Ripescaggi #41
Questo scritto è già uscito nel sito "La Balena Bianca" giorni fa.
Un
particolare del dipinto "Ascesa all'Empireo" di Hieronymus Bosch, che
per un momento potrebbe far pensare a certe condizioni atmosferiche di Mara
Cerri, fa da porta d'entrata a Nella notte cosmica (Luca Sossella
Editore, pp. 88, euro 10, con CD audio di circa 30'), quinto libro di poesia di
Roberta Durante da quattro anni a questa parte. Arriva dopo Girini (Edizioni
d'if, 2012), Club dei visionari (Di Felice, 2014), Balena (Prufrock
spa, 2014) e Susina (Edizioni d'if, 2015). Giustamente scivolante sulle paranoie
che talvolta emergono circa la frequenza delle pubblicazioni di poesia - come
se poi si potessero introdurre anche in quest'ambito le "quote latte"
e come se la stitichezza di scrittura e una bassa frequenza di pubblicazione
fossero necessariamente garanzie di qualità e ponderatezza - l'autrice sguscia
fuori da questo nucleo di testi, accolti nella collana Vivavox, risospinta da
una scommessa espressiva rara, in un gesto fonico e di immaginazione
difficilmente riscontrabile in autori nati nella stessa decade (attenzione:
parlo di decade e non di generazione, perché il termine mi sembra più asettico
e meno compromesso nel "poetichese critico-editoriale" che piace
tanto agli utilizzatori della formuletta “il più [aggettivo X Y o Z] della sua
generazione”). Tra l’altro, c’è da dire che i diversi (brevi) libri citati si
possono iniziare a leggere ormai in sequenza. La scrittura è traboccante di
fantasia e moto perpetuo, è festa della parola in una singolare, straniante (a
tratti persino paradossale) nostalgia di un mondo senza parole. Perché forse
c'è da dire anche questo, in apertura: chi scrive questi versi usa la parola e
lo sa fare meglio di molti altri, ma allo stesso tempo potrebbe prima o poi
farne a meno, improvvisamente, senza alcun rimpianto e con pari consapevolezza
di rinuncia e di resa davanti a una “una parola inesistente e fatta soltanto di
luce”.
"sarebbe
cominciato ancora tutto senza bisogno di parole" è il verso conclusivo di
questo racconto (sogno?) di un viaggio spaziale tra terra, cielo e luna
ovvero tra il pianeta, lo spazio di movimento dello sguardo e del corpo e il
nostro satellite consigliere (e "Terra", "Cielo" e
"Luna" sono i titoli delle sezioni del libro). E che fa la luna? “la
luna con quella compassione d’astromadre / fece come per darmi la sua spalla /
(non so come spiegare io la protezione / ma si capiva tutta l’intenzione) / e
mi guardò con occhi dolci inesistenti: / quelli di chi mi avrebbe portata
veramente sulla luna / senza alcuna fatica ma non per amore”. Questo triangolo
di terra-cielo-luna, a suo modo comunque "amoroso", in cui insiste il
congegno di lode del movimento e l'astronave-letto della scrittura conferisce
un senso di circolarità al tutto, ratificato proprio dall'ultimo verso
già ricordato. L'inizio è assenza di gravità. E forse sarà capitato anche a voi
di sognare di volare, dentro una stanza o all'aperto, di provare stupore per la
facilità con cui si svolgeva l'azione. E così si apre il libro e la sezione
"Terra": “era la prima volta / che mi sentivo proprio nello spazio /
aprivo e richiudevo le mie braccia / le gambe lisce come tazze / si aprivano
nell’aria senza traccia di cammino: / facevo la Vitruvio distante anni luce /
dalla mia gravità”. Movimento archetipico il volo, certo, così come
archetipici sono trama e ordito dell'opera, cuciti sul velo di Maya di un
viaggio spaziale che si svolge in una "notte cosmica".
Tuttavia, a dispetto del concetto di "ordine" cui rimanda qualsiasi
"cosmo" o "cosmetica", è questo un viaggio in una notte
“cosmica” di disordine, che spariglia continuamente lingua e pensiero, corpo e
percezione, visione e movimento (“(la notte che era stata la mia vita)”, si
legge in un verso). Ne nasce un’inedita sensazione di insufficienza e incompletezza
del pensiero, di resa, come già ricordato poco sopra (oltre
all'insufficienza e sostituibilità della lingua, di cui s’è detto). Ravviso in
quest'esplorazione dell'incompletezza uno dei motivi di maggiore interesse di
questa favola in versi: “non era mica male quest’apocalisse qua veloce / che
dai miei nuovi cieli mostrava la sua ricreazione / ed io pronta com’ero già in
partenza per la mia metanoia / mettevo insieme tutti i risultati: / divini di
tempi diversi e quelli lunari e terrestri / raccogliendo in un unico cesto /
tutto l’illogico possibile tutto lo scibile della demenza / (assenza di vita e
di morte)”
H. Bosch, Quattro visioni dell'aldilà, 1500-1503 ca. (Palazzo Grimani, Venezia)
|
In
quest'ascesa verso l'insufficienza e quindi in questa perlustrazione del limite
del dire e del pensare, che a tutti gli effetti rappresenta una metànoia,
nel senso del pensiero ma anche nel senso della retorica, cioè di continue
affermazioni che si susseguono correggendo, rafforzando e indebolendo le
precedenti, si flette e riflette la vocalità di chi ha scritto questo libro. E
in questa visione che sembrerebbe tutta in perdita, così come avviene nei
precedenti libri ricordati in apertura (e soprattutto negli ultimi due), anche
il recente Nella notte cosmica punta il dito su un assetto in realtà
meno rinunciatario della scrittura poetica, un'estensione di pensiero e
pronuncia che prova a spingersi oltre il noto, dentro appunto una disarmata
incompletezza di pensiero e sensibilità. Per fortuna siamo davvero lontani
dalle tristi veline di poesia che talvolta si palesano a noi come un'emanazione
seriale e reiterata di un novello MinCulPop poetico nazionale diretto da
triumvirati o quadrumvirati a geometria variabile ma i cui vertici son meno
variabili (talvolta, soprattutto fra i più giovani, è ravvisabile un'inspiegabile
stanchezza del verso e dell'inventiva, una totale mancanza di coraggio che si
riesce persino a far passare nei casi più spinti di malafede per
"asciuttezza/freschezza" e allora soltanto adesso, per i fan del dato
anagrafico, ricordo che l'autrice è nata nel 1989). Si incontra infatti tra
queste pagine di poesie brevi, collegate tra loro in tante scene o pezzi,
un gioco aperto con le aporie del pensiero e dell'immaginazione, con la lotta
ingaggiata all'ubriacatura di pensarsi vivi nello spazio, fluttuanti, capaci di
vedere e esser visti. Se questo libro è il racconto di un sogno (ma non lo è,
anche se forse lo è… questa è un po’ la metànoia) allora il sogno è stato tutto
ricordato e trascritto. Qui e lì affiora una paradossale nostalgia di un mondo
senza parole, che tuttavia nella parola e nella sua irrinunciabilità trova il
modo di inverarsi e ripetersi, e quindi il modo di far patire un
inconsueto valore pedagogico di questa nostalgia. Sussiste il pensiero della
problematica identitaria (“[…] in una lotta più lunga della vita / contro
l’identità già fatta e già finita” oppure “sul finire continuo dell’infinito
mio / al limite della mia luce / riflesso simile di mille me nell’atmosfera”) e
altresì le continue risurrezioni da shapeshifter di celluloide, assieme
alle insurrezioni ologrammatiche di un panorama cosmico sorvolato con un
incosciente ritmo ragtime (“poco più di kebab / colava la mia essenza sulla
terra”).
Il libro, unito al CD audio contenente la registrazione della lettura integrale del testo che fa l’autrice, può rappresentare un richiamo per chi desidera provare a disancorarsi dalla gravità e riprendersi il deliquio del buio, della paura totale (“paura” è parola fondamentale di tutto il testo), della sacralità di uno spazio cosmico (si avverte, secondo me, un tentativo di rielaborazione dell’ultimo Zanzotto, quello ancora tutto da percorrere nei Conglomerati). Appare quindi come danza circolare, com'è tutto circolare questo componimento, nel quale la luna ancora una volta fa la parte dello scrigno di pulsioni (“ma io sapevo che capiva / capiva da satellite;”) e, in fondo (ma quale fondo?), continua a giocare un ruolo così innestato nella tradizione, così saldo in questa, tanto da arrivare a tradirla. Significativo in tal senso il pezzo a pag. 63, da citare per intero: “mi feci forza sola che senza gravità / di fatto era più facile / e fu nuotando a rana sempre verso la luna / che cominciai a sentirmi uscire un gracidio / leggero come un filo da cucire; / andavo velocissima / ma mi ero fatta così piccola / che forse sulla strada sarei finita male / ma qui la cosa più vicina eran le stelle / e quando la distanza non ferisce / sparisce ogni pericolo”. Il verso nasce dalla paura di uno spazio sfidato e sfondato con le immagini, nel ritmo creato con reticoli fonici disseminati in un testo privo di virgole (ma non di due punti o punti e virgola), una fune tesa di paronomasie e onomatopee, in compagnia di vivi, morti e... mirto (sic!).
Il libro, unito al CD audio contenente la registrazione della lettura integrale del testo che fa l’autrice, può rappresentare un richiamo per chi desidera provare a disancorarsi dalla gravità e riprendersi il deliquio del buio, della paura totale (“paura” è parola fondamentale di tutto il testo), della sacralità di uno spazio cosmico (si avverte, secondo me, un tentativo di rielaborazione dell’ultimo Zanzotto, quello ancora tutto da percorrere nei Conglomerati). Appare quindi come danza circolare, com'è tutto circolare questo componimento, nel quale la luna ancora una volta fa la parte dello scrigno di pulsioni (“ma io sapevo che capiva / capiva da satellite;”) e, in fondo (ma quale fondo?), continua a giocare un ruolo così innestato nella tradizione, così saldo in questa, tanto da arrivare a tradirla. Significativo in tal senso il pezzo a pag. 63, da citare per intero: “mi feci forza sola che senza gravità / di fatto era più facile / e fu nuotando a rana sempre verso la luna / che cominciai a sentirmi uscire un gracidio / leggero come un filo da cucire; / andavo velocissima / ma mi ero fatta così piccola / che forse sulla strada sarei finita male / ma qui la cosa più vicina eran le stelle / e quando la distanza non ferisce / sparisce ogni pericolo”. Il verso nasce dalla paura di uno spazio sfidato e sfondato con le immagini, nel ritmo creato con reticoli fonici disseminati in un testo privo di virgole (ma non di due punti o punti e virgola), una fune tesa di paronomasie e onomatopee, in compagnia di vivi, morti e... mirto (sic!).
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