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Mario Pomilio, 1921 - 1990 |
In Pomilio vi sono una capacità e un coraggio quasi senza pari nel guardare dentro l'animo di un uomo e una donna che provano a conoscersi, e che vanno sicuramente al di là del peso e del condizionamento che l'ambientazione storica di questo racconto necessariamente presuppone. Affetto e slanci, idealità e realtà bruta, avvicinamenti e bruschi distacchi, spensieratezza e ritorno in ombra dei pensieri, miti e eradicazioni dei due protagonisti sono trattenuti e rilasciati, quindi liberati in quella sorta di imprevedibile e stralunata agnizione finale che sembra vivere nel personaggio del custode del cimitero cinese, scena sulla quale si chiude (o si tronca elidendosi?) questo straordinario racconto dello scrittore di Orsogna. Ed è qui che Pomilio "salta" all'altra guerra, quella che in fondo s'era conclusa appena trent'anni prima, la Grande Guerra. Il cimitero cinese del titolo altro non è che un cimitero della Prima guerra mondiale dove furono sepolti soldati cinesi assoldati dall'esercito inglese con lo scopo di scavare trincee sul fronte belga, i Coolies imbarcati a Canton e portati in Fiandra e verso Arras. E l'incontro con il custode cinese, da anni lì a prendersi cura di questo fazzoletto di terra, fa piangere Inge, che scioglie improvvisamente un contegno che a tratti poteva sembrare davvero teutonico e porta ad uno di quei baci che Pomilio è così bravo a tratteggiare e isolare dal fluire della narrazione. Il custode cinese, nella sua fissità, sembra radunare in sé quello che i due protagonisti forse cercano più o meno consciamente di scoprire durante il loro fine settimana francese:
Mi fissava, parlando, con una sua impersonale dolcezza, che era come il sigillo d'un'antica dignità e sembrava escludere qualsiasi altro sentimento che non fosse d'umile e inespressa fedeltà a quel semplice cimitero che le sue mani avevano curato e modellato per tanti anni fino a lasciarvi un'impronta di lui, della sua pazienza e perfino, si sarebbe detto, della sua tenerezza. Per cui, quando gli chiesi: «E non vi siete mai mosso di qui? non siete mai stato altrove?», prima che lui mi rispondesse: «Altrove? E perché?» (e lo disse con un tono che poteva significare tanto "E dove altro potrei andare?" quanto "Vi pare possibile che potrei andare altrove?"), io avevo già avvertito quanto fosse insulsa la mia domanda e che cosa invece dovesse significare, per un uomo solo e sradicato, sbattuto a tale distanza dalla sua terra e fors'anche dai ricordi di una giovinezza troppo lontana perché nel suo animo vi restassero vivi gli affetti, quel breve recinto verde incorniciato di fiori, che era bastato da solo a radicarlo a un'altra terra e a fargliela amare; o per lo meno a sostituire ai suoi ricordi e ai suoi affetti, piuttosto che altri affetti, quel senso di devozione fraterna ai simboli della morte, che è antico e irrazionale quanto l'uomo e che tanto ci avvicina, rendendoci così mitemente rassegnati ad amarci l'un l'altro, da qualsiasi parte veniamo o qualsiasi lingua parliamo o qualsiasi cosa abbiano fatto gli altri per dividerci. Questo almeno stavo provando io stesso in quel momento con una forza e un trasporto a me sconosciuti.
Spiace forse dirlo, visto che è stato e vorrebbe continuare ad essere un fiore all'occhiello della nostra storia, e nessuno s'offenda, davvero, ma con questo precoce racconto di Mario Pomilio il tanto rinomato Neorealismo italiano appare già morto e sepolto sul nascere, tanto è superato da una grande prova narrativa che scavalca certe ottuse fissità di quella stagione, in fondo un po' ingenua. Che sia solo un caso allora che un racconto del genere non trovi una sua stabile collocazione in libreria?
Prima.
RispondiEliminaDA COME NE SCRIVI SEMBRA UN LIBRO INTERESSANTISSIMO
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