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sabato 14 maggio 2016

sarebbe cominciato ancora tutto senza bisogno di parole: "Nella notte cosmica" di Roberta Durante

Ripescaggi #41

Questo scritto è già uscito nel sito "La Balena Bianca" giorni fa.

Un particolare del dipinto "Ascesa all'Empireo" di Hieronymus Bosch, che per un momento potrebbe far pensare a certe condizioni atmosferiche di Mara Cerri, fa da porta d'entrata a Nella notte cosmica (Luca Sossella Editore, pp. 88, euro 10, con CD audio di circa 30'), quinto libro di poesia di Roberta Durante da quattro anni a questa parte. Arriva dopo Girini (Edizioni d'if, 2012), Club dei visionari (Di Felice, 2014), Balena (Prufrock spa, 2014) e Susina (Edizioni d'if, 2015). Giustamente scivolante sulle paranoie che talvolta emergono circa la frequenza delle pubblicazioni di poesia - come se poi si potessero introdurre anche in quest'ambito le "quote latte" e come se la stitichezza di scrittura e una bassa frequenza di pubblicazione fossero necessariamente garanzie di qualità e ponderatezza - l'autrice sguscia fuori da questo nucleo di testi, accolti nella collana Vivavox, risospinta da una scommessa espressiva rara, in un gesto fonico e di immaginazione difficilmente riscontrabile in autori nati nella stessa decade (attenzione: parlo di decade e non di generazione, perché il termine mi sembra più asettico e meno compromesso nel "poetichese critico-editoriale" che piace tanto agli utilizzatori della formuletta “il più [aggettivo X Y o Z] della sua generazione”). Tra l’altro, c’è da dire che i diversi (brevi) libri citati si possono iniziare a leggere ormai in sequenza. La scrittura è traboccante di fantasia e moto perpetuo, è festa della parola in una singolare, straniante (a tratti persino paradossale) nostalgia di un mondo senza parole. Perché forse c'è da dire anche questo, in apertura: chi scrive questi versi usa la parola e lo sa fare meglio di molti altri, ma allo stesso tempo potrebbe prima o poi farne a meno, improvvisamente, senza alcun rimpianto e con pari consapevolezza di rinuncia e di resa davanti a una “una parola inesistente e fatta soltanto di luce”.

"sarebbe cominciato ancora tutto senza bisogno di parole" è il verso conclusivo di questo racconto (sogno?) di un viaggio spaziale tra terra, cielo e luna ovvero tra il pianeta, lo spazio di movimento dello sguardo e del corpo e il nostro satellite consigliere (e "Terra", "Cielo" e "Luna" sono i titoli delle sezioni del libro). E che fa la luna? “la luna con quella compassione d’astromadre / fece come per darmi la sua spalla / (non so come spiegare io la protezione / ma si capiva tutta l’intenzione) / e mi guardò con occhi dolci inesistenti: / quelli di chi mi avrebbe portata veramente sulla luna / senza alcuna fatica ma non per amore”. Questo triangolo di terra-cielo-luna, a suo modo comunque "amoroso", in cui insiste il congegno di lode del movimento e l'astronave-letto della scrittura conferisce un senso di circolarità al tutto, ratificato proprio dall'ultimo verso già ricordato. L'inizio è assenza di gravità. E forse sarà capitato anche a voi di sognare di volare, dentro una stanza o all'aperto, di provare stupore per la facilità con cui si svolgeva l'azione. E così si apre il libro e la sezione "Terra": “era la prima volta / che mi sentivo proprio nello spazio / aprivo e richiudevo le mie braccia / le gambe lisce come tazze / si aprivano nell’aria senza traccia di cammino: / facevo la Vitruvio distante anni luce / dalla mia gravità”.  Movimento archetipico il volo, certo, così come archetipici sono trama e ordito dell'opera, cuciti sul velo di Maya di un viaggio spaziale che si svolge in una "notte cosmica". Tuttavia, a dispetto del concetto di "ordine" cui rimanda qualsiasi "cosmo" o "cosmetica", è questo un viaggio in una notte “cosmica” di disordine, che spariglia continuamente lingua e pensiero, corpo e percezione, visione e movimento (“(la notte che era stata la mia vita)”, si legge in un verso). Ne nasce un’inedita sensazione di insufficienza e incompletezza del pensiero, di resa, come già ricordato poco sopra (oltre all'insufficienza e sostituibilità della lingua, di cui s’è detto). Ravviso in quest'esplorazione dell'incompletezza uno dei motivi di maggiore interesse di questa favola in versi: “non era mica male quest’apocalisse qua veloce / che dai miei nuovi cieli mostrava la sua ricreazione / ed io pronta com’ero già in partenza per la mia metanoia / mettevo insieme tutti i risultati: / divini di tempi diversi e quelli lunari e terrestri / raccogliendo in un unico cesto / tutto l’illogico possibile tutto lo scibile della demenza / (assenza di vita e di morte)”

H. Bosch, Quattro visioni dell'aldilà, 1500-1503 ca. (Palazzo Grimani, Venezia)
In quest'ascesa verso l'insufficienza e quindi in questa perlustrazione del limite del dire e del pensare, che a tutti gli effetti rappresenta una metànoia, nel senso del pensiero ma anche nel senso della retorica, cioè di continue affermazioni che si susseguono correggendo, rafforzando e indebolendo le precedenti, si flette e riflette la vocalità di chi ha scritto questo libro. E in questa visione che sembrerebbe tutta in perdita, così come avviene nei precedenti libri ricordati in apertura (e soprattutto negli ultimi due), anche il recente Nella notte cosmica punta il dito su un assetto in realtà meno rinunciatario della scrittura poetica, un'estensione di pensiero e pronuncia che prova a spingersi oltre il noto, dentro appunto una disarmata incompletezza di pensiero e sensibilità. Per fortuna siamo davvero lontani dalle tristi veline di poesia che talvolta si palesano a noi come un'emanazione seriale e reiterata di un novello MinCulPop poetico nazionale diretto da triumvirati o quadrumvirati a geometria variabile ma i cui vertici son meno variabili (talvolta, soprattutto fra i più giovani, è ravvisabile un'inspiegabile stanchezza del verso e dell'inventiva, una totale mancanza di coraggio che si riesce persino a far passare nei casi più spinti di malafede per "asciuttezza/freschezza" e allora soltanto adesso, per i fan del dato anagrafico, ricordo che l'autrice è nata nel 1989). Si incontra infatti tra queste pagine di poesie brevi, collegate tra loro in tante scene o pezzi, un gioco aperto con le aporie del pensiero e dell'immaginazione, con la lotta ingaggiata all'ubriacatura di pensarsi vivi nello spazio, fluttuanti, capaci di vedere e esser visti. Se questo libro è il racconto di un sogno (ma non lo è, anche se forse lo è… questa è un po’ la metànoia) allora il sogno è stato tutto ricordato e trascritto. Qui e lì affiora una paradossale nostalgia di un mondo senza parole, che tuttavia nella parola e nella sua irrinunciabilità trova il modo di inverarsi e ripetersi, e quindi il modo di far patire un inconsueto valore pedagogico di questa nostalgia. Sussiste il pensiero della problematica identitaria (“[…] in una lotta più lunga della vita / contro l’identità già fatta e già finita” oppure “sul finire continuo dell’infinito mio / al limite della mia luce / riflesso simile di mille me nell’atmosfera”) e altresì le continue risurrezioni da shapeshifter di celluloide, assieme alle insurrezioni ologrammatiche di un panorama cosmico sorvolato con un incosciente ritmo ragtime (“poco più di kebab / colava la mia essenza sulla terra”).

Il libro, unito al CD audio contenente la registrazione della lettura integrale del testo che fa l’autrice, può rappresentare un richiamo per chi desidera provare a disancorarsi dalla gravità e riprendersi il deliquio del buio, della paura totale (“paura” è parola fondamentale di tutto il testo), della sacralità di uno spazio cosmico (si avverte, secondo me, un tentativo di rielaborazione dell’ultimo Zanzotto, quello ancora tutto da percorrere nei Conglomerati). Appare quindi come danza circolare, com'è tutto circolare questo componimento, nel quale la luna ancora una volta fa la parte dello scrigno di pulsioni (“ma io sapevo che capiva / capiva da satellite;”) e, in fondo (ma quale fondo?), continua a giocare un ruolo così innestato nella tradizione, così saldo in questa, tanto da arrivare a tradirla. Significativo in tal senso il pezzo a pag. 63, da citare per intero: “mi feci forza sola che senza gravità / di fatto era più facile / e fu nuotando a rana sempre verso la luna / che cominciai a sentirmi uscire un gracidio / leggero come un filo da cucire; / andavo velocissima / ma mi ero fatta così piccola / che forse sulla strada sarei finita male / ma qui la cosa più vicina eran le stelle / e quando la distanza non ferisce / sparisce ogni pericolo”. Il verso nasce dalla paura di uno spazio sfidato e sfondato con le immagini, nel ritmo creato con reticoli fonici disseminati in un testo privo di virgole (ma non di due punti o punti e virgola), una fune tesa di paronomasie e onomatopee, in compagnia di vivi, morti e... mirto (sic!).

domenica 10 aprile 2016

"Nella notte cosmica" di Roberta Durante. Una nota di lettura a cura di Luca Rizzatello

Pubblico di seguito una nota di lettura scritta da Luca Rizzatello sull'ultimo libro di poesia di Roberta Durante intitolato Nella notte cosmica uscito qualche settimana fa per Luca Sossella Editore.


Cyrano de Bergerac, The Other World: History of the States and Empires of the Moon, 1657

Io sono nero di amore
né fanciullo né usignolo
tutto intero come un fiore,
desidero senza desiderio.

Mi sono alzato tra le viole,
mentre albeggiava,

cantando un canto dimenticato
nella notte uguale.
Mi sono detto: «Narciso!»,
e uno spirito col mio viso
oscurava l’erba
al chiarore dei suoi ricci.
1

La prima poesia di Nella notte cosmica, di Roberta Durante (Luca Sossella Editore, 2016) esordisce in medias res, ma questo lo si capirà soltanto alla fine; che poi è l’inizio; forse. Ciascuna poesia del libro, tripartito in TerraLuna e Cielo, va intesa come una tappa di un viaggio che, va ribadito, non prevede una vera partenza, e non prevede un vero arrivo. È proprio il rapporto tra il vero e il finto (più che tra il vero e il falso) uno degli oggetti di analisi di uno sviluppo narrativo che si risolve, a un grado zero, in un dialogo (in effetti sui generisma qui nessuno aveva detto niente a nessuno/ il nostro era stato soltanto un gioco di sguardi, p. 602) tra chi ci racconta la storia – che chiamerò S – e la luna.
Un fremito percorse l’assemblea: Barbicane, cavatosi il cappello dal capo con rapido gesto, continuò il suo discorso con voce pacata:
«Non v’ha alcuno tra voi, onorevoli colleghi, che non abbia veduto la luna, e tanto meno che non ne abbia udito parlare. Non vi sorprenda se qui vengo a intrattenervi dell’astro della notte; forse ci è riserbato di essere il Colombo di questo mondo sconosciuto. Comprendetemi, secondatemi con tutte le vostre forze, io vi guiderò alla sua conquista, ed il suo nome si unirà a quelli dei trentasei stati che costituiscono il gran paese dell’Unione.
— Viva la luna! esclamò il Gun-Club ad una voce.
— Si è molto studiato la luna, riprese Barbicane! la sua massa, la sua densità, il suo peso, il suo volume, la sua costituzione, i suoi movimenti, la sua distanza, la sua parte nel mondo solare sono perfettamente determinati; si sono fatte carte selenografiche con una perfezione che pareggia, se pure non la supera, quella delle carte terrestri; la fotografia ha dato prove d’incomparabile bellezza del nostro satellite. In una parola, si conosce della luna tutto ciò che le scienze esatte, l’astronomia, la geologia, l’ottica possono apprenderci; ma fino ad oggi non è mai stata stabilita alcuna diretta comunicazione con essa.»3
Quindi: il viaggio di S origina da un desiderio, esaudito dalla luna; e le metamorfosi che seguiranno, necessitate per lo più da contingenze ambientali, saranno esse stesse delle estensioni del desiderio di metamorfosi, ponendo la questione di cosa sia in funziona di cosa:

soltanto lei sapeva come mi sentivo:
già carica di nulla
con tutto l’entusiasmo
di chi sospende in gioco l’incredulità
un teatro già vivo e già morto
una storia senza storia
un carnevale con tutte le mie facce4
(p. 12)

In contrasto con la finta umiltà del pellegrino Dante (che non è né Enëa  Paulo eccetera), S smania all’idea del viaggio (convinta ormai com’ero/ che senza gravità sarebbe stata tutta un’altra cosa, p. 23), nonostante gli avvertimenti della luna (che tu non creda – continuò/ che farti un giro senza gravità ti renda più leggera”, p. 15), che a questo punto visualizzo come un mash-up tra Virgilio e il Grillo Parlante5. Ancora: se il pellegrino Dante si deve mettere in viaggio per non farsi sbranare dalla lupa (che in altri termini significa che non ha scelta), S si trova a dover gestire un numero imponderabile di possibilità (mi volle più indecisa ancora e ancora senza scelta, p. 22).
Passarono le ore. Dorothy si sentiva tranquilla ma anche molto sola; il vento continuava ad ululare così forte che quasi l'assordava. In principio aveva temuto che la casa ripiombasse a terra, seppellendola tra le macerie, poi, visto che il tempo trascorreva senza che accadesse niente, decise che non era il caso di preoccuparsi ma di aspettare con calma gli eventi. Strisciò sul pavimento oscillante fino al suo letto, ci si arrampicò e si sdraiò, subito imitata da Toto6.
Nella sezione Cielo, che ha la funzione di raccordo – narrativo e teorico –, vengono descritte le procedure con cui avviene il distacco, non senza ripensamenti (mi fecero passare oltre la voglia/ la forma che pensavo fosse la vera materia/ che non fosse il caso pensai/ di ritornare piedi a terra a vivermi la vita in gravità/ continuando a temere non me/ ma le cose che erano tutte sparite?, p. 49). Sulle cangianti modalità del viaggio non dirò nulla, per non rovinare la sorpresa al lettore; dirò che l’individuazione di S si esprime in forma radicalmente creativa (in una lotta più lunga della vita/ contro l’identità già fatta e finita, p. 78), e prende le mosse dall’eventualità del non ritorno (attenta a non aprirmi a non disperdermi/ a perdere di nuovo tutta me in un attimo, p. 55)7.
Così, nella sezione Luna, scompare la luna, e compare il mirto (che, per mantenere in piedi l’analogia, potrebbe ricoprire il ruolo di Beatrice/Fata dai capelli turchini8). Quello che è accade, avendolo già visto, non so né posso ridirlo.
Ma allora, quando nomino l’oblio, riconoscendo contemporaneamente ciò che nomino, lo riconoscerei, se non lo ricordassi? Non parlo del semplice suono di questa parola, ma della cosa che indica, dimenticata la quale, non varrei certamente a riconoscere cosa vale quel suono. Dunque, quando ricordo la memoria, proprio la memoria è in sé presente a sé stessa; allorché invece ricordo l’oblio, sono presenti e la memoria e l’oblio: la memoria, con cui ricordo; l’oblio, che ricordo. […] Così abbiamo presente, per non dimenticare, ciò che con la sua presenza ci fa dimenticare. Dovremo quindi intendere che non si trova nella memoria proprio l’oblio in sé, quando lo ricordiamo, bensì la sua immagine, poiché la presenza diretta dell’oblio ci farebbe non già ricordare, ma obliare? Chi potrà mai indagare questo fatto? chi comprendere come stanno le cose? […] Supererò anche la memoria, ma per trovarti dove, o vero bene, o sicura dolcezza, per trovarti dove? Trovarti fuori della mia memoria, significa averti scordato. Ma neppure potrei trovarti, se non avessi ricordo di te9.

Note

1 Pier Paolo Pasolini, Danza di Narciso, in La meglio gioventù, Sansoni, 1954
2 analogamente [contiene spoiler]: il mirto mi guardava senza gli occhi, p. 83
3 Jules Verne, Dalla Terra alla Luna, 1865, capitolo II
4 nella poesia successiva, coerentemente, si legge: pensavo per esempio/ al bruco quello perfetto che sarei stata;
[…] e poi cambiare rotta con il volo/ farfalla se decido quando voglio; nella quarta dimensione che è il libro
Club dei visionari (Di Felice Edizioni, 2014), di Roberta Durante, alla poesia 27 si legge: sarei stata un bruco
perfetto […] mi attaccavo alle pareti/ per risalire pian piano a ritroso
5 una metamorfosi che disattende le speranze di leggerezza, a vantaggio della gravità, mi fa pensare anche a 
Apuleio, Metamorfosi, XXIV: dopo avermi ripetuto più volte tali assicurazioni, entrò tutta emozionata in quella stanzetta e prese dallo scrigno il vasetto. Come io l'ebbi fra le mani me lo strinsi al petto e cominciai a baciarlo pregando che mi facesse fare voli felici, poi, liberatomi in fretta di tutti i vestiti, immersi avidamente le dita nel barattolo e preso un bel po' di unguento me lo spalmai su tutto il corpo. Poi, agitando le braccia su e giù mi misi a fare l'uccello, ma niente: penne non ne spuntavano e nemmeno piume; piuttosto i peli cominciarono a diventare ispidi come setole, la pelle, delicata com'era, a farsi dura come il cuoio, alle estremità degli arti le dita si confusero, riunendosi in una sola unghia e in fondo alla colonna vertebrale spuntò una gran coda.
6 Frank L. Baum, Il mago di Oz, 1900, capitolo I
7 sul tema dell’indicibilità dell’esperienza, si confronti sul finire continuo dell’infinito mio/ al limite della mia luce (p. 40) con nel ciel che più de la sua luce prende/ fu’ io, e vidi cose che ridire/ né sa né può chi di là sù discende, Paradiso, I, vv. 4-6
8 che come tale fa sia tremare che piangere, p. 74
9 Agostino d’Ippona, Le confessioni, X, 16

venerdì 20 marzo 2015

"La voce come medium. Storia culturale del ventriloquo" di Steven Connor

Ripescaggi #38

(Non ricordo più dove uscì questo testo del 2007. Credo - ma non ne sono certo - sul sito della rivista "daemon").

Il ventriloquo – è una cosa che abbiamo appreso da bambini – produce una voce dissociata, la cui fonte rimane invisibile all’ascoltatore. E questo vale anche per i mezzi di comunicazione che abbiamo chiamato “di massa” in passato e che ci ostiniamo a definire tali anche nell’epoca attuale, quando questa qualifica comincia a star loro stretta. E vale davvero per tutti i mezzi di comunicazione che segnano la modernità: tv, radio, cinema, telefono e web. Da questa semplice constatazione parte il ragionamento portante di questo articolatissimo studio di Steven Connor (La voce come medium. Storia culturale del ventriloquo, Luca Sossella Editore, 2007, pp. 488, € 20, libro che pare non più disponibile per l'acquisto), docente di Modern Literature and Theory al Birkbeck College di Londra e autore di fondamentali studi su Dickens, Joyce e Beckett. Un saggio – si è detto – articolatissimo e amplissimo in virtù del fatto che Connor fa partire la propria storia della voce interna e dissociata dalle origini greche e romane (oracolari), passando per i posseduti, i mistici e le streghe fino ad approdare quindi ai nuovi mezzi di comunicazione.

La possibilità, la capacità di parlare con una voce dissociata ha attraversato tutta la storia dell’umanità e trova oggi nuovi lidi. In questa considerazione sta la vera attualità di questo libro e l’importanza di poter disporre della sua traduzione in italiano. La voce che abita l’animo umano è la protagonista indiscussa di queste pagine che diventano insospettabilmente utili a molti (studiosi di letteratura, di nuovi media, poeti, registi, attori, giornalisti ecc.) per capire i meccanismi che spiegano il funzionamento della voce interna, per provare a dire un perché al fascino che continua ad esercitare.

Il ventriloquo non è quindi (non lo è mai stato, ma non è scontato che questo si sappia) quel fenomeno da circo, magari con un pupazzo in mano, che abbiamo conosciuto da bambini. In effetti, la parola stessa, con quell’esplicito rimando al ventre, si propone alla nostra riflessione in tutto il suo viscerale insediarsi nella storia dell’uomo e della sua corporalità.

domenica 20 luglio 2014

"Dismissione" di Fabio Orecchini e Pane

Il libro e il cd audio che Fabio Orecchini e Pane pubblicano per Luca Sossella Editore (pp. 72, euro 10, postfazione di Gabriele Frasca e intervento di Stefano Solventi), Dismissione, si inserisce in quel solco di riflessione sul biopotere che trova in Michel Foucault il più noto teorizzatore. Ho avuto modo di assistere di persona alla lettura di Fabio Orecchini e alle proiezioni che sono nate sulla scia di una riflessione lunga sul dramma dell'amianto ricavandone una duratura impressione ed è probabilmente per questo motivo che ora consiglio questo cofanetto. Un libro di poesie con lo stesso titolo era già uscito per Polimata nel 2010. Tuttavia, questo libro appena pubblicato da Sossella non è quel libro di Polimata. E non è molte altre cose. Non è affatto scimmiottamento di tematiche trite sul biopotere, giusto per restare alle righe d'esordio. Non è il cofanetto libro+cd che si prova a raffazzonare per vendere "l'invendibile poesia" con abbinamenti quantomeno discutibili se non sconclusionati e non è nemmeno un cofanetto caro (converrete che 10 euro per libro e cd è un prezzo che sta in piedi). Questo è un progetto vero è proprio, è un libro che dimostra costruzione, quasi la poesia fosse fatta di nuovi mattoni e il tetto di nuove tegole. La musica non è supporto della poesia e la poesia non è supporto della musica. Si può parlare di compenetrazione? Probabilmente sì. Si può parlare di manifestazioni diverse di una sensibilità comune. Possono vivere entrambe in autonomia - e questo è importante, fondamentale almeno per me - e possono vivere assieme contribuendo a formare un vissuto di lettori-ascoltatori che amplifica il "tema" trattato (ricorderete anche un romanzo di Ermanno Rea con lo stesso titolo e, su temi affini, il conseguente film La stella che non c'è con Sergio Castellitto) senza incanalarlo nei percorsi sterili dell'essere impegnati a tutti i costi, dell'essere impegnati come "posa". Qui è la parola a impegnare, non perché la parola e la musica siano ingenuamente "impegnate".

Orecchini è poeta nel coraggio di adoperare la parola. Adoperare, appunto, usare e non dismettere. Quello che è dismesso qui è tutto un corpo sociale e un meccanismo grippato tra le generazioni: l'amianto che ci ha intossicato lentamente e altrettanto lentamente anestetizzato. Sono testi attentissimi al rimando fonico anche nell'inserto tecnico/medico, all'iterazione, all'eco interna e ai ritagli di senso che s'incollano in un collage. Sono testi polverosi. Questi testi si susseguono sulla pagina, un lenzuolo di morte bianco, dove tocchiamo coi polpastrelli anche la forza di scompaginare, pure tipograficamente (questo è un aspetto molto interessante di quello che è messo in opera da Orecchini). E chi vorrà potrà trovare nel singhiozzo sillabico di questo poeta nato a Roma trentatré anni fa la lezione silenziosa di un grande dimenticato come Giuliano Mesa. E se approfondiamo guardando anche al progetto visivo "Modelli di bocche" (si veda il sito del progetto indicato alla fine di questo pezzo) - bocche deturpate dal veleno e dalla malattia, bocche che non hanno urlato il dolore e sono finite affossate, lontane da qualsiasi tribunale - allora scopriamo come siano molteplici ed efficaci le forme di azione di questo autore, come tutto sia manifestazione di un tempo, quello nostro, dove sembra stia succedendo di tutto e dove in realtà, per la prima volta nella storia, magari non sta accadendo proprio un bel niente o comunque nulla di rilevante, solo una lenta asfissiante ottundente morte resa più atroce dalla mancanza d'ossigeno.

Poesia sperimentale? Poesia di ricerca direi piuttosto, come è sempre stata tutta la poesia, compresa quella del Tasso o del Leopardi. Per dire che questa non è poesia che cerca orgogliosamente distacco dal "main stream" della poesia attuale (eh, già, si sentono persino queste formule obbrobriose riferite alla poesia fuoriuscire dalle bocche dei più operosi e glamour addetti ai lavori, ormai, ma non ci rassegniamo al fatto che la poesia stia diventando un gran cancan glamour e anche per questo segnalo volentieri Dismissione, nella sua totalità di progetto). Penso sia poesia che semplicemente cerca di non dismettere del tutto la volontà, il pensiero e persino l'emozione come chiave di avvicinamento alla storia. Ed è un libro che si affaccia in modo assai originale, quasi senza volerlo, quasi in punta dei piedi, sul lastricato scivoloso della memoria. Libro generazionale, se mi passate il termine, perché questi e quelli che verranno non potranno non tornare a essere tempi di scontri generazionali (e io mi stupisco sempre di come sia sempre tutto anestetizzato, tutto accomodato e apparentemente risolto il confronto tra generazioni). Se si deve passare per un ripensamento totale e quindi anche etico in primis, non potrà mancare uno scontro in qualche misura generazionale, che non deve necessariamente assumere i toni della violenza o dell'incomunicabilità, ma che dica una volta per tutte cos'era e cosa conteneva quell'amore che ci lega alle generazioni che ci hanno preceduto, amore a tratti avvelenato come l'amianto forse e che tuttavia non possiamo bonificare. Il libro di Fabio Orecchini mi ha portato a ragionare su questo. Se un libro di poesia riesce a muovermi così tanto, allora lo consiglio davvero. 

Il punto più importante della postfazione di Gabriele Frasca, quello centrale a mio avviso, sta verso la fine: "Orecchini [...] fa una scelta di estrema consapevolezza: le cose della sua generazione vivono del lascito tossico della presunta eternità della merce della generazione che l’ha preceduta. Generazione assai ottimista, quell’altra, tanto da ritenersi persino nelle cose della poesia l’ultima, l’ultimissima, quella del compimento. E invece...
Orecchini sceglie la dismissione, e centra forse la parola chiave della sua generazione. Il termine, lo sappiamo, che aveva una sua remota significazione nautica, a un certo punto è andato finanche oltre l’accezione economica affermatasi intorno alla fine degli anni Sessanta (che era già di suo une bella forzatura, visto che quel dis- non disdice un bel niente, non attestato com’è il suo sostantivo positivo se non in virtù di un ulteriore prefisso), sebbene i dizionari fatichino a registrare questo nuovo senso. Lo fa la poesia al posto loro, come sempre. L’io lirico della dismissione prende la parola dallo smantellamento della società industriale, che ha lasciato intorno a sé residui ineliminabili. Bella contraddizione: che è quella che anima il verso, che si riaggrega in forme riconoscibili puntualmente smentite dalla sintassi."


Qui il sito di Dismissione, al quale rimando anche per estratti dal libro e per altri contributi importanti.


giovedì 1 settembre 2011

L'infinito mélo, pseudoromanzo di Maria Grazia Calandrone

Approda alla narrativa colei che è la voce più interessante della poesia italiana degli ultimi anni. Maria Grazia Calandrone ha compiuto il passo con un certo coraggio, anche dal punto di vista editoriale. Il libro (pag. 80, euro 12, con allegato CD audio molto bello) inaugura infatti la collana Vivavox di Luca Sossella, nuova propaggine di un editore che sulla base di metafore dei nostri sensi sta costruendo l'architettura del proprio catalogo. Molto del buono che sta uscendo negli ultimi anni sta passando per questa sigla editoriale e sarebbe interessante approfondire quest'aspetto.
Scrivevo "voce più interessante". Importante è notare cosa scrive nell'introduzione riguardo il rapporto con la voce la stessa Calandrone:
"In me e nei poeti della mia generazione la voce è stata una scoperta tarda e di occasione. Nel cominciare a leggere in pubblico, ho istintivamente scelto di scomparire come essere umano sentimentale. Altrimenti mi sarei messa a piangere. Di amore, non di pena. E di riconoscenza per chi mi stava a sentire. Per voi che in quel momento condividevate l’assoluto silenzio del mio io."
Un consiglio: leggete il libretto dopo aver ascoltato la sua voce dal CD. Vi sembrerà che la stessa storia sulla pagina prenda fiato da ciò che avete ascoltato prima. E con quello si arricchisca.

Primo pensiero: quando si legge un'opera di Maria Grazia Calandrone, sia essa poesia o prosa, è davvero lecito porsi una domanda: che cosa può una lingua? E che cosa può l'italiano? Credo davvero che nelle sue pagine troviamo distesa la profonda vitalità della nostra lingua nella sua forma più smagliante.

Secondo pensiero: in questa storia d'amore tra la protagonista e Ludo, figura maieutica, ermeneutica, enigmatica e... ludica, si ha la sensazione di una realtà che trafigge il soggetto senziente, di una realtà "data" nel sentire, anche quando non pienamente appresa (smarrimento e incomprensione avvolgono la protagonista), la stessa sensazione che in poesia può venire dalla lettura di Mario Benedetti. La produzione di Maria Grazia Calandrone pare poggiare su quella "razón vital" che ci hanno così ben illustrato un filosofo straordinario come José Ortega y Gasset e la sua altrettanto straordinaria allieva María Zambrano e nella sua scrittura troviamo un nuovo legame (alleanza?) tra io e le cose, l'anticipo della realtà e della circostanza sull'idea, il senso di una materia linguistica che è dato empirico con il resto. Non sarà un caso che in questo libro possa riemergere, delicatamente ma con vigore, quella eccezionale e forse irripetibile riflessione sul sogno, segnatamente spagnola (un fiume carsico che passa per Calderón, Cervantes, Unamuno e la stessa Zambrano), che viene restituita in una rilettura aggiornata, davvero all'altezza del nostro tempo. Che cosa vuol dire vivere, sognare, scrivere e morire (ancora "vita e scrittura", quel binomio che la Calandrone avvicina con un'intonazione inedita, così come aveva fatto, molto prima di lei, Amelia Rosselli) all'altezza del nostro tempo? Il percorso di Maria Grazia Calandrone ci interessa perché pare che conduca, libro dopo libro, a un tentativo credibile di risposta a questa domanda.

Terzi pensieri: il "mélo" del titolo è, a mio avviso, un'allusione neanche troppo celata anche alla nostra fascinazione tecnologica (nulla mi vieta di pensare a... Apple), ad una realtà che purtroppo ci sta inesorabilmente trasformando in bi-dimensional men, è il rapporto con le altre arti che Maria Grazia Calandrone conosce e perlustra attentamente, l'ossessione pittorica della voce narrante, è finanche - io credo - una rivisitazione del "melòs" greco e forse del melodramma, un melodramma circolare, un loop. Gli esiti di questo breve libro, costruito con capitoli-frammento, sono tutt'altro che tragici e tendono invece a situazioni che pendolano tra l'umoristico e l'onirico, tra il comico e l'orrore da commedia. Ecco allora che il rapporto tra poesia e prosa (lo pseudoromanzo) si salda.

Conclusione, quarto pensiero: un libro questo che, come il braccio di una gru, ci preleva senza mezze misure dal territorio periferico delle discussioni a vuoto e senza senso e ci lascia cadere nel mezzo dell'arena dove è in atto la trasformazione/adattamento della pratica della scrittura. Che ci piaccia o no, un'arena dove dobbiamo tornare a stare.