso il primo impatto, se non si finisce in un paese anglofono del quale crediamo di conoscere la lingua, è proprio di natura linguistica, all’interno di contesti internazionali che somigliano da vicino a passerelle dove sfila ciò che resta delle marche-nazioni (quello delle nazioni come brand, al di là degli stereotipi, è un tema persistente). È possibile allora che si sviluppi nel nuovo arrivato un fastidio profondo per quella parlata disidratata che s’àgita ed è agìta in simili situazioni, per le interiezioni fatte con lo stampo che puntellano discorsi pieni di sorrisi di disagio e di wow. Un nuovo lavoro inizia e con questo principiano nuove abitudini, diversi ritmi s’accalcano, nuove facce, climi e odori appaiono, in uno spazio dove si radunano stipendiati che provengono da storie diverse e spesso lontanissime tra loro. In uno scenario del genere siamo catapultati all’inizio del bel libro di Maria Anna Mariani, uno scritto caratterizzato da una nota dolente e divertente al contempo, incuneato tra il reportage brillante e la cocente testimonianza-confessione, dov’è la lingua, innanzitutto, a mostrare un tono persuasivo, se paragonata a tanta paccottiglia linguistica cascante del Romanzificio Italia S.r.l. (o, se preferite, S.n.c.). Solo che stavolta la destinazione non è Berlino o New York, bensì una più esotica e insolita Corea del Sud, o Repubblica di Corea, tornata negli ultimi tempi alla ribalta per lo stato con cui confina a nord, ma anche grazie a Samsung, la principale concorrente “simbolica” di Apple, che proprio nei giorni scorsi, durante l’arresto del suo vicepresidente, si apprestava a un altrettanto simbolico sorpasso dell’azienda americana. E non siamo nemmeno a Seul, bensì in un’università prestigiosa che dalla capitale sudcoreana dista circa due ore di pullman.

Dalla Corea del Sud. Tra neon e bandiere sciamaniche (Exòrma, pp. 168, euro 14,90) è insomma un libro lontano e fortunatamente lontano anche dal precariato. Sia chiaro che nessuno vuole sostenere che il problema del precariato sia risolto o che non vada più nominato. Il problema semmai è proprio come lo analizziamo e ce lo raccontiamo, magari con l’intento di farci un affare. Se si vuole fare un dispetto al movente intimo di questo libro sarà sufficiente provare a veicolarlo sui solchi del precariato. Questo è invece un libro sul nostro tempo e i suoi fusi orari, sulle sue inaggirabili aporie e inquietudini, sugli uomini che si incontrano e agiscono, su quelli che restano lontanissimi, è una testimonianza cucita attorno a un’appercezione divenuta così nitida forse durante l’isolamento. Dal punto di vista editoriale, attorno al tema del precariato è spesso uscito il peggio del peggio, quasi a conferma cortocircuitale che una certa porzione di editoria è fatta e fruita principalmente da persone che in quel precariato piantano i piedi. Il libro di Maria Anna Mariani sfiora soltanto quel filone editoriale, e lo sfiora nella considerazione, in fondo trascurabile e comunque non essenziale, che la protagonista spoletina non rappresenta un caso di coincidenza tra luogo o nazione d’origine e luogo e nazione di lavoro. Poi, pensiamoci: in fin dei conti la nostra protagonista in Corea del Sud ci è andata per lavorare e a lavorare continua ancora (adesso è alla University of Chicago e, dal punto di vista della ricerca, l'invito è anche quello di leggere lo studio intitolato Sull’autobiografia contemporanea. Nathalie Sarraute, Elias Canetti, Alice Munro, Primo Levi uscito nel 2012 per Carocci). Un’immagine ricorrente è proprio quella della “Babele stipendiata” e stipendio significa appunto un lavoro che c’è. Non sarebbe allora utile rinnovare periodicamente la domanda: di che cosa parliamo quando parliamo di precariato? L’accento è sui luoghi o sulle forme contrattuali? Sul restare o sul partire? E su quale diritto al/del lavoro? E come muta questo tema, negli anni e da caso a caso?

Serialità dell'abitare, serialità dell'esistere
Ma abbandonando le temibili divagazioni editoriali, si può anticipare che questo libro è costituito da brevi e smaglianti capitoli e da una calibrata selezione di foto in bianco e nero dell’autrice e di Irene Mariani (a lato potete vederne un paio). Si apre con il racconto del primo impatto con la nazione asiatica, con il suo paesaggio, urbano e non. Ecco allora la spesa al supermercato (“Salvarsi, mangiare, coprirsi, lavarsi e lavare. Cos’altro importa?”), le parole mimate quando ancora è lontana una minima padronanza del coreano, le lezioni con gli studenti “passivi e macchinici” e le domeniche libere, magari riempite con una gita fuori porta. In queste gite seguiamo la nostra testimone tra gli sciamani, oppure nella zona al confine con la Corea del Nord, paradiso naturale e inquietante area dove s’applica al turista un rigido protocollo, oppure in una gita a Mokpo, la città più povera e “brutta” del paese, colta nei giorni del viaggio di Papa Francesco in Corea del Sud, dove c’è una cospicua comunità cattolica. V’è spazio anche per un inedito e tutto sommato distaccato ritratto dell’intasatore degli scaffali di filosofia delle librerie, in tournée nelle università coreane. Avete indovinato? Sì, lui, Slavoj Žižek e il capitolo a lui dedicato, “Cosa vuol dire madre”, non mancherà di colpire per i diversi piani che allestisce e interseca tra descrizione e pensieri. E poi c’è qualcosa di nuovo quasi a ogni capitolo, in una variazione continua di temi e toni. Eppure tutto è legato con un unico nastro e assomiglia a una strana corrispondenza, una condivisione che pare lontanissima da quella istantanea tipica dei social e delle chat con le loro esche a buon mercato (ad un certo punto l’autrice confesserà, con un anacronismo che quasi fa girare a vuoto la mente, di usare ancora una lista di indirizzi email formata dagli strati geologici della propria “vita precedente” e oramai mezza inservibile). Potremmo quindi ipotizzare che Dalla Corea del Sud sia una sorta di strano libro epistolare, dove però non emergono destinatari delle singole lettere-paragrafi, un testo che va incontro a una progressiva rastremazione verso l’impersonale, che s’accentua con il passare degli anni coreani o magari quando, nel bel mezzo di una sindrome premestruale, si teme di diventare una “Creatura Spam” per amici abissalmente lontani (in questi casi la soluzione è una: uscire di casa). I destinatari di queste quasi-lettere sono anche in quella mailing list ormai inservibile, deposito della polvere del tempo su piani di scrittura e rispecchiamento trattenuti durante il lungo periodo dell’espatrio. E sicuramente il legame con la lingua italiana, che la protagonista in Corea insegna, ha un determinato ruolo nello sviluppo di questa scrittura, poiché qui ci imbattiamo anche in riflessioni e acquisizioni che toccano la natura delle stesse lingue: se l’italiano resta lingua del tempo, l’autrice scoprirà, anche grazie a dei fraintendimenti, che il coreano è segnatamente lingua spaziale. Mi è parsa subito una scoperta interessante.

Quanto striato è il cielo
Ecco allora lampeggiare le solite domande: perché si scrive? Per chi si scrive? In questo libro la scrittura ha inizialmente una vocazione di adattamento e testimonianza di come si vive la solitudine di certi lavori, “testimonianza sorda” perlopiù, precisa l’autrice (la sordità è il motivo per cui permanenza in Corea e scrittura non possono durare). In effetti è questo un libro molto visivo che apre all’udito soprattutto nei rumori, compresi i rumori guarda caso “invisibili” che salgono dal riscaldamento a pavimento o dai tubi di scarico delle lavatrici nel dormitorio. Ci sono come sempre diverse ragioni che possono portarci a una lettura come questa. Se dal punto di vista editoriale e commerciale fa gioco mostrare il lato esotico e persino divertente di quattro anni trascorsi in un paese lontano dal nostro vissuto medio, ad uno sguardo più ravvicinato Dalla Corea del Sud di Maria Anna Mariani è un’immersione nelle relazioni, nelle loro continuità e interruzioni. Ci parla di come si resta in contatto o ci si perde, di come si viaggia, si parte e magari si ritorna, di come si può arrivare a giustificare il susseguirsi delle proprie scelte e l’orografia del proprio transito esistenziale. È infine una dimostrazione di come si può sorvolare, persino sull’amore, l’ellissi più bianca. Il testo, che racchiude anche passaggi molto divertenti, si presenta a chi legge con le sembianze della confessione senza sconti, forma letteraria nota, densa di implicazioni, eppure poco battuta, e di sicuro non in toni così intransigenti:

“È di questa solitudine di espatriata che vorrei parlare mentre fuori piove, di questo esilio feticizzato, che ha portato a ingigantire l’anaffettività, l’adattabilità e l’intransigenza. Li vedo accentuati adesso, questi tratti del mio carattere, dopo averli isolati attraverso un bilancio che si è reso necessario, ora che sto per lasciare questo luogo e spostarmi verso un altrove, posizionato esattamente all’altra estremità: Chicago.”

Poco prima si era letto:

“L’estraneità è diventata una condizione familiare. Sentirsi esotici può farsi abitudine? Sì, e non è un paradosso perché è comodo vivere con lineamenti eccentrici e giustificare la propria inettitudine con l’alibi dello straniero piombato dentro un’atmosfera aliena. Lo spaesamento è diventato esonero, un esonero permanente, da tutto quanto credo.”

L’esilio feticizzato che si fa esonero permanente da tutto: raramente capita di leggere pagine così affilate e riflettenti in uno scritto che si può ricondurre all’alveo dell’autobiografia, parola da sempre mal digerita in Italia, dove persino nelle quarte di copertina di case editrici rispettabili, anziché usarla, si preferisce parare in formule ampollose e assurde come “romanzo di una vita” (ci rendiamo conto della sciocchezza di questa formula, vero?). La vita o si vive o si scrive, sosteneva già Pirandello. La realtà è oggi un po’ diversa: la scriviamo un po’ tutti la vita e non sappiamo se questo implichi che la viviamo tutti un po’ di meno. Non c’è scrittura che al fondo non sia auto-bio-grafia (finanche un libro di fantascienza o un fumetto). Resta allora l’interrogazione sulle forme in cui ce la raccontiamo questa vita e su cosa facciamo, più precisamente, in questo pianeta (non sarà un caso che il nome di Anne Carson, autrice dell’Antropologia dell’acqua, faccia capolino nel testo, verso la fine). L’autrice si è messa in gioco stando però distante da qualsiasi gioco e il coraggio appare sempre più come l’ingrediente primario, per quanto raro, di un libro che valga la pena consigliare. Qui il mutamento è preso di petto e, anche se le pagine trattano un percorso di vita quasi potesse sembrare casuale, non c’è spazio né tempo per il caso, se è vero che “Tutto cambia a un certo punto, per una spinta sorridente o perversa, molto spesso suscitata – perché il caso siamo noi che lo fecondiamo – ma che comunque sconvolge, sconquassa. Fino a che la vita non si riassesta.” C’è qua, più chiara e scottante, la confessione di chi desidera continuare a imparare, di chi preferisce “la terra franata alla palude e al movimento che si ripete”.

mercoledì 6 maggio 2015

Destino d'un poeta: Emanuel Carnevali

Quote #8

"To repeat or copy the words of another, usually with acknowledgment of the source." Questo il verbo "to quote". Ma in italiano "quote" è il plurale di quota, parola che mi interessa soprattutto nel senso della misura di un'altezza o di un lato. Citando e contestualizzando minimamente passi importanti, cerco un modo assai svelto di dar notizia di libri significativi, possibilmente brevi. Stando breve, pure io.

Di Carnevali ho scritto a più riprese, anche non molto tempo fa, ma torno a farlo con un brano che è sì una breve citazione, ma soprattutto una testimonianza raccolta da una persona che tra le prime ha dato un importante ritratto di questo "uomo che ha fretta" (A Hurried Man si intitolava il libro che Carnevali pubblicò del 1925, titolo ripreso dall'editore Fazi nel suo Racconti di un uomo che ha fretta a cura di Gabriel Cacho Millet e Maria Pia Carnevali, nel 2005). Assieme alle novità più recenti della casa editrice rodigina Il ponte del sale, mi è arrivata questa plaquette di una manciata di pagine intitolata Destino d'un poeta: Emanuel Carnevali, la quale sostanzialmente riproduce un articolo scritto da Eugenio Ferdinando Palmieri per “Il Resto del Carlino” il 23 novembre 1934, accompagnato da due disegni di Giorgio Mazzon, numerati dall'artista stesso. Il testo dell'articolo di Ferdinando Palmieri è quasi "inaugurale" se pensiamo a quando è stato scritto, e direi che è stato giustamente isolato da Il ponte del sale, perché in poche pagine riesce in un ritratto che a distanza di anni non ha perso nulla in vividezza.

A Bazzano, nella trattoria di Porta Castello, il giornalista de "Il Resto del Carlino" raccolse queste parole del poeta:

L'eclisse può produrre bellissime sfumature ma il sole odia la luna quand'essa intralcia il lavoro delle sue braccia. Io odio colori ed anima, io odio nuances e delicatezze, odio le danze. Un povero straccione che cammina con la testa sul petto: ecco il mio dolore. Io sono, io stesso, un dogma: la mia poesia è un semplice grido - grido del primo giorno di conoscenza, ch'io smarrii attraverso tanti giorni di dissipazione... Io voglio essere ciò che il mondo ha mancato di essere: possibilmente la bellezza ch'è l'uomo contro la bruttezza ch'è l'uomo... E se il mondo corre inevitabilmente verso il nulla, ebbene io sarò colui che gli si opporrà. Io amo troppo la vita per vederla così infamata, violentata, disonorata, annullata. Se il mondo imputridisce io sono l'unico essere che consapevolmente rifiuterà di riconoscere il suo imputridimento...



mercoledì 11 marzo 2015

Notturno americano, "Il primo dio" Emanuel Carnevali nella lettura di Emidio Clementi

Musicali pretesti #4

Di tanto in tanto, una notizia su un libro e un brano da ascoltare, al libro collegato.


Era il 1978 quando Adelphi pubblicò Il primo dio (pp. 434, a cura di Maria Pia Carnevali, euro 30) con un caravaggesco Chop Suey di Edward Hopper in copertina, inondato di luce laterale. Il volume, ancora in commercio, contiene poesie scelte, racconti e scritti critici del ragazzo partito da Genova nel 1914 per fare il millemestieri negli Stati Uniti. Era il 1995 quando il brano d'apertura dell'album Lungo i bordi dei Massimo Volume contribuiva a riportare in orbita il nome di Carnevali. Si intitolava proprio come il libro a lato. Di Carnevali, di quel brano e anche delle non poche pubblicazioni che gli ha riservato l'editore pistoiese Via del Vento si è già parlato in un post passato (si possono ricordare pure i Racconti di un uomo che ha fretta e altri scritti pubblicati da Fazi ma non più disponibili). A breve, per Santeria, uscirà il disco che raccoglie i brani del reading-tributo offerto a Carnevali da Emidio Clementi, Corrado Nuccini ed Emanuele Reverberi, un progetto illustrato dalle tavole di Gianluca Costantini. Si intitola Notturno americano e molti di voi magari avranno avuto modo di ascoltarlo dal vivo in una delle molte date che si sono succedute negli ultimi mesi. Il disco, composto da 8 brani, è un ascolto che apre diverse porte che danno su una stessa stanza: l'America di Carnevali, i lavori, la pazzia di questo poeta sul quale mi piace tornare anche quelle volte che sento troppa aria professorale/professionale nella poesia che si propone in giro, un poeta che intraprese più strade di scrittura, anche quella delle lettere a Benedetto Croce, a Giovanni Papini, a Carlo Linati (grazie a Liber Liber queste lettere sono disponibili qui). Mi sarebbe piaciuto congedarmi da questa nota con l'ascolto di "Chicago" o di "Carnevali a Milwaukee", il brano che chiude il disco, ma questi non sono ancora disponibili su YouTube, per cui lascio "I camerieri", la traccia numero 5, un pezzo giusto per ricordare il "morto di fame nelle cucine d'America sfinito dalla stanchezza nelle sale da pranzo d'America".



Le prossime date di Notturno americano (per gli orari, i link dei locali e per tener monitorato tutto con maggior precisione rinvio qui):


13/03/2015 - LA SPEZIA - Btomic - Via Firenze 27
14/03/2015 - REGGIO EMILIA - Dinamo - Viale Monte San Michele 4
27/03/2015 - PARIGI - Ciao Gnari - 333 Rue Des Pyrenees
28/03/2015 - BRUXELLES - Piola Libri - Rue Franklin 66/68
01/04/2015 - BOLOGNA - Locomotiv - Via Serlio 25/2
10/04/2015 - MACERATA - Teatro Don Bosco - Viale Don Bosco 55
11/04/2015 - ANCONA - Silos - Via Leopardi 9
12/04/2015 - PEGOGNAGA (MN) - Casbah - Via Roma 20
22/04/2015 - TRAVEDONA MONATE (VA)  - Cineteatro Santamanzio - Via S. Caterina
29/04/2015 - MILANO - 75 Beat - Via Privata Tirso 3
02/05/2015 - GRUGLIASCO (TO) - Casseta Popular - Via Tripoli 56
03/05/2015 - CARPI (MO) - Mattatoio Culture Club - Via Pio 4
08/05/2015 - PESCARA - Milonga Vintage - Via Ravenna 69
09/05/2015 - RIMINI - Primo Piano - Via Garibaldi 20
15/05/2015 - BENEVENTO - Morgana - Via Umberto I 8
16/05/2015 - NAPOLI - Cellar Theory - Vico Acitillo 58
29/05/2015 - SANT’EGIDIO ALLA VIBRATA (TE) - Dejavu - Via Vittorio Veneto 38/40

mercoledì 31 ottobre 2012

da "Ai poeti" di Emanuel Carnevali

Una poesia da #12

Il mio incontro con la prosa e la poesia di Emanuel Carnevali passa per Emidio Clementi e i Massimo Volume: anno 1995, album Lungo i bordi, la canzone "Il primo dio" (sotto vi rimando al video). Poco dopo, in una libreria trovai una copia assai malandata de Il primo dio (Adelphi, 1978, ancora reperibile). In seguito anche Fazi fece qualcosa di quest'autore (Racconti di un uomo che ha fretta). Da un paio d'anni il vero lavoro di riproposta di questo autore fiorentino va registrato dalle parti di Pistoia, in quelle edizioni Via del Vento che come un largo ombrello riparano spesso dalle piogge dell'oblio. Chi la conosce sa che parliamo di una casa editrice perfettamente in tema con questo blog (tutti libri brevi, brevissimi) e costantemente attiva nella riscoperta di testi inediti o rari. Sfogliate il catalogo, dove ogni libro costa 4 euro, e allora capirete; pensate soltanto, per citare un esempio, al Georg Heym che ha recentemente proposto per la cura di Claudia Ciardi, traduttrice che a breve risponderà su queste pagine ad un'intervista. Heym è un autore inspiegabilmente trascurato, così come il suo illustre curatore italiano Paolo Chiarini, tra i massimi esperti italiani di Espressionismo tedesco, scomparso soltanto due mesi fa.

Tra i libri della casa editrice ritroviamo ben tre titoli dedicati a Emanuel Carnevali: Il bianco inizio e altre prose memorabili, Corteo di personaggi a Villa Rubazziana e il recentissimo Ai poeti. Credo ritorneremo almeno su uno dei primi due titoli (prosa), ma vorrei iniziare dalla poesia e dall'ultimo titolo menzionato, una selezione di diciotto testi che esce in questi giorni per la cura e traduzione di Elio Grasso, in occasione del settantesimo anniversario della scomparsa (Manuel Carnevali era nato nel 1897 a Firenze e morì nel 1942 strozzato da un boccone di pane, dopo una lunga sofferenza per encefalite letargica, manifestatasi già nel 1922).

Ciò che spesso ricordiamo di Carnevali è legato all'emigrazione in America nel 1914, all'inglese imparato per la strada o sulle insegne, svolgendo i lavori più disparati e che divenne la lingua della sua scrittura. Molte le etichette e i nomi che si spendono, da "maledetto" a "black poet", a erede di una linea che passa per Rimbaud e Dino Campana, rafforzata dalla stima di cui beneficiò in vita (Kay Boyle, Robert McAlmon e Ezra Pound su tutti). Ma proprio come spesso accade con questi aloni, non è cosa nociva ritornare semplicemente ai testi, coadiuvati da iniziative editoriali puntuali, come queste delle casa editrice pistoiese (Ventus taedium fugat il bellissimo motto). In fin dei conti, non bisogna dimenticare che con Carnevali l'Italia ha una testa di ponte importante nel movimento modernista americano che annovera autori come Waldo Frank, Carl Sandburg, Ernest Walsh e Williams Carlos Williams.

 













QUASI UN DIO


Sto morendo alla mercé di questo caldo
ma potrebbe esser peggio.

Amo mia moglie
ma dovrei amarla di più

Amo la mia ragazza ma il suo amore dovrebbe essere più universale.
Soltanto una parola la descrive ma non so quale sia.

Tutto è più breve di qualcos'altro:
tutto è più uguale a Dio di qualcos'altro.

C'è competizione nel caos,
una cosa molto stupida.

Sono dubbioso come un ramo di salice
che curvo ammicca all'acqua.

Ammiro il diavolo perché lascia le cose incompiute.
Ammiro Dio perché tutte le completa.


(Ottobre-Dicembre 1931)


ALMOST A GOD

I am dying under this heat
but there may be worse.

I love my wife
but I should love her more.

I love my sweetheart but her love should be more universal.
One word describes her but I do not know which word.

All shorter than something else:
All is more God-like than something else.

There is competition in the chaos,
which is very foolish.

I am in doubt as a bent willow branch
nodding to the water.

I admire the devil for he leaves things unfinished.
I admire God for he finishes everything.



Come anticipato, permettetemi questo rimando musicale, visto che la "riscoperta" di Emanuel Carnevali deve molto anche alla musica dei Massimo Volume e a questa canzone "culto" in particolare.