venerdì 30 maggio 2014

Tradurre in italiano la letteratura lettone. Intervista a Pierpaolo Pregnolato di Edizioni Damocle

Librobreve intervista #40



Edizioni Damocle è una casa editrice specializzata nella pubblicazione di saggistica, poesia, libri d'artista e teatro. A Venezia, in Calle del Perdon, potete trovare anche il bookshop legato a questa casa editrice di cui ho già scritto qualche tempo fa, in relazione a questo libro di Virginia Woolf e Walter Sickert. S'appresa ora a inaugurare una nuova collana dedicata alla letteratura lettone. Ne parlo qui di seguito con Pierpaolo Pregnolato, proseguendo quella serie di interviste che intendo dedicare al tema della traduzione, anche se questa volta l'accento è più editoriale che linguistico, dal momento che intervisto un editore che ha accettato una nuova sfida di traduzione e non un traduttore. Ma vi sarà modo di parlare anche del traduttore e artefice della collana, Paolo Pantaleo. 

(Sopra una foto scattata alla presentazione del libro di Nora Ikstena svoltasi a Riga a metà aprile di quest’anno. Da sinistra: Nora Ikstena, Paolo Pantaleo, Margarita Fjodorova, Pierpaolo Pregnolato.)

LB: Una nuova collana di letteratura lettone. Da dove nasce quest'idea? Come si concretizza e in quali tempi?
R: “Piccola Biblioteca Lettone” è una collana curata da Paolo Pantaleo dedicata ai classici e contemporanei della letteratura lettone, in edizione bilingue con testo a fronte lettone-italiano. Ogni libro è cucito a mano con un elegante filo bordeaux, il colore della bandiera lettone.  Ho incontrato l’illustratrice lettone Margarita Fjodorova nel Bookshop Damocle a Venezia, lei poi ha fatto conoscere in Lettonia l’attività della casa editrice. Quindi sono stato invitato a Riga dall’Associazione Lettone degli Insegnanti d’Italiano per tenere una presentazione in una libreria del centro e parlare dei libri Damocle in lingua straniera. Mi hanno parlato di Paolo Pantaleo e della sua attività di traduttore e curatore del blog Baltica news, punto di riferimento per l’informazione dalla Lettonia e dal baltico per l’Italia.
L’idea è nata lo scorso anno. Era appena scomparso il poeta Imants Ziedonis, tra gli scrittori più amati e apprezzati in Lettonia. Sapevo che Paolo Pantaleo aveva tradotto Krasainas pasakas (Favole colorate) e così abbiamo pensato che fosse il momento giusto per far conoscere ai lettori in Italia una delle opere più famose della letteratura lettone, per la prima volta tradotta e pubblicata in lingua italiana. Visto il successo della pubblicazione e il crescente interesse che i lettori, sia italiani che lettoni, dimostravano in questo libro, abbiamo deciso di creare una collana interamente dedicata alla letteratura lettone.

LB: Ci può illustrare brevemente le primissime uscite?
La prima uscita è stata Sapnis - Sogno di Rudolfs Blaumanis, considerato il più grande drammaturgo lettone. Poi è uscito Lakatins baltais - Un bianco fazzoletto di Nora Ikstena, una delle maggiori narratrici della letteratura lettone contemporanea, molto apprezzata a livello internazionale. Nelle prossime settimane uscirà il terzo libro della collana, Zida metelis - Il soprabito di seta di Janis Ziemelnieks, poeta romantico morto a Riga nel 1930. Nei prossimi mesi è prevista un’altra uscita entro fine anno.

LB: Può già dire se l'intenzione o il sogno è quello di allargare lo sguardo a altre letterature baltiche?
R: In tutta sincerità, al momento è solo una possibilità.

LB: Volevo chiederle come vi muovete con le traduzioni da questa lingua.
R: La collana è curata da Paolo Pantaleo, traduttore molto apprezzato in Lettonia per il suo impegno e passione per la cultura e letteratura lettone. Damocle si affida a lui per le scelte editoriali della “Piccola Biblioteca Lettone” e per la traduzione di questi testi in lingua italiana.

LB: Qual è l'immaginario che questa nuova collana cerca di colpire e, inevitabilmente, qual è l'immaginario dal quale questa collana parte? Grazie.

R: La Lettonia è un luogo molto interessante e merita sicuramente almeno una visita, reale o immaginaria, grazie alla lettura di uno dei nostri libri. In Lettonia ho incontrato persone straordinarie. Grazie all’illustratrice Margarita Fjodorova e al traduttore Paolo Pantaleo cerchiamo di fare avvicinare due culture, diverse, ma che per un certo verso hanno molti punti di attrazione in comune. L’intento di questo progetto è molteplice: avvicinare i lettori italiani alla scoperta di una letteratura straniera davvero ottima e finora poco affrontata, permettere ai lettori lettoni di imparare o migliorare l’apprendimento della lingua italiana (moltissimi lettoni parlano correttamente l’italiano), pubblicare autori per lo più mai tradotti in lingua italiana.

mercoledì 28 maggio 2014

"La paura e altri racconti della Grande Guerra" di Federico De Roberto

"Leggere una Grande Guerra" #3

"Leggere una grande guerra" intende essere il breve spazio in cui segnalo dei libri sulla Prima guerra mondiale. Il quinquennio 2014-18 coincide con un lungo periodo di celebrazioni, commemorazioni ed eventi a livello internazionale. Segnalare semplicemente dei titoli di libri, brevi o meno brevi, passati o attuali, reperibili o non reperibili, italiani o stranieri, può essere un buon antidoto contro le fanfare e i tromboni che stanno pericolosamente giungendo un po' da ogni parte. Le segnalazioni saranno sintetiche, poco più di una scheda bibliografica. (In coordinamento con World War I Bridges).


Edizioni e/o aveva già pubblicato anni fa il racconto La paura. Ora questo volume proposto all'interno di una collana denominata "Gli intramontabili" con il titolo La paura e altri racconti della Grande Guerra (pp. 144, euro 14) permette al lettore di attingere ad altri racconti che l'autore de I vicerè dedicò al primo conflitto mondiale. De Roberto non prese parte attiva alle operazioni militari e riuscì in un modo che ha davvero dell'incredibile a ripercorrere aspetti centrali e marginali di quella guerra dalla sua postazione forse privilegiata. Seppe usare bene il suo talento e questa postazione. Il libro contiene i quattro racconti La paura, Rifugio, La retata e Ultimo voto che videro la luce nel quinquennio rovente successivo al conflitto, tra il 1919 e il 1923. Questi ci dicono chiaramente, anche se forse non vi è più bisogno di ribadirlo, che Federico De Roberto è stato uno dei più grandi scrittori dell'Italia del ventesimo secolo, ingiustamente trascurato da un canone scolastico che gli preferisce ad esempio altri (grandi) siciliani. Credo sia un destino comune ad altri e penso a Ippolito Nievo. E se ogni canone è una macchina che programma l'oblio, auspicabile diventa l'avvicinamento a questo autore anche per vie traverse, come le "scorciatoie" dei racconti della Grande Guerra.

domenica 25 maggio 2014

La presentazione della collana Isola inaugura la seconda edizione di "Bologna in Lettere"

De "La collana Isola", libriccini di poesia e disegni, ho scritto a gennaio dando notizia dell'uscita dei primi quattro titoli. La ricerca continua, sono pronte altre perle di collana e ora la presentazione di questo progetto curato da Mariagiorgia Ulbar diventerà il momento inaugurale della seconda edizione del festival di letteratura contemporanea "Bologna in Lettere" che si terrà i prossimi 30 e 31 maggio nel capoluogo emiliano. L'arcipelago della collana s'arricchisce proprio in questi giorni con La spadina, uscita in parte anticipata nel precedente post, che ci porta al poeta e traduttore polacco Jarosław Mikołajewski. Il testo polacco è qui reso in italiano da Silvano De Fanti e illustrato da Francesco Balsamo (qui a fianco vedete la copertina). Ricordo che a Mikołajewski dobbiamo alcune tra le più recenti traduzioni in polacco dei nostri poeti: Pasolini, Penna, Pavese, Luzi, Ungaretti, Montale, Leopardi, Michelangelo, Petrarca e Dante. Per finire, e prima di lasciarvi al programma completo di "Bologna in lettere", un paio di anticipazioni da questa collana di libri davvero brevi: a giugno usciranno sia le poesie di Raimondo Iemma illustrate da Cristina Portolano sia quelle di Marco Simonelli illustrate da Luca Genovese. Questo il sito del progetto.


Bologna in Lettere
Festival di letteratura lontemporanea
II edizione
30/31 Maggio 2014
(potrebbe essere soggetto a variazioni e aggiornamenti)

giovedì 22 maggio 2014

Tradurre in italiano Wittlin, Szymborska e gli altri. Un'intervista con Silvano De Fanti

Librobreve intervista #39

Intendo inaugurare con questa intervista a Silvano De Fanti, professore di lingua e letteratura polacca all'università di Udine, una serie di chiacchierate con protagonisti della traduzione in italiano. Mi fa piacere iniziare con Silvano De Fanti (che a breve ritornerà ancora su queste pagine per un'interessante segnalazione), dalla lingua polacca e da un testo di Józef Wittlin finalmente riproposto. Mi auguro poi di offrire presto ai lettori nuove interviste con gli altri traduttori che hanno già accettato l'invito.

LB: Da poche settimane è uscito per Marsilio Il sale della terra di Józef Wittlin da lei tradotto. Il libro, del 1935, era stato proposto nel 1939 da Bompiani. Poi si può dire che è scomparso. Quale itinerario e quale processo lo fa riaffiorare ora, dopo moltissimi anni, al di là delle ovvie motivazioni contingenti legate al centenario del primo conflitto mondiale?
R: In effetti il romanzo era scomparso nel dopoguerra, e per giunta dopo aver portato il suo autore Józef Wittlin alla candidatura per il Nobel nel 1939. Scomparso dall'Italia – ma questo non fa specie né testo – e dal resto del mondo, Polonia compresa. Il Sale della terra ha condiviso la sorte del suo autore. Costretto a fuggire negli Stati Uniti in tempo di guerra assieme ad altri colleghi di penna di origine ebraica, dopo qualche anno il suo nome e la sua opera vennero messi all'indice in Polonia. La nascita della collana Anemoni pubblicata dalla casa editrice Marsilio, dedicata ai classici della letteratura dell’Europa centrale e diretta da due studiosi di rara competenza come la boemista Annalisa Cosentina e il germanista Luigi Reitani mi hanno dato l'opportunità di riproporre quel testo ingiustamente poco noto, ma estremamente attuale anche oggi, a prescindere dall'ambientazione bellica. Che poi il progetto sia stato accolto dall’editore lo si deve naturalmente anche alla motivazione contingente che lei cita. Del resto nel nostro ambiente si sa che a volte l'occasione fa l'uomo traduttore...

Andrzej Strug
LB: La "sbornia" da centenario della Grande Guerra ha già iniziato a produrre effetti visibili nelle librerie. Tuttavia, come anche la pubblicazione di Marsilio dimostra, c'è qualche spazio forse per sfruttare questa ricorrenza e riproporre dei libri fuori dai circuiti dell'editoria e della traduzione. Sempre con riferimento alla Prima guerra mondiale e alla letteratura polacca gliene vengono in mente altri? E in poesia si mosse qualcosa di significativo in quegli anni? (Ricordiamo che Wittlin stesso è poeta...)
R: Me ne viene in mente soprattutto uno, assolutamente non tenuto in conto dall'editoria europea, pubblicato due anni prima del Sale della terra. Si tratta de La croce gialla di Andrzej Strug, opera di stampo espressionista e pacifista, che sul canovaccio di un accattivante intrigo internazionale mostra gli elementi nascosti dei meccanismi e le conseguenze fisiche e morali della guerra. Può apparire singolare che i migliori libri di prosa sulla prima guerra mondiale – eccezion fatta per alcuni importanti racconti di scrittori affermati come Zeromski e Reymont – siano apparsi in Polonia soltanto negli anni '30 (ma senza avere caratteri di memorialistica), dopo una lunga elaborazione e in un clima sociale che faceva presagire un prossimo atroce conflitto. Per la Polonia la conclusione della guerra aveva significato la riconquista dell'indipendenza dopo centoventi anni di dominio straniero, e fu proprio la poesia, che nel secolo precedente si era assunta l'onere di servire la causa della patria, a rappresentare l’atmosfera di frenetica passione vitale seguita alla riconquista della libertà. A parte appunto, fra gli altri, Wittlin, che dopo il conflitto mondiale aveva visto di persona “in casa sua” la guerra civile fra polacchi e ucraini, lasciandone un resoconto estremamente umano e doloroso nel ciclo degli Inni. Chissà se anche oggi c'è un qualche Wittlin a osservare ciò che succede in Ucraina...

LB: Se paragoniamo il protagonista del romanzo di Wittlin, Piotr, ad altri celebri personaggi prodotti dalla letteratura della Grande Guerra, che cosa emerge di singolare e nuovo in questo analfabeta quarantenne sconvolto dalla cartolina-precetto e allo stesso tempo in grado di sconvolgere, con il mondo di cui è il portato, la burocrazia dell'esercito austro-ungarico?
R: Direi che prima di tutto va tolto di mezzo ogni tentativo di paragonare Piotr a Svejk. Si tratta di un raffronto compiuto in passato anche da acuti intellettuali (per esempio lo scrittore tedesco Doblin) ma non azzeccato, sebbene lo stesso Wittlin avesse messo in scena un adattamento dell'opera di Hasek. Tra di loro passa la differenza che esiste tra un logorroico e un semi-muto, tra un finto tonto e il vero scemo del villaggio, come effettivamente Piotr era considerato dai suoi stessi compaesani. Piotr è l’immagine dell'inadeguatezza più totale, è l’uomo selvaggio allo stato pre-morale, la cui comunicazione verbale è estranea ai codici comunicativi dei rari interlocutori. Di un tale personaggio Wittlin aveva bisogno per farsi accompagnare nella sua disamina, cinica e umoristica allo stesso tempo, non solo del fenomeno della guerra, ma anche di qualsiasi evento che ponga l’uomo in una situazione del tutto alienante. Si tratta dunque, a mio modo di vedere, di un approccio che anche oggi ha la sua validità: l’arretratezza culturale diffusa che impedisce di scorgere e comprendere la vacuità e la dannosità di valori mediaticamente divulgati come valori imprescindibili.

LB: Questa serie di interviste sta coinvolgendo più traduttori italiani. A lei vorrei banalmente chiedere se si diverte quando traduce. Sempre? Talvolta? Mai?
R: Sempre sempre e sempre. Un po' perché ho quasi sempre avuto la possibilità di tradurre testi di mio gradimento. E un po' perché se non fosse un lavoro divertente - e Dio sa quanto spossante – chi mai lo farebbe? Faccio un piccolo calcolo: dall'inizio della stesura de Il sale della terra fino alla sua pubblicazione è passato circa un anno o più. Diciamo tre ore ogni giorno per un anno, comprese le revisioni delle bozze e tutto il dovuto armamentario di interventi. Ebbene, tolte le tasse per un'ora di lavoro sono stato pagato (non ancora, a dire il vero) circa 2.70 euro all'ora. E ci traduce letteratura sa bene che su una frase, o su un paio di versi, ci si può stare mezza giornata. Siamo gli incapienti delle belle lettere...

Olga Tokarczuk
LB: Come sta la letteratura polacca oggi? Può menzionare autori o titoli che secondo lei meriterebbero presto una traduzione in italiano?
R: La letteratura polacca sta bene, ma soprattutto in casa propria. Quando si avventura all'estero -  e in Italia va peggio che altrove – ha bisogno di grossi arieti per scardinare i portoni di ferro dell’editoria. A volte non basta nemmeno aver vinto il premio Nobel, la poesia di Wislawa Szymborska ha potuto trovare sbocco in Italia più per la citazione televisiva di Saviano che per il Nobel stesso. Comunque direi che si traduce abbastanza anche in Italia, ma solitamente l'eco mediatico è languente, quindi la letteratura polacca rimane alla fin fine una letteratura di nicchia per pochi raffinati intenditori. Farei almeno una citazione: il romanzo Bieguni (è il nome di una vecchia setta di credenti) di Olga Tokarczuk, di cui sono già usciti alcuni libri. Questo romanzo, interessantissimo, è stato proposto ad alcune case editrici. Ma la lunghezza del testo atterrisce gli editori. Per i lettori d'oggi sarebbe una fatica immane...

LB: Ne Lo chalet della memoria lo storico americano Tony Judt racconta di come provò a farsi passare una depressione di mezza età tentando di imparare una lingua "minore" come il ceco. Quando lessi questo sorrisi perché avevo provato qualcosa di simile col polacco, non proprio a mezza età visto che di anni ne avevo credo ventisette, e forse, stando ai parametri di Judt, non ero neanche così depresso visto che interruppi presto lo studio. Potrebbe funzionare il polacco, secondo lei? O meglio il ceco come Tony Judt?
R: Non so proprio se una lingua minore serva a diluire la depressione. Di certo Judt ha scelto male: se avesse imparato il ceco prima o poi avrebbe per forza di cose parlato con un ceco. E si sarebbe accorto – troppo tardi – che quel ceco, come tanti altri, era piuttosto depresso di natura, forse proprio a causa della sua lingua.  Se avesse scelto il polacco, alla fin fine gli sarebbe venuta la voglia di dar vita a un'insurrezione nazionale. Se avesse scelto l'ungherese, avrebbe scoperto – come Piotr Niewiadomski – che lì dentro c'è il diavolo. E forse avrebbe fatto la scelta migliore.

martedì 20 maggio 2014

Francesco Targhetta a Treviso a Ca' dei Ricchi per "TRAversi 2"



Venerdì 23 maggio 2014 alle ore 21
Ca' dei Ricchi, via Barberia 25, Treviso
Rassegna di poesia "TRAversi 2" - a cura di Marco Scarpa
con Francesco Targhetta

Di Francesco Targhetta questo blog se ne è già occupato in un paio di circostanze, con la recensione al romanzo in versi Perciò veniamo bene nelle fotografie e con una bella intervista rilasciata in seguito alla curatela in ebook per Quodlibet dei Fuochi d'artifizio di Corrado Govoni. Ora c'è la possibilità di ascoltarlo live a Ca' dei ricchi il prossimo venerdì 23 maggio, durante il nuovo appuntamento della rassegna TRAversi 2 curata da Marco Scarpa. Targhetta, che recentemente ha vinto il premio Antonio Delfini a Modena, situazione nella quale ha presentato una poesia che potete leggere qui, leggerà dagli ultimi componimenti e quasi sicuramente ci sarà lo spazio per divagare su Govoni, figura chiave e pressoché negletta della poesia del Novecento e della quale Francesco Targhetta è oggi, assieme a Paolo Maccari, forse il più importante interprete.

Altri link:
http://ipoetisonovivi.com/tag/francesco-targhetta/
http://www.minimaetmoralia.it/wp/author/francescotarghetta/

Francesco Targhetta (Treviso, 1980) ha insegnato per quattro anni a scuola, ha fatto un dottorato in italianistica a Padova (lavorando su Corrado Govoni, di cui ha curato la riedizione de Gli Aborti per San Marco dei Giustiniani e dei Fuochi d’artifizio per Quodlibet), ha vinto un assegno di ricerca (sulla poesia simbolista di fine ’800), ha scritto un libro di poesie (Fiaschi, Milano, ExCogita, 2009) e un romanzo in versi (Perciò veniamo bene nelle fotografie, Milano, ISBN, 2012). Ora è andato in loop e ha ricominciato a insegnare.

domenica 18 maggio 2014

Il carteggio tra Biagio Marin e Claudio Magris: "Ti devo tanto di ciò che sono"

 Quote #3

"To repeat or copy the words of another, usually with acknowledgment of the source." Questo il verbo "to quote". Ma in italiano "quote" è il plurale di quota, parola che mi interessa soprattutto nel senso della misura di un'altezza o di un lato. Citando e contestualizzando minimamente passi importanti, cerco un modo assai svelto di dar notizia di libri significativi, possibilmente brevi. Stando breve, pure io.


Per la cura di Renzo Sanson Garzanti pubblica Ti devo tanto di ciò che sono (pp. 460, euro 18.60), carteggio fitto tra due figure portanti della nostra cultura e del nostro tempo, Claudio Magris e Biagio Marin. Scrivo "nostro tempo" perché questo carteggio sta tutto inculcato nel nostro presente, anche se gli incartamenti di cui è composto partono nel 1958 per arrivare al 1985, anno in cui Marin morì, la vigilia di Natale. Leggiamoli i carteggi, tra vent'anni o anche prima non potremo più pensare di pubblicare e leggere i carteggi che anche oggi magari avvengono in altre forme, o magari dovremo pagare un pegno a Gmail e Yahoo per recuperare le lettere. Ma come cambia il carteggio? Cosa sono questi carteggi di grandi affetti, tra maestro e allievo? Che cosa vi passa? Vi passa davvero quello che ha senso far passare di due vite, vi entrano i momenti di pensiero più fondanti, quando ancora i pensieri stanno bollendo, vi entrano gioie e amarezze profonde, vi entra anche l'editoria, che non sempre farà una bella figura, lasciando sfogo a frustrazioni grandi. Magris si rivolge inizialmente a Marin con "Caro professore" mentre Marin risponderà quasi sempre con un "Caro Claudio", talvolta alternato da un semplice "Claudio", altre volte "Mio caro figliolo". Magris passerà più tardi a un "Caro Marin". Magris vede in Marin un unico padre, dal quale attingere forza, verità e salute. Marin forse sente nell'inquietudine di Claudio quella di un figlio (e il figlio morto di Marin, Falco, spesso adombra o illumina anche la prosa di queste lettere). Ho scelto di riportare una lettera di Marin, che parte tra l'altro da una lettera di Magris scritta in fretta e non ritrovata tra le carte del poeta di Grado. La seconda parte mi è sembrata importante, laddove parla dei geni della tradizione. E poi una poesia, scelta tra quelle dell'Elefante Garzanti curato proprio da Claudio Magris assieme a Edda Serra, da El vento de l'eterno se fa teso.


9.V.'59

Caro Claudio,

non voglio fare a meno di ringraziarti per la tua ultima, scritta in fretta, con una calligrafia da far disperare, ma, come tutte le tue lettere, dono di vita. Grazie.
Sì esiste davvero quel pericolo, per gli uomini spirituali, di naufragare nella superbia del superuomo. Ma bada che il problema psicologico è più complesso, più delicato di quanto ti possa parere. Anche Gesù ha conosciuto l'amarezza del sentirsi solo, e la rivolta contro l'ottusità del suo prossimo. E anche per il "trascende temet ipsum" avrei qualche parola da dire.

Quel temet ipsum non può essere trasceso se non in quanto esso non è una realtà naturale definita, ma è processo all'infinito. E questo processo, mio caro, non lo trascendi. Esso costituisce l'uomo interiore che via via si adegua a Dio. Se veramente ci fosse uno iato, Dio non avrebbe a chi parlare, dove incarnarsi. Non ti fidare di nessuno, neanche dei geni della tradizione, che hanno avuto anche essi i loro limiti e le loro contraddizioni. Ogni momento in cui tu non ti ripeta, in cui tu veramente pensi, ti trascendi. Vi ha una trascendenza concreta, che, come detto, è eterno processo, itinerario dell'uomo presente definito hic et nunc, fino all'universalità del divino, e una trascendenza astratta, più immaginata che pensata da certi mistici e poi contrabbandata da teologi. Tu tienti a quella concreta. - Sì, è anche vero che ogni nostra costruzione implica una nostra limitazione, un nostro imbozzolamento, per cui, ad un certo momento, perdiamo la libertà creatrice. Comunque, mio caro, scendi sempre alle "madri", alle sorgenti, e fa che tu possa sempre rinascere ed essere nuovo.


Con affetto ti abbraccia e saluta, 
Marin




Me a la vita crèo
ma nissun l'ha mai vista in viso,
ha misurào la màgia del so reo,
el so sgorgâ dal mistero inproviso.

I vol portâla in alvei de corente,
in condote d'assal, forsàe,
traverso munti e piane solesàe,
segondo el comandâ de la so mente.

Ela la ríe, la passa via lisiera,
cô no' la spaca duti i so struminti 
e la disperde ai quatro vinti,
e òmini e sità, sensa maniera.


Io alla vita credo; / ma nessuno l'ha mai vista in viso, / ha misurato la maglia della sua rete, / lo sgorgare improvviso del mistero. // Vogliono portarla in alvei di corrente, / in condotte d'acciaio, forzate / attraverso monti e pianure assolate, / secondo il comandare della loro mente. // Lei ride, passa via leggera, / quando non spacca tutti i suoi strumenti / e disperde ai quattro venti / e uomini e città senza maniera.

giovedì 15 maggio 2014

"Il cimitero cinese" di Mario Pomilio

Riletture di classici o quasi classici (dentro o fuori catalogo) #20

Mario Pomilio, 1921 - 1990
Volevo tornare a leggere qualcosa di Mario Pomilio e sono rimasto incuriosito dal titolo di un "libro" assai breve che in realtà l'autore pubblicò in volume, per Rizzoli, soltanto nel 1969, assieme ai romanzi L'uccello nella cupola, Il testimone e Il nuovo corso (e il titolo scelto per radunare questi quattro libri nel volume raffigurato dalla geometrica copertina qui sotto fu proprio Il cimitero cinese). Il cimitero cinese è avvolto da una vicenda editoriale abbastanza discontinua: uscito in antologia nel 1958 ne La nuova narrativa italiana di Giacinto Spagnoletti, questo racconto vede in realtà una prima stesura molti anni prima. Questa discontinuità caratterizza un po' tutta la vicenda editoriale dell'autore de Il Quinto Evangelio. Il cimitero cinese è riapparso nel 2013 per le Edizioni Studium assieme a Ritorno a Cassino e all'inedito I partigiani in un volume curato da uno dei nostri più bravi critici, Federico Francucci. E ora pare che anche quel volume assai recente sia tornato nel limbo dell'irreperibilità. Peccato. Mi pare un racconto lungo bellissimo. Fino a quando il lettore non si sarà spinto alle ultime pagine de Il cimitero cinese il mistero di questo titolo non potrà essere svelato. Questa è la storia di due studenti, lui italiano e lei, Inge, tedesca. Si conoscono a Bruxelles, all'università. Prendono un'auto e dopo un imbarazzato passaggio alla dogana viaggiano verso i grandi cimiteri della Seconda guerra mondiale della Francia settentrionale. Si fermano, si baciano, si interrompono, si fraintendono e ripartono in una corsa breve che arriva presto a fare i conti con tutta la distruzione e la morte che è stata.

Questo racconto lungo ricade forse in pieno in quel gran fiume di opere del dopoguerra del quale Italo Calvino parlò in termini quasi fisiologici. Eppure c'è qualcosa che salva questo testo dall'essere un solo viaggio, una sola avventura, un'avventura d'amore, una fuga, un solo riconoscimento del disastro materiale e morale della guerra, un tentativo davvero precoce di andare oltre i confini nazionali che stanno tornando così in auge oggi (i due protagonisti rappresentano i paesi dell'Asse, in sostanza, per il sentire del dopoguerra, le "canaglie" che causarono il conflitto). C'è qualcosa che fa sì che i baci che i due protagonisti si scambiano accadano sempre in momenti isolati e avvolti di mistero, quasi di vitale incomprensione. E c'è qualcosa che dice anche degli effetti della guerra sulle cose forse più normali che ci accadono: incontrarsi, frequentarsi, innamorarsi, provare a capirsi. Questi due studenti ripresi sul finire dei Quaranta a passare un fine settimana a Pas de Calais, Dunkerque, Boulogne, Etaples e Paris-Plage sfilano nel paesaggio della guerra appena finita, dove la logistica militare non certo smantellata si alterna alla diversa "logistica" della sepoltura dei cadaveri di guerra e delle violenze troppo fresche, magari legate a pochi metri quadri ancora riconoscibili e proprio il paesaggio entra in modo netto, irreversibile, in questo racconto che potremmo forse considerare anche un esempio di "romanzo automobilistico" ante-litteram (se pensiamo che la prima stesura risale ai primissimi anni Cinquanta ne capiamo forse la precocità!). 

In Pomilio vi sono una capacità e un coraggio quasi senza pari nel guardare dentro l'animo di un uomo e una donna che provano a conoscersi, e che vanno sicuramente al di là del peso e del condizionamento che l'ambientazione storica di questo racconto necessariamente presuppone. Affetto e slanci, idealità e realtà bruta, avvicinamenti e bruschi distacchi, spensieratezza e ritorno in ombra dei pensieri, miti e eradicazioni dei due protagonisti sono trattenuti e rilasciati, quindi liberati in quella sorta di imprevedibile e stralunata agnizione finale che sembra vivere nel personaggio del custode del cimitero cinese, scena sulla quale si chiude (o si tronca elidendosi?) questo straordinario racconto dello scrittore di Orsogna. Ed è qui che Pomilio "salta" all'altra guerra, quella che in fondo s'era conclusa appena trent'anni prima, la Grande Guerra. Il cimitero cinese del titolo altro non è che un cimitero della Prima guerra mondiale dove furono sepolti soldati cinesi assoldati dall'esercito inglese con lo scopo di scavare trincee sul fronte belga, i Coolies imbarcati a Canton e portati in Fiandra e verso Arras. E l'incontro con il custode cinese, da anni lì a prendersi cura di questo fazzoletto di terra, fa piangere Inge, che scioglie improvvisamente un contegno che a tratti poteva sembrare davvero teutonico e porta ad uno di quei baci che Pomilio è così bravo a tratteggiare e isolare dal fluire della narrazione. Il custode cinese, nella sua fissità, sembra radunare in sé quello che i due protagonisti forse cercano più o meno consciamente di scoprire durante il loro fine settimana francese:

Mi fissava, parlando, con una sua impersonale dolcezza, che era come il sigillo d'un'antica dignità e sembrava escludere qualsiasi altro sentimento che non fosse d'umile e inespressa fedeltà a quel semplice cimitero che le sue mani avevano curato e modellato per tanti anni fino a lasciarvi un'impronta di lui, della sua pazienza e perfino, si sarebbe detto, della sua tenerezza. Per cui, quando gli chiesi: «E non vi siete mai mosso di qui? non siete mai stato altrove?», prima che lui mi rispondesse: «Altrove? E perché?» (e lo disse con un tono che poteva significare tanto "E dove altro potrei andare?" quanto "Vi pare possibile che potrei andare altrove?"), io avevo già avvertito quanto fosse insulsa la mia domanda e che cosa invece dovesse significare, per un uomo solo e sradicato, sbattuto a tale distanza dalla sua terra e fors'anche dai ricordi di una giovinezza troppo lontana perché nel suo animo vi restassero vivi gli affetti, quel breve recinto verde incorniciato di fiori, che era bastato da solo a radicarlo a un'altra terra e a fargliela amare; o per lo meno a sostituire ai suoi ricordi e ai suoi affetti, piuttosto che altri affetti, quel senso di devozione fraterna ai simboli della morte, che è antico e irrazionale quanto l'uomo e che tanto ci avvicina, rendendoci così mitemente rassegnati ad amarci l'un l'altro, da qualsiasi parte veniamo o qualsiasi lingua parliamo o qualsiasi cosa abbiano fatto gli altri per dividerci. Questo almeno stavo provando io stesso in quel momento con una forza e un trasporto a me sconosciuti.

Spiace forse dirlo, visto che è stato e vorrebbe continuare ad essere un fiore all'occhiello della nostra storia, e nessuno s'offenda, davvero, ma con questo precoce racconto di Mario Pomilio il tanto rinomato Neorealismo italiano appare già morto e sepolto sul nascere, tanto è superato da una grande prova narrativa che scavalca certe ottuse fissità di quella stagione, in fondo un po' ingenua. Che sia solo un caso allora che un racconto del genere non trovi una sua stabile collocazione in libreria?

lunedì 12 maggio 2014

"Come i coralli" di Nicoletta Bidoia

Tempo fa, in una delle scorribande di letture sconclusionate di geologia e paleoantropologia, ero alle prese con un agile volumetto di Laterza, La scienza delle nostre origini, scritto dagli antropologi Claudio Tuniz, Giorgio Manzi e David Caramelli. Mi ero imbattuto in un passaggio sui coralli e avevo da poco letto in anteprima quasi tutte le poesie di Nicoletta Bidoia ora contenute in Come i coralli (La Vita Felice, pp. 84, euro 13). Questo il passo che avevo evidenziato con un orecchio: "Il corallo si forma sott'acqua, ma quando il livello del mare s'innalza, per esempio in seguito allo scioglimento dei ghiacci polari, l'aumentato spessore di liquido scherma il Sole, che così non può raggiungere le alghe che vivono simbioticamente con il corallo. Attraverso la fotosintesi, tali piante microscopiche forniscono ai coralli il nutrimento necessario, per cui l'assenza dell'energia solare fa morire le alghe e, a cascata, il banco di corallo".

"Il corallo è come noi. Pare uno, / ma sono tanti i tremori che lo fanno." Il titolo del libro, quell'allitterante similitudine del fiore-animale acquatico, accetta di arrivare a noi quantomeno in accezione duplice. Se prima vi è la meraviglia (e questo è un libro non estraneo alla meraviglia del vivere e alla festa dell'osservare e del raccontare), in seconda ma non secondaria battuta vi è la consapevolezza del corallo, che diventa scheletro calcareo di qualcosa che vive nascosto, nelle profondità dei mari o come fossile in quota tra le montagne. E se il corallo assomiglia a un tentacolare albero, L'albero è allora il titolo della poesia d'apertura, la prima della sezione intitolata Novecento e tutta incentrata su quel lavoro invischiato che è il recupero orale della memoria. Qui però avviene subito qualcosa di diverso, di nuovo: il riconoscimento di uno scarto che abita pienamente gli ultimi tre versi di questo testo.

Andò a Venezia negli archivi
e compose l’albero della vita,
la dinastia con le bandiere
sulla diramazione di un nome.
Trovò nel sangue tracce di Sardegna
e un più nobile corredo francese.
“Veniamo dai De Lion” diceva,
appuntando d’orgoglio le radici
di una storia. C’era tutto in quelle tavole,
compresa la filigrana dei destini,
ma l’albero si è perso, non si trova
e del disegno fastoso
non è rimasto niente.

Si discende adesso come tutti,
un rametto dopo l’altro
alla cieca.

Nel lungo componimento successivo, La solita storia, assistiamo al racconto della prigionia di guerra del nonno dell'autrice e diventa palpabile la presenza dell'opera, davvero centrale nella formazione e nella scrittura di Nicoletta Bidoia (in questo testo sono Tosca, Rigoletto e L'Arlesiana). Ed è sempre il canto, che davvero andrebbe capito in tutta la sua centralità nella letteratura, che ritorna anche nel testo intitolato Il gigante.

Stacca il turno e ritorna
fischiando Bandiera rossa.
La sventola sottovoce, in bici,
col sollievo di chi sogna. Qualcuno
ascolta - riporta - e in sette
sul piazzale della chiesa
rinfacciano ogni nota, colpendo invano
i suoi due metri e rotti di coraggio.
Li sistema tutti e rincasa.
Ma sono i giorni del ‘28 e un canto
si paga col morire. Basta un soffio,
un’ipotesi di castigo e un camion
tende l’agguato a quella voce.
La squadra si avvicina una sera,
di fronte al bar di Lancenigo,
facendo fuori l’usignolo
lì, sulla strada.

Un'oralità polifonica e fittamente abitata, quasi dolcemente invasa dagli altri e così vivida nella prima sezione, subisce poi un arresto non brusco, tuttavia deciso e meditato, nella parte centrale intitolata Silenzi. Sembra qui sfrondato il numero di persone precipitate dentro i testi. Qui, come nei ritagli dei collage e dei teatrini di carta in cui l'autrice trova la propria più grande beatitudine (si possono vedere su Youtube), si prova davvero a trascrivere il silenzio "quasi fosse l'aria rarefatta di un ghiacciaio". Ed è qui che si registra meglio anche quel rallentamento che appartiene al ricordo. Così, in una poesia che prende lo spunto architettonico e volumetrico da due chiese, leggiamo:

Due chiese mi porto dentro:
quella interna al collegio a Reggio Emilia
- nella viva preghiera ero in attesa
che la pietra si allungasse
e tenesse davvero con sé -
e Santa Lucia a Treviso, sempre di mattina presto,
dopo la corriera e prima dell’ufficio,
deserta anche quella.
Una mezzora di niente, poco meno,
uno slargo atteso di silenzio. Mi ostinavo così
ad accogliere Dio o un suo frammento,
come quando insistevo di andare all’asilo
prima degli altri, per vederli arrivare
e per capire da dove veniva tutta la gioia
che avrei provato dopo (con gli altri
si vive anche così, da soli,
e pieni di pensieri per loro)
- poi le braccia si allargavano
perché avevo fatto spazio. Ecco, il buio
è solo un’altra faccia da guardare
e a volte anche la nostra si spegne
e fa paura, così finisce che tutto
è reciproco di qualcosa, e anche se non vuole
ne fa parte.

Parlami, la terza e conclusiva sezione di Come i coralli, si apre ancor più alla molteplicità del vivere e alla stratificazione di situazioni che ci conducono in molti posti, in tanti piani del sentire e del resistere, persino da un veterinario bizzarro che dà ancora del voi. E se "tutto varia col variare del tutto", come vuole il Fabio Pusterla citato in epigrafe del volume, c'è qualcosa che inevitabilmente resta. In Cima Uomo si legge:

Resta la luce delle cose indovinate,
l’armonia che a fine agosto si incastona
nella conca tra Cima Uomo
e l’ansia. Portiamo qui la vita
- il modesto dono al paesaggio -
davanti a quelle pale,
mai così lontane come oggi nelle nuvole,
mentre sale la musica dal fondo
a ricordare tutta la fatica
di essere cima, burrone,
strapiombo e quasi mai
essere prato. 

I coralli, nel loro essere quasi-pietra quasi-rosso quasi-sangue (Pietra sangue per ritornare a Pusterla?) e nel loro esistere così dipendenti e in fondo grati all'inclinazione dei raggi solari che ricevono, all'habitat dei loro banchi, ci invitano a riunire le barriere del mare con le buzzatiane barriere delle pareti dolomitiche, che furono mari tropicali a loro volta, in tempi lontanissimi, e poi a provare a tastare la temperatura e la pelle di quei visi di roccia dove vediamo proiettato il tremolio rosso-viola dell'enrosadira, quel magnifico fenomeno cromatico che dà il titolo a una poesia di questo libro. I coralli e le rocce ci invitano anche a compiere quello sforzo davvero oltraggioso e creativo che ci vede trasformare il bianco del bicarbonato di calcio e del magnesio nell'accensione di un viso ("Se parliamo di loro, la distanza scompare / e ci raggiunge in pianura una pace / e un lieve discorso di pietre dolomiti / che sanno mutare le pareti come guance, / trasfigurare le crode in alba, /in docile tramonto."). Si verifica in questo libro una sorta di simbiosi di uomo natura e scrittura che non è un artato rimescolamento di piani e dei regni viventi, bensì un'interrogazione fonda e mai calcata del nostro stare al mondo.

Il corallo è come noi. Pare uno,
ma sono tanti i tremori che lo fanno. La fiducia
sembra farsi verticale, poi s’inclina
- basta un’ombra che s’impiglia in uno sguardo.
Chi racconta di colonie millenarie sta parlando
dei giorni nostri in fila, se non fosse che ogni tanto
si spira per un niente.
Siamo scheletri e barriere e rosso vivo
che si annoda e che compone
- sapendo di mentire - un ordine perfetto
e la sua fine.



(La trasmissione Fahrenheit di Radio Tre dedicava proprio oggi un'intervista all'autrice, completata dalla registrazione di alcuni testi di questo nuovo libro letti dalla voce stessa di Nicoletta Bidoia.)

giovedì 8 maggio 2014

da "Tre bei modi di sfruttare l'aria" di Francesco Balsamo

Una poesia da #37


Ho conosciuto dapprima il versante figurativo di Francesco Balsamo, artista e poeta catanese che sa scegliere titoli bellissimi. Lo potete scoprire anche voi in questo sito. Mi interessano molto i poeti che praticano o hanno praticato una ricerca figurativa o gli artisti che scrivevano e scrivono anche poesia o prosa. (Leggete le poesie di Paul Klee se vi capita, ve ne sono di molto belle, e per stare in Italia penso solo a Emilio Tadini, Toti Scialoja, Filippo De Pisis o Alberto Savinio e spostandosi ancora a Henri Michaux.) E non mi interessa necessariamente scoprire le differenze o trovare le somiglianze tra i due o più versanti del lavoro d'artista, in una caccia che troverei abbastanza insulsa e sterile all'"artista completo". Incontrare un artista significa piuttosto incontrare l'incompleto e le assenze, finanche pensieri che si sottraggono a sé stessi. Mi interessa che esistano persone in ossa e carne che abbiano avuto momenti distinti dedicati alla poesia e altri al disegno, alla pittura, alla grafica o all'illustrazione, alla musica, al cinema. Nei disegni e nelle opere di Francesco Balsamo ho trovato dispiegata, in sofferenza e grazia canicolari, quella sensazione di stare in un caldo sogno che forse porta il nome della sua isola. Quando ho letto, in sessione ravvicinata, Ortografia della neve (Incerti Editori, 2010) e Tre bei modi di sfruttare l'aria (Edizioni Forme Libere, 2013) ho capito come il suo lavoro d'artista figurativo fosse la conferma che non c'è nessuna fretta, ansia o necessità di ravvicinare i versanti del disegno a quelli del disegno con le parole e le lettere, visto che il disegno viene prima e la scrittura è anche disegno (non vale invece l'inverso, io credo).

Vi è nei suoi componimenti una dolcezza mai trattenuta eppure così sanguigna, corrente sottopelle, mai debordante e quasi feroce, come quella che si può impadronire del nostro sguardo in rari momenti di sospensione e interruzione (Tout commence par une interruption scriveva Paul Valéry), e vi è un "odore di diluvio" che non è necessariamente di sola pioggia, ma è di sole, neve, aria e luce, con la sola differenza che qui non siamo, rimbaudianamente, après le déluge ma ci siamo soffermati un attimo prima, frapposti tra l'insistenza di uno sguardo che preme e rovista e un accoglimento di quello che arriva alla mente diluviando, agli occhi e ai sensi tutti deviandoli. In una poesia che mi subito colpito scrive: "di inverni oggi / ne sono passati due, // interni ai muri / come cavi elettrici, // stazioni radio / se accosti l’orecchio - // (se accosti l’orecchio / un muro è un giorno di dio)". Il poeta Giampaolo De Pietro, chiudendo questo volume con la sua nota e riprendendo tra l'altro un filo che riporta al già citato Klee, scrive che "La lacrima (disegno del 1933), ad esempio, potrebbe sembrare un foglio di questo libro, un modo “scelto” di sfruttare l’aria, tra la carta e la parola, il respiro del tracciare e dello sfregolare il tempo, tra una figura e un discorso, che poi fa sempre silenzio, stagione, vegetazione; corpo che scricchiola e preghiera divisa tra due sedie e le spalle. Un ronzio, trottola del fiato che chi scrive ha imparato ad ascoltare, nel sentirsi solo come una mosca in una stanza abitata dall’ora, tra le lancette di una pagina scritta e i piccoli mai delle sillabe. Capita spesso che le figure di Klee si differenzino di poco da ciò che le circonda, ecco, chi scrive sta per confondersi col resto, proprio e circostante. Zone diverse di colore, qui e là. Una rotondità che torna, quasi irride. [...]" (il corsivo è mio). Qui sotto le tre poesie che ho scelto.


i fazzoletti dei calendari,
quelli di chi parte -

in strada il sole su un fianco,
per chi resta -

la brace fredda delle chiavi -
la sonnolenza dei vetri nei vapori -

per chi resta mai si pronuncia
in sottili spiegazioni,

o nell'intesa del viso
con la mano -

-

la casa bene piegata,
le cose ancor prima delle cose,
la vita fino alle ossa

tra la misericordia ghiacciata dei muri
e la comprensione del pavimento,
che regge tutto senza che nulla lo sfiori -

solo chi morde le pietre
sente il batticuore dell'aria

-

ognuno ha una sua mappa nell'abbraccio
una strada premuta come un sasso
la scintilla di una luce spenta
la speranza di un lampione
la tenerezza dei tetti
accanto ai tetti


(Sopra un'opera di Francesco Balsamo: Insonni (part.), 2010/2011, tecnica mista e campanelli su tavola, 103 x 73 cm)

martedì 6 maggio 2014

A Cesenatico il 14 giugno staffetta 4x4 voci e una serata di poesia in omaggio a Nino Pedretti


Sabato 14 giugno ore 21.00
Giardino di Casa Moretti, Cesenatico (FC)


Librobreve: staffetta a più voci.
Serata in omaggio a Nino Pedretti
Letture di Nicoletta Bidoia, Alberto Cellotto, 

Una staffetta è una corsa, una sciata o una nuotata che si porta a termine con altri, spesso proprio in quattro, quattro come le voci che ho radunato per questa serata, su invito di Manuela Ricci di Casa Moretti.
L’ho pensata quindi come una staffetta circolare: ogni poeta è invitato a presentare il poeta che verrà poi, fino a quando il penultimo poeta-frazionista presenterà a sua volta il primo presentatore, il quale correrà come ultimo poeta-frazionista. Correrà o nuoterà per arrivare a chiudere una sorta di cerchio, per tagliare un traguardo che in realtà non sta in nessun luogo preciso. Come la poesia, forse.
Ho scelto la formula della staffetta nel momento in cui mi è stato chiesto di leggere cose mie e di essere pure il presentatore: non mi piaceva l’idea di presentare tutti i poeti e di leggere infine dei miei testi. Per questo motivo ho pensato a una staffetta, a uno sforzo condiviso, dove ognuno è lettore ma anche presentatore. Come compagni di corsa e nuotata ho chiamato poeti che sento vicini e che stanno scrivendo cose nuove. Mi auguro che le corse e le bracciate delle poesie lette assieme creino un bel movimento d’aria o moti ondosi.
Vorrei dedicare la serata a Nino Pedretti. Galeotto fu un suo libro, Al vòuşi, ospitato su “Librobreve”, questo spazio nella rete dove è nato il contatto con Manuela Ricci e Casa Moretti, che ora si concretizza in una serata vera tra versi e amici. 


La tradizionale rassegna estiva "La serenata delle zanzare" di Casa Moretti avrà inizio domenica 1 giugno. Ecco qui sotto gli altri appuntamenti (in caso di brutto tempo questi avranno luogo nel Teatro comunale adiacente a Casa Moretti).


 

Domenica 1 giugno ore 18.00 - Giardino di Casa Moretti
Parole matte nel giardino del poeta...
Spettacolo per bambini con 
CHIARA CARMINATI e GIOVANNA PEZZETTA

Domenica 29 giugno ore 18.30
Ma «io non ho niente da dire»: grado zero, afasie, silenzi della poesia del Novecento
letture di SILVIO CASTIGLIONI
in occasione dell’inaugurazione della mostra

Sabato 5 luglio ore 21.00 Giardino di Casa Moretti
Minute poetiche di Calligraphie
reading di ROBERTA BERTOZZI e FABIO ORRICO

sabato 3 maggio 2014

Alcuni scritti di Antonin Artaud dal periodo di Rodez in "Hitler della razza delle scimmie"

Rodez è un paese della regione Midi-Pirenei dove Artaud fu internato dal 1943 al 1946 dopo il viaggio in Messico tra i Tarahumaras e il rimpatrio con la successiva parentesi irlandese. Questi tre anni cruciali della storia d'Europa, coincidenti con il periodo "de la folie" artaudiana, rappresentano oggi un quarto dell'opera dello scrittore marsigliese (sette su ventotto volumi delle opere complete pubblicate da Gallimard a partire dal 1946 stesso). Hitler della razza delle scimmie. Sulla deportazione e altri scritti è invece un libretto lieve alle braccia di sole 64 pagine (Il melangolo, € 7) e curato da Sergio Crapiz. L'introduzione del curatore è fondamentale per inquadrare questi 4 testi artaudiani nel succitato periodo, anche se il quarto contributo, Il teatro e l'anatomia, tratto dal tomo dei Cahiers du retour à Paris, è già fuori, seppur di pochissimo, dalla cornice di Rodez. Il volumetto pubblicato da Il melangolo offre così al lettore una selezione significativa all'interno del mare grosso degli scritti completi dell'autore de Il teatro e il suo doppio, quattro punti di accesso alla foresta della sua opera completa (anche se, con Zanzotto, non possiamo non registrare un certo disagio nell'applicare il concetto di "opera" alla vicenda artistica artaudiana). Cerchiamo di capire perché, esplorando le motivazioni che hanno portato al montaggio di questi quattro scritti.

A Sonia Mossé, il primo scritto qui raccolto, è significativo in quanto si colloca nel periodo della "conversione" artaudiana al cristianesimo. Questa pittrice, attrice e ballerina ebrea era già stata qualche anno prima destinataria dei sorts di Artaud, vere e proprie lettere-sortilegio apotropaiche inviate a diversi destinatari. Sonia, che come ricorda Crapiz rappresenta una delle "muse massacrate" di Artaud (muse che sembrano appartenere, per dirla con Maurice Blanchot, a l'écriture du désastre) non ricevette mai la lettera in quanto morì nel campo nazista di Majdanek. Il primo scritto serve anche a comprendere le ragioni della titolazione scelta per questo volume. Il secondo testo, intitolato Dai Cahiers di Rodez, porta la significativa data del 2 maggio 1945, giorno del ritrovamento del cadavere di Hitler. La notizia era troppo grande per non passare anche dentro le mura dell'ospedale di Rodez e in questo testo allora Hitler, Stalin e i francesi di Vichy sono radunati come le vere cause del proprio internamento. Significativo il terzo scritto qui raccolto, una lettera a quel Pierre Bousquet che gli fu amico. Anche qui torna l'Hitler del titolo "presentato come una maschera senza volto o marionetta vuota, nome mitologico di una forza magica collettiva che Artaud associa con sarcasmo, sul filo di una etimologia bizzarra, ad origini slave, ceche, moldovalacche". Avvengono qui le insistite identificazioni di Hitler con la cultura rom e con gli zingari perseguitati dagli stessi nazisti.

Il librino si chiude con Il teatro e l'anatomia che ci porta diretti dentro la crudeltà artaudiana. Di questo brevissimo ma concentrato scritto riporto i primi passi:

L'ultima parola sull'uomo non è stata pronunciata. Voglio dire che è necessario sapere se l'uomo continuerà ad avere il naso in mezzo alla faccia o le due narici di questo cranio umano che ci guarda dai tavoli dell'eternità ne avranno abbastanza di fiutare e sgocciolare senza mai poter sentire né credere che contribuiscono al cammino esoterico del pensiero con l'ausilio di due alluci ben appoggiati.
Il teatro non è mai stato concepito per descrivere l'uomo e le sue azioni ma per formare un essere d'uomo che ci permetta di avanzare sulla strada del vivere senza imputridire e senza emanare fetore.
L'uomo moderno imputridisce ed emana fetore perché la sua anatomia è malsana e ha il sesso mal collocato rispetto al cervello nella quadratura dei due piedi.
E il teatro è questa marionetta disarticolata, che musica di tronchi con barbe metalliche di filo spinato ci mantiene in stato di guerra contro l'uomo che ci stringeva nella sua morsa [...].

Ma stiamo ancora qui a chiederci cosa fare dell'autore de I Cenci, dopo il suo rifiuto totale dell'Occidente, dopo il suo primitivismo così salutare, il suo esorcizzare con la magia? No, non è possibile. I conti con Artaud non si chiuderanno mai, questo è chiaro, ma se vogliamo provare a capire come andare oltre il linguaggio, per Artaud dobbiamo passare e ripassare più volte, convergere per molte traiettorie, e non possiamo più nutrire molti dubbi a riguardo.

giovedì 1 maggio 2014

Traviso per Edizioni Prufrock spa


"Après un certain âge, tout homme est responsable de son visage."
Albert Camus, La chute

Il booktrailer di Traviso, un breve libro che uscirà a giugno
per Edizioni Prufrock spa. 

Ringrazio Luca Rizzatello e Nicola Cavallaro che con questo volume 
hanno deciso di inaugurare una nuova collana di testi poetici della casa editrice.