mercoledì 31 agosto 2016

Il volume di "Riga" dedicato a Goffredo Parise (e un frammento inedito sull'Arizona)

Riviste #8


Da pochi giorni è in libreria il trentaseiesimo volume della rivista "Riga" dedicato a Goffredo Parise (Marcos y Marcos, pp. 544, euro 28, a cura di Marco Belpoliti e Andrea Cortellessa). La pubblicazione coincide con il trentennale della morte dello scrittore, avvenuta il 31 agosto 1986 all'ospedale di Treviso. I motivi per avvicinarci al fascicolo sono numerosi. Questo contiene infatti, oltre a una prima serie di scritti originali di autori contemporanei (Andrea Bajani, Giuseppe Montesano e Vitaliano Trevisan), una sezione di narrazioni inedite, una di "Luoghi scritti e reportage", ampi stralci di diari e carteggi (particolarmente significativo quello con Italo Calvino, per le questioni editoriali emergenti ma non solo) e raduna due sezioni di testi critici, già editi altrove ma anche inediti, progettati appositamente per questa pubblicazione. Le pagine sono intervallate da un apparato iconografico di foto e dalla "Galleria" di Giosetta Fioroni che chiude il volume. Nelle due sezioni di inediti parisiani spicca sicuramente la pubblicazione del romanzo inedito del 1977 intitolato La politica (trotto leggero). Dalla sezione dei "Luoghi scritti e reportage", per concessione gentile dei curatori, pubblico uno dei "Due frammenti inediti sull'America (1961)". Il primo è dedicato a New York mentre il secondo, che trovate di seguito, all'Arizona. Dopo il frammento trovate la breve nota di Dario Borso.



Arizona  
di Goffredo Parise

(testo tratto da "Riga 36. Goffredo Parise", Marcos y Marcos, 2016)


Sulla grande autostrada che attraversa il deserto dell’Arizona, a 400 miglia da Albuquerque nel Nuovo Messico e a 300 da Las Vegas in Nevada, improvvisamente, la rossa Chevrolet, ippogrifo del nuovo mondo, si ferma. Non c’è benzina, per la terza volta da che si è iniziato questo viaggio, e sempre per colpa mia, per mia pigrizia. La prima volta l’alato carro si fermò davanti a un distributore, la seconda a poche miglia da una città e un camionista ci regalò una tanica, la terza, questa, ci sor­prende nel mezzo di un deserto. Ai due lati dell’autostrada, giallo deserto di pietra, cactus, fallica protuberanza di un terreno senza speranze, e ai due lati all’orizzonte fino a congiungersi davanti ai nostri occhi, immenso anfiteatro, i profili delle montagne da cui sale la notte. Non c’è nulla da fare. Non passa nessuno. Ci mettiamo sulla strada, aspettiamo, mezz’ora, un’ora; si avvicina un enorme camion da trasporti, transatlantico viag­giante su terra, con comignolo. Si arresta. Il mio compagno di viaggio, che conosce l’inglese molto meglio di me, sale con loro per fare qualcosa, per muoversi dall'immobilità, per accennare a un moto verso luogo che in questo caso significa trecento miglia prima di giungere ad una pompa di benzina. Attivo, e storico, di temperamento, egli decide appunto di costruirsi l’avvenire con le proprie mani. Un poco meno storico, io decido di rimanere ad attendere. Chi? Che cosa? Nulla, so bene che attendere nel cuore dell’Arizona non può avere che un significato, attendere che corvi aquile e sciacalli degustino me e l’ippogrifo Chevrolet, ma così ho deciso; di seguire la mia apparente antisto­ria, cioè la pigrizia, il non desiderio d’azione in un mondo (anche nell’Arizona) volto all’azione nell’azione.
  Vedo l’enorme transatlantico nerastro fumare via come un gio­cattolo nella retta matematica della strada, e scomparire, lui, i viventi e la storia medesima.
   E resto così solo, nel cuore di que­sto deserto. Fumo qualche sigaretta nell’auto, poi scendo a fare quattro passi. Intanto il sole, sceso oltre le lontane annebbiate montagne, ha portato con sé gli ultimi bagliori di luce. E la notte scende rapidamente sull’infinita distesa di uno dei più bei paesaggi del mondo, il deserto. Con la notte salgono le stelle e la luna. Continuo a camminare tra i sassi, ascoltando i mille fruscii di animali che conosco, il fruscio delle biscie, di certi topolini che appena scorgo correre e nascondersi in certe buche dopo avermi osservato a lungo con un minuscolo bagliore d’occhi rossastri da dietro le spine di un cactus: altri versi, suoni infiniti di una natura che non conosco. Seguito il cammino. Guardo dietro di me in direzione della strada dove ho lasciato l’auto con i fari accesi. Sono lontani, molto di più di quanto non pensassi. E allora, quando il senso delle distanze reali, ogget­tive e non quelle interiori, che pur sono immense prende i suoi aspetti prospettici, allora mi vien voglia di continuare a camminare nel deserto, in direzione delle montagne. Cammino per qualche ora senza accorger­mene. Solo, dopo questo tempo, quando volgo lo sguardo in direzione dell’autostrada, nord-est a giudicare dalle stelle, non vedo più i fari della Chevrolet. E inizia così, una edificante sensazione di solitudine assoluta, cioè di intensa riflessione, di dolore delle cose del mondo.
   La luna illumina davanti a me la distesa di sassi e di cactus che proiet­tano una lunga ombra trasversale. Un poco più in là strane ombre, per­forate dai raggi lunari, enormi crani, teschi che formano una collinetta. Mi avvicino a passo svelto. A mano a mano che le distanze si accorciano riconosco in quelle ombre carcasse di automobili, di autocarri, di pullmans. Abbandonate da anni e trasportate fin là chissà come. È una sorta di città defunta, a seconda delle dimensioni delle carrozzerie, può apparire all’occhio fantastico, non storico, non realistico, una defunta città futura. Mi aggiro tra le carrozzerie, in questo dedalo vastissimo, in questo gigan­tesco incidente automobilistico, tra le lamiere contorte, i vetri rotti, i sedili sfondati dell’inutile. Così osservando mi accorgo di non essere solo. Un gatto selvatico balza fuori da una finestra di pullman curvo, col pelo ritto, urlando. Subito seguito da una folla di gatti in fuga che corrono a nascon­dersi nelle forre, negli anfratti, nei buchi di quella montagna di lamiere contorte. Per qualche istante ancora silenzio, poi un miagolio diffuso, che sale dall’oscurità dei cofani, delle carrozzerie, dalla iuta delle imbottiture. Poi altre fughe, poi silenzio. Mi allontano.
   Sono stanco e mi siedo. Non posso sdraiarmi perché il terreno è cosparso di sassi aguzzi, appuntiti e nemmeno un filo d’erba: secchi e infidi cespugli bruciati nascondono nell’erba la puntura mortale, dell’insetto mortale, che è lì; per me, creato apposta per me, per finire, per rendere una buona volta concluse nello stabile equilibrio le antinomie, i dubbi, i tentennamenti, i punti oscuri dell’essere mio. Mi alzo, cammino ancora in direzione della Chevrolet, che non vedo.

 
Nota 
di Dario Borso


Durante il suo primo viaggio negli Stati Uniti, svoltosi tra il 20 marzo e il 25 aprile 1961, Goffredo Parise scrisse un mazzetto di lettere all’amico Vittorio Bonicelli, allora in forze come sceneggiatore presso la casa di produzione cinematografica Dino De Laurentiis. Scopo non secondario delle lettere, che sarebbero uscite postume trent’anni dopo per la Mondadori nella raccolta Odore d’America, era di suggerire spunti per un film americano di cui non si fece nulla. Parise coltivò invece l’idea di farne un libro di viaggio a sé, come testimoniano due frammenti conservati all’Archivio Parise di Ponte di Piave, che rielaborano due lettere, rispettivamente da NY del 20 marzo e da Las Vegas del 12 aprile: il primo segue abbastanza fedelmente l’originale, inserendo però all’inizio un episodio nuovo di zecca che riporto qui sopra; il secondo riguarda lo stesso episodio della lettera, variandone però radicalmente gli ingredienti, e perciò lo riporto per intero.
   Quanto alla data del rifacimento, posso avanzare solo un’ipotesi: poco dopo il rientro in Italia, basandomi su due elementi: Suor Bertilla Boscardin di Brendola (VI), cui s’accenna nel primo frammento, fu santificata l’11 maggio 1961 con gran risalto locale, e il momento topico dell’episodio nuovo lì inserito ricorda platealmente l’ultimo capitoletto degli Americani a Vicenza, scritto da Parise pochi anni prima.

lunedì 29 agosto 2016

"Avanti nella lotta, amore mio! Scritture 1918-1926" di Piero Gobetti a cura di Paolo di Paolo

A inizio anno, per la cura di Paolo Di Paolo, è uscito nella collana Universale Economica di Feltrinelli un volume intitolato Avanti nella lotta, amore mio! Scritture 1918-1926 di Piero Gobetti (pp. 224, euro 9,50, con uno scritto di Pietro Polito). Di certo un movente di tale pubblicazione sarà stato il novantesimo anniversario della morte dell'editore e intellettuale torinese, avvenuta in clinica a Neuilly-sur-Seine, vicino a Parigi, il 15 febbraio del 1926. Tuttavia mi è parso che, se ricorrenza si è celebrata, sia tutto sommato scivolata via veloce e nell'indifferenza generale. Potrei sbagliarmi perché non sono certo una rassegna stampa vivente, tutt'altro, ma la percezione è che si sia persa l'occasione per provare a dire due cose sensate su Gobetti e farsi provocare dalla sua intelligenza. Questa mancata occasione non fa notizia e non sto nemmeno insinuando che proverò io a dire le due cose sensate. Tanto vale piuttosto parlare di Piero Gobetti quando ci pare e piace oppure, molto più banalmente, quando ci riusciamo o ci sembra di non poter farne a meno. Tra l'altro proprio quest'anno si completa di altre pubblicazioni gobettiane, quali Il giornalista arido. Articoli 1918-1925 uscito per Nino Aragno, La forza del nostro amore uscito per Passigli e contenente il carteggio con la moglie Ada Prospero e infine il volume dedicato alla grande passione di Gobetti per la Russia, Paradosso dello spirito russo uscito per le Edizioni di Storia e Letteratura (Andreev, Dostoevskij, Gogol', Lermontov, Puškin). 

Il volume redatto da Paolo Di Paolo ha carattere antologico e ha il merito di riunire in cinque sezioni una scelta ponderata della scrittura di Gobetti. La prima parte vagola tra autobiografia e smaglianti pagine di diario senza le date. Nella seconda si entra nella politica e nella storia, ovvero anche nel "mito Gobetti", su cui torneremo brevemente in chiusura. La sezione centrale è dedicata agli scritti di teatro e letteratura (un aspetto che non andrebbe mai dimenticato è proprio l'incredibile produzione di scritti teatrali di Gobetti che, lo ricordiamo, morì prima di compiere i 25 anni!). La quarta parte sull'arte contiene un contributo sul genio casoratiano e sulla pittura di Gainsborough, l'idea di un saggio comparativo di storia dell'arte e persino un saggio dal titolo La pittura veneta del '400. Chiude la selezione il celebre Commiato del febbraio 1926 ("[...] La concezione della vita come serie di esami è stupida: tutto si riduce invece all'aver credito, al non aver bisogno di esami perché si è qualcosa (si intende sempre socialmente).").

Al di là del "mito Gobetti", legato per forza alla precoce morte, all'antifascismo, all'aver donato, racchiuso in una parabola di vita così breve, un orizzonte e amore di riflessione così stupefacenti ai nostri occhi, c'è da dire che ancora una volta un "mito" si dovrebbe risolvere in scrittura, cioè in tutte le pagine che Gobetti ha vergato, nel suo essere stato fulcro di leve, centro di irradiazione e incrocio di molteplici contributi, a sua volta "traduttore" di una lezione proveniente dai suoi maestri. La capacità di Gobetti di saper discettare di argomenti disparati, così estrema e per certi aspetti fuori tempo massimo nel primo Novecento (non parliamo d'oggi), ha ragion d'essere in quello che è probabilmente il motivo primo per cui dovremmo tornare a Gobetti, ovvero l'editoria e il mestiere d'editore. Quando si trasferì a Parigi, Gobetti desiderava soprattutto continuare quell'attività editoriale che aveva brillantemente intrapreso nel suolo italiano, prima delle aggressioni del regime, che ne indebolirono il già precario stato di salute. Insomma, semplificando brutalmente e volendo indicare quattro direzioni su cui collocare l'eredità gobettiana, lascio questi quattro punti: 1) la necessità di un pensamento profondo del mestiere d'editore, 2) il mai abbandonato interesse per i problemi della traduzione (intesa anche, in senso lato, come divulgazione), 3) la centralità della rivista in quanto sonda primaria di perlustrazione (non sono convinto che quella vitalità delle riviste sia scomparsa, dovrebbe piuttosto trovare delle forme diverse dai social network, coi loro testi estrapolati a guisa di incarti di Baci Perugina) e 4) l'insaziabilità e curiosità, racchiuse in una straordinaria volontà di vivere. Ma molto altro fu Gobetti e quest'antologia ha senza dubbio il merito di proporre a un prezzo accessibile in una collana di larga diffusione alcuni dei suoi scritti. Come ricorda il curatore, Gobetti è forse più noto che conosciuto o letto. In chiusura, trovo curioso che una simile antologia arrivi da Feltrinelli.

martedì 23 agosto 2016

"Tre soldati" di John Dos Passos

Leggere una grande guerra #22
 
"Leggere una grande guerra" intende essere il breve spazio in cui segnalo dei libri sulla Prima guerra mondiale. Il quinquennio 2014-18 coincide con un lungo periodo di celebrazioni, commemorazioni ed eventi a livello internazionale. Segnalare semplicemente dei titoli di libri, brevi o meno brevi, passati o attuali, reperibili o non reperibili, italiani o stranieri, può essere un buon antidoto contro le fanfare e i tromboni che stanno pericolosamente giungendo un po' da ogni parte. Le segnalazioni saranno sintetiche, poco più di una scheda bibliografica. (In coordinamento con World War I Bridges).

Avvistamenti #3

 
Poche righe su libri che faremmo bene a tradurre o ritradurre (o che stanno finalmente arrivando). 


Si tratta di uno dei due romanzi giovanili che John Dos Passos (Chicago 1896 - Baltimora 1970) dedicò alla propria esperienza nella Prima guerra mondiale. Già abbiamo parlato dei suoi giorni sul fronte italiano, molti dei quali attorno al Monte Grappa, che ritroviamo anche nel suo diario L'allegra montagna di menzogne uscito per Gammarò e curato da Silvia Guslandi. Con One Man's Initiation del 1917, Three Soldiers pubblicato nel 1921 a New York dall'editore Doran (a lato la copertina della prima edizione) va a costituire un dittico importante di libri d'esordio di un narratore fondamentale del secolo scorso. Il libro racconta le vicende di tre soldati americani coinvolti nella preparazione in patria e in uno degli scenari principali della Prima guerra mondiale, il fronte francese. I tre sono Fuselli, commesso italo-americano di San Francisco, Chrisfield contadino dell’Indiana e il talentuoso Andrews, formatosi a Harvard, per tanti versi alter ego dell’autore. I tre rappresentano uno spaccato significativo dell’America bianca di allora nel momento in cui si affaccia la guerra nel ventre molle della neonata società di massa.

In Three Soldiers immaginari diversi vanno a scontrarsi nei congegni e negli ingranaggi della vita militare, nella burocrazia, nella noia e infine nelle menzogne e nel carnaio della guerra. Il congegno narrativo di Dos Passos si propone di sondare gli effetti disumanizzanti della macchina di guerra sulla paura, sull’istinto di ribellione e sull’individualità di ciascuno dei protagonisti, i quali vivono una sorta di triangolazione e danno vita a un inedito “romanzo triplice” in uno.


Nella realtà Three Soldiers, più che un romanzo della Grande Guerra, può essere il romanzo nato in seno a questa, una delle prime opere di narrativa che si è proposta di raccontare l’incontro/scontro tra America e Europa nel momento in cui una guerra europea si trasforma in guerra mondiale. I tre personaggi mostrano caratterizzazioni psicologiche assai distinte e marcate e concorrono a dar vita ad uno dei primi efficaci scandagli della solitudine dell’uomo moderno, qui colta nel momento peculiare di due mondi - America e Europa - che si avvicinano per la guerra. Di particolare interesse, oltre alla detta caratterizzazione psicologica e linguistica dei protagonisti, anche quella geografica del romanzo, nonché la comparsa di un immaginario cinematografico ormai maturo, caratteristica pressoché unica dell’opera.

Tre soldati è un romanzo di guerra che manca da troppo in italiano (scrisse a proposito F. Scott Fitzgerald, coetaneo di Dos Passos: “the first war book by an American which is worthy of serious notice”). Uscì nel 1967 in un’edizione di Gherardo Casini Editore (traduzione di Luigi Ballerini). La fatica del nostro poeta autore di Cefalonia fu curiosamente divisa in due volumi. Il titolo originale fu reso in piccolo in copertina con il ricorso all'articolo determinativo I tre soldati, mentre i titoli principali dei due volumi diventarono La lunga attesa e Il mondo cambia, segno forse di un'editoria che sulla mole di un volume ragionava in modo assai lontano da quella attuale. Diversa la fortuna dell'altro libro che Dos Passos dedicò a quella sua esperienza di guerra, One Man's Initiation, che conta addirittura due traduzioni italiane disponibili (per Gingko e Piano B edizioni).

sabato 20 agosto 2016

Il programma di flussidiversi 2016 a Caorle

Ricevo e diffondo il programma della nona edizione di "flussidiversi", festival di poesia che si terrà a Caorle (Venezia) il 26, 27 e 28 agosto. Tra i vari appuntamenti menzionati di seguito, si tornerà a parlare di libri e editoria di poesia sabato 27 agosto e domenica 28 agosto.




Il Comune di Caorle
in collaborazione con Libreria Diffusa
presenta
FLUSSI DI VERSI 9a Edizione Festival di poesia
26/27/28 Agosto 2016

PROGRAMMA

Venerdì 26 Agosto

17:00/18:00
Caorle tra i dialetti.
A cura di Giuseppe Nava e Christian Sinicco
Ospiti: Luciano Cecchinel presentato da Paolo Steffan
Luigina Lorenzini presentata da Giuseppe Nava

20:00-22:00
Reading e letture di
Marthia Carrozzo
Francesco Terzago
Giacomo Sandron
Giovanna Frene
Alfonso Maria Petrosino
Lello Voce & Frank Nemola

Sabato 27 Agosto

11:00 Laboratorio di poesia e lettura ad alta voce per bambini e genitori.
A cura di Dome Bulfaro

13:00-15:00 Editoria di poesia: prospettive, soggetti, sistema.
A cura di Julian Zhara e Luca Rizzatello (Prufrock spa)
Interventi di: Franco Buffoni (poeta e traduttore)
Maria Borio (Nuovi Argomenti) Luigi Socci (direttore artistico de La Punta della Lingua)

16:00 Inaugurazione della mostra di Dino Ignani
“INTIMI RITRATTI, i volti dei poeti”

17:00-18:00 Il dialetto nella poesia del Nord-Est
A cura di Giuseppe Nava e Christian Sinicco
Ospiti: Fabio Franzin presentato da Julian Zhara
Giacomo Vit presentato da Francesco Terzago

19:00 Performance “Golden Hour”
di Tiziana Cera Rosco

21:00-22:00 Reading e letture di
Dome Bulfaro
Franca Mancinelli
Francesca Matteoni
Maria Grazia Calandrone
Luigi Nacci

Domenica 28 Agosto

05:30 Performance “Golden Hour”
di Tiziana Cera Rosco

06:00 Le notti chiare erano tutte un’alba.
Letture dei poeti soldati nella Prima Guerra Mondiale al sorgere del sole.

11:00 Laboratorio Poesia e Fiaba per bambini e genitori
A cura di Francesca Matteoni

13:00-15:00 Editoria di poesia: prospettive, soggetti, sistema.
A cura di Julian Zhara e Luca Rizzatello (Prufrock spa)
Interventi di: Gian Mario Villalta (direttore artistico Pordenonelegge) Francesco Forte (Oedipus Edizioni) Laura Liberale e Francesca Diano (Carteggi Letterari)

17:00-18:00 Il dialetto nella poesia del Nord-Est
A cura di Giuseppe Nava e Christian Sinicco
Ospiti: Piero Simon Ostan presentato da Christian Sinicco
Ivan Crico presentato da Giuseppe Nava

19:00 Premiazione a Franco Buffoni

20:00-22:00 Reading e letture di:
Bernardo Pacini
Tommaso Di Dio
Andrea De Alberti
Maria Borio
Luigi Socci
Gian Mario Villalta
Franco Buffoni

22:00- 22:45 Hip Hop Poetry
Concerto di Eell Shous

22:45-23:30 Electric Poetry Party.
A cura del pj luigisocci

POESIA ESPRESSA durante tutto il Festival, in Piazza Papa Giovanni un poeta a turno, scriverà delle poesie espresse per i passanti.

La mostra di Dino Ignani “INTIMI RITRATTI, il volto dei poeti” ci sarà per tutti e tre i giorni consecutivi. Inaugura Sabato 27 alle 16:00 Centro Civico di Caorle, Piazza Vescovado.

Le letture e i reading avverranno in Piazza Vescovado (in caso di maltempo le letture si sposteranno nel Centro Civico di Piazza Vescovado).

Il reading di poesia dialettale si terrà sotto i Portici del Centro Civico in Piazza Vescovado
L’Electric Poetry Party e L’Hip Hop Poetry si terranno al Bafile Gran Cafè, piazza Matteotti 1.

La PERFORMANCE DI TIZANA CERA ROSCO avverà al pomeriggio sul lungo mare di Ponente all’alba sul lungomare spiaggia di Levante.


Organizzazione: Libreria Diffusa
Direzione artistica: Julian Zhara
Ufficio Stampa: Alessandro Burbank
Contatti: flussidiversicaorle@gmail.com

mercoledì 17 agosto 2016

Lettura e sonorizzazione del libro "Traviso" con Lucio Bonaldo


Di seguito la traccia della lettura e sonorizzazione del libro Traviso 
uscito nell'estate 2014 per Prufrock spa (pp. 50, euro 10)


Registrazione del 7 maggio 2016 
presso lo studio tan sound di Cimadolmo (Treviso)


Set di percussioni 
(timpano, pentolino, rasoio, campana): 
Lucio Bonaldo

Testi e lettura: 
Alberto Cellotto

Postproduzione: 
Lucio Bonaldo e Prufrock spa


lunedì 8 agosto 2016

"L'arte di nuotare. Meditazioni sul nuoto." Sette domande a Carola Barbero

Librobreve intervista #69


Recentemente ho intercettato il breve libro L'arte di nuotare. Meditazioni sul nuoto della studiosa di filosofia del linguaggio Carola Barbero (Il melangolo, pp. 123, euro 8) e ho deciso di rivolgere all'autrice queste domande, in pieno clima olimpico (e si sa che l'acqua fa subito la parte del leone all'avvio dei giochi). Si è parlato di nuoto in questo blog nel caso recente del post dedicato a Oliver Sacks e del suo desiderio di nuotare per almeno un chilometro e mezzo al giorno anche dopo gli ottant'anni. Tuttavia è da tempo che volevo provare a occuparmi di nuoto, sin dai tempi della lettura de La resistenza del nuotatore di Sebastiano Nata, e volevo farlo in un post più specifico. Ringrazio l'intervistata, colta tra l'altro in un pieno periodo natatorio...

LB: Ci può dire come le è venuta l'idea di questo breve libro che medita sul nuoto?
R: Ho sempre nuotato con grande passione, liberandomi di tutto e tutti una vasca dopo l’altra. Quando nuoto penso sempre molto, ma fino a qualche anno fa non credevo che le mie meditazioni meritassero di essere condivise. Poi un giorno, parlando con un’amica in un caffè di Milano, ho capito che forse mi sbagliavo. Così, quel giorno, sul treno per tornare a Torino, ho preso la mia Moleskine nera e ho cominciato a scrivere all’asciutto di quei miei pensieri che sempre mi accompagnano quando sono orizzontale e immersa nell’acqua.

LB: Pensando ai libri che trattano da un punto di vista storico-filosofico e meditativo il nuoto, non si può che tornare a quello di Charles Sprawson (L'ombra del massaggiatore nero). Potrebbe dire del suo rapporto con quel libro e di altri testi altrettanto importanti e magari meno noti?
R: L'ombra del massaggiatore nero è un libro molto bello e pieno di aneddoti. Ho letto anche Nuotare. Perché amiamo l’acqua di L. Sherr e alcuni libri scritti da nuotatori. Sulla filosofia dello sport ho letto un libro di H. Reid e uno di D. Hyland. Ma i testi più belli che ho letto sul nuoto erano romanzi, racconti, poesie e canzoni. Da D. Modugno a J. Prévert, da D. Lessing a R. Sampedro, da F. Scott Fitzgerald ad A. Merini.


Francis e Zelda Fitzgerald
LB: In forme più sparpagliate, esistono dei libri che per lei rimangono capitali come meditazione sulla pratica natatoria?
R: Nel senso in cui il nuoto mi interessa, quindi non come semplice sport ma come pratica che consente di riflettere su diversi aspetti dell’esistenza, I nuotatori di F. Scott Fitzgerald e Il nuotatore di J. Cheever.

LB: E muovendoci ad altre forme d'espressione (film, arti figurative, musica) chi ha meditato e lasciato un segno mirabile di riflessione sul nuoto? 
R: Lo spettacolo del 1907 di Annette Kellerman a New York in cui, immersa in una piscina di vetro, si esibisce in un balletto acquatico. E’ una meraviglia liquida. Un film italiano molto bello sul nuoto che si sofferma sul rapporto nuoto-libertà-amore è Giulia non esce la sera di G. Piccioni e un altro molto interessante sul coraggio e sulla forza di chi lotta per un obiettivo è Pride di S. Gonera.

LB: Sta guardando le Olimpiadi e le gare di nuoto in particolare? Che cosa le passa per la mente?
R: Certamente! Guardo nuoto, tuffi e nuoto sincronizzato. Non penso, nuoto insieme a loro, trattengo il fiato durante la gara con il cuore in gola, piango per le vittorie e verso lacrime amare per la sconfitte. 

LB: E lei? Qual è stata la più bella nuotata e dove (se può dirlo)? Ha uno stile preferito?
R: Io nuoto per passione e per vizio. Le mie nuotate più belle sono tante, tantissime. Adesso che sono in Sicilia, a Capo D’Orlando, amo nuotare andando alla ricerca dei vari scogli nascosti in mezzo al mare. Quando arrivo in spiaggia mi svesto più in fretta possibile, entro in acqua e nuoto, poi solo quando non ho più forza e fiato mi fermo un momento e mi volto indietro a guardare la spiaggia da lontano. Il mio stile preferito è il crawl, lo stile libero. Ma anche il dorso mi piace, soprattutto quando ho bisogno di guardare il cielo e riappacificarmi con il mondo.

LB: Potrebbe concludere con una citazione per lei significativa, una sorta di punto di partenza interessante per qualsiasi nuova meditazione sul nuoto? Grazie.
“Il nuotatore guarda il suo futuro”. E’ l’incipit de Nuotatori di J. Pérez Azaustre. Ci ricorda che nel nuoto, come nella vita, c’è una voce interiore che ci dice “dài, dài”, che ci spinge ad andare avanti e arrivare al bordo o alla mèta. Tutto sta a riuscire a sentirla.

domenica 7 agosto 2016

"La politica dell'impossibile" di Stig Dagerman: per non morire di vergogna

Quote #12

"To repeat or copy the words of another, usually with acknowledgment of the source." Questo il verbo "to quote". Ma in italiano "quote" è il plurale di quota, parola che mi interessa soprattutto nel senso della misura di un'altezza o di un lato. Citando e contestualizzando minimamente passi importanti, cerco un modo assai svelto di dar notizia di libri significativi, possibilmente brevi. Stando breve, pure io.

Dal 1991 la casa editrice Iperborea prosegue nella proposizione delle opere dello scrittore svedese Stig Dagerman, nato nel 1923 e morto suicida all'età di 31 anni. Dopo Il nostro bisogno di consolazione, Il viaggiatore, Bambino bruciato, I giochi della notte e Perché i bambini devono ubbidire? è la volta della traduzione dei saggi e contributi giornalistici usciti a Stoccolma nel 1958 col titolo Essäer och journalistik. La politica dell'impossibile (pp. 144, traduzione, cura e utile prefazione di Fulvio Ferrari, postfazione di Goffredo Fofi, euro 15) raccoglie diciassette interventi sui temi più disparati, tutti anticipati da un breve cappello introduttivo del curatore che contestualizza lo scritto e l’occasione per cui Dagerman si è pronunciato. Quello che davvero colpisce nella capacità di analisi nell’anarchico autore de Il serpente è quanto un tempo, con un’espressione un po’ scolastica e desueta, si sarebbe chiamato “spirito critico”. Che affronti i temi della poesia, il suo punto di vista sull’anarchismo, le nascenti ONU o NATO, che venga interrogato sul significato dei “classici”, sul compito della letteratura, sul mondialismo e il “movimento dei cittadini del mondo”, sul nascente dibattito Est/Ovest, Dagerman offre ai suoi lettori punti di vista mai scontati e ruminati e una chiara visione dei pericoli che corrono le democrazie europee degli oligocratici, una cultura già allora relegata all’intrattenimento, e la figura dello scrittore, che Dagerman vede inevitabilmente inserito in un qualche ruolo, ma per il quale rivendica libertà di immaginazione e lavoro in modi e toni nuovi per l’epoca. Leggendo questi testi pensavo a un’altra espressione scolastica e desueta, ovvero quella del “ruolo dello scrittore”. Potrei concludere, prima di lasciarvi all’ampio stralcio che ho scelto, che leggendo Dagerman queste espressioni desuete che talvolta potrebbero apparirci come inservibili fossili linguistici suonano un po’ meno ischeletrite, ancora vibranti in un’atmosfera di drammatica utopia.

Il brano che segue è tratto dallo scritto “Lo scrittore e la coscienza” del 1945 (mutatis mutandis notate come certe sue osservazioni sulla poesia, sulla sua popolarità e comprensione e quindi sul suo declassamento siano perfettamente mutuabili e adattabili al nostro tempo).

[…] Come chiunque altro, lo scrittore ha dovuto fare esperienza della propria dipendenza dall’arbitrio di un potere esterno e ha dovuto rendersi conto di quanto la sua libertà, al pari di quella altrui, sia condizionata. Del tutto apparente, per esempio, è la libertà di movimento, visto che ogni persona è data in prestito a se stessa per un periodo che è qualcun altro a decidere. E come risultano fragili qualsiasi riforma sociale e qualsiasi utopia in un sistema mondiale in cui la catastrofe è l’unica previsione certa! Eppure è necessario ribellarsi, attaccare questo ordine nonostante la tragica consapevolezza – che rappresenta forse il dilemma di tutti i socialisti del mondo d’oggi – che ogni difesa e ogni attacco non possono essere altro che simbolici, e tuttavia devono essere tentati, se non altro per non morire di vergogna. Se in questa situazione mi si accusa dicendo «La tua poesia non è capita dal popolo, dalle masse, dagli operai, non è abbastanza sociale», io ho il diritto di rispondere che un tale ragionamento si basa su una concezione sbagliata, quella secondo cui per essere sociale la poesia deve essere «capita» da tutti. Per «capire» si intende purtroppo poterla comprendere senza alcuno sforzo del pensiero, più o meno come si comprende un annuncio o una insegna al neon. Per certi presunti rappresentanti del «popolo», la poesia deve essere l’annuncio pubblicitario del mondo nuovo, ma se il testo è abbastanza gustoso può anche parlare dei piaceri dell’estate o della pesca ai gamberi ed essere ugualmente letteratura per il «popolo». Per loro la poesia ha smesso di costituire un messaggio da essere umano a essere umano. L’hanno declassata a gioco di società. Non hanno mai capito che nasce invece da una necessità: non è un lavoro di falegnameria fatto con ritmi e rime, che possa essere praticato nei momenti liberi da rivoluzionari in pensione che non hanno mai preso sul serio la letteratura. Gridano alla reazione se si imbattono in un brano poetico che non si può imparare a memoria in cinque minuti o che non rende immediatamente accessibile il suo pensiero, ma sono loro a essere reazionari, sia perché negano il dovere dello scrittore di creare secondo la sua necessità, sia perché mettono in discussione la possibilità che la poesia riguardi l’essere umano, non in quanto gioco di società, ma come pietra di paragone della sua sincerità nei confronti della vita. […]
Mi auguro che questo ampio stralcio tratto da La politica dell'impossibile di Stig Dagerman sappia funzionare come invito alla ricerca e alla lettura del libro

giovedì 4 agosto 2016

da "Il bestiario" di Arturo Loria

Una poesia da #60


Sono sempre tempi propizi per i bestiari. Ma forse non è nemmeno questione di tempi propizi e si tratta di constatare, più semplicemente, che l'idea di bestiario non ha mai smesso di fornire un palinsesto per la creazione di nuovi libri, talvolta anche nella saggistica, come In difesa di Darwin. Piccolo bestiario dell'antievoluzionismo all'italiana di Telmo Pievani, oppure in un "bestiario lacaniano" come quello curato e proposto da Erminia Macola e Adone Brandalise anni fa. Mi chiedo se la tendenza sia più forte in Italia che altrove. A volte i bestiari sono disseminati e celati nella produzione di un autore (lo abbiamo visto tempo addietro nell'ultimo libro di poesie di Igor De Marchi), altre volte sono palesi sin da un titolo, altre volte ripescano bestie immaginarie come l'ornitorinco (l'abbiamo visto con il libro Ornitorinco in cinque passi di Lorenzo Mari uscito per Prufrock spa). Dai sudamericani Neruda, Arreola e Cortázar a Dino Buzzati e Attilio Lolini, dall'attore Marco Paolini ai disegnatori Andrea Pazienza e Guido Scarabottolo, fino a prove come Un bestiario di Mariagiorgia Ulbar, uscito con la prima serie di tre titoli di Nervi Edizioni ormai oltre un anno fa assieme ai libri di Andrea Longega e Sebastiano Gatto (autori rispettivamente di Primo lustro e Strada lavoro), non mancano insomma esempi e richiami a questo "istituto" che trova nel Medioevo la sua pressoché attuale codifica e sistemazione. All'epoca però il bestiario era concepito come strumento didattico volto a descrivere gli animali e le loro proprietà all'interno di una mentalità allegorico-simbolica che rimandava a un ordine sopranaturale, di cui la bestia è simbolo. Qualche secolo più tardi che cosa sono i bestiari e che cosa resta di quell'impianto? Molte discussioni si potrebbero aprire sulle ragioni di questa fortuna e durata secolare, tutte plausibili e forse nessuna esaustiva. Basterebbe ricordarci che se chiamiamo Dante il "padre della nostra letteratura", probabilmente ci siamo già dati una risposta con le tre fiere in cui ci imbattiamo nel primo canto dell'Inferno. Insomma, delle bestie, allegoriche o no, non si può fare a meno e ognuno di voi saprebbe fornire interessanti spunti di riflessione sul perché della longevità dei bestiari. Più difficile diventerebbe dire della trasformazione dei bestiari nel tempo e dei moventi che spingono in epoca post-human a comporre nuovi bestiari.

Ci collochiamo nel 1959, né nel Medioevo né nell'oggi, anno in cui esce postumo Il bestiario di Arturo Loria, numero 20 della collana "Biblioteca delle Silerchie" de Il Saggiatore (pp. 56, a cura di Alessandro Bonsanti, con una nota autobiografica dell'autore, volume reperibile ormai solo nelle biblioteche o dagli antiquari). Divagazione breve: sono davvero stupende le copertine della collana "Biblioteca delle Silerchie" (nel catalogo storico de Il Saggiatore qui) e non ho ricordi di collane dove sia così preponderante l'immagine rispetto al nome dell'autore e al titolo, relegati a una fascetta minima (addirittura manca un cenno al nome e al marchio dell'editore in copertina, accadimento raro). Nel caso de Il bestiario di Arturo Loria la copertina è opera di Balilla Magistri. Come noto la collana è stata rilanciata tempo fa, tuttavia, senza alcuna nostalgia per quella che fu e anche senza critica per l'operazione attuale di rilancio di quel "brand", vi invito davvero a scorrere il catalogo storico della prima "Biblioteca delle Silerchie" per comprendere come certi esperimenti editoriali siano irrepetibili, oppure replicabili con la consapevolezza di stare su un'altra scala e in contesti ormai mutati in lungo e in largo. La domanda, in senso editoriale, dovrebbe diventare circa questa: quando "conviene" ripescare qualcosa (un nome?) dal passato e quando "conviene" provare a inventarsi qualcosa di completamente nuovo? Con la "Biblioteca delle Silerchie" troviamo una fusione e sintesi di molte forze e esperienze in circolo allora, nei tanti campi del sapere e della ricerca scrittoria che accostava con una naturalezza mai più vista e sentita arte, filosofia, narrativa, saggistica, critica e anche la poesia. In questo quadro editoriale, la collana poteva ospitare il libro di poesie postumo di chi poeta non fu o non volle essere, di un altro autore passato ormai sotto il piagnisteo della ingiusta dimenticanza. Ai retori difensori degli "ingiustamente dimenticati" vorrei ricordare che contro l'oblio degli scrittori e delle loro opere esistono forse due rimedi pratici: 1) certe campagne pubblicitarie abbastanza onerose di rilancio ma non necessariamente efficaci e 2) tornare a leggere certi libri e a parlarne. Prima ancora di tornare a parlare, tornare a leggere. Questo quindi è un semplice invito a leggere Arturo Loria poeta, con due testi da Il bestiario. Il quadernetto azzurro contenente le sue poesie, acquistato a Parigi il 24 maggio 1952, presentava in certi casi più varianti dello stesso testo. La scelta della variante finita nel libro si deve all'amico e curatore Antonio Bonsanti, che con Loria e Montale diresse nel dopoguerra il periodico "Il Mondo".





LA MARMOTTA


Dormire, dormire nel chiuso del covo
per ridestarmi, consunta, da una morte
così sospesa e così dolce,
al primo soffio di primavera!
È nuovo il mondo, allora;
ma ripete i ricordi di passate stagioni:
[sole che offende gli occhi, cibo ottenuto
per caccia paziente].
Vengono cauti e feroci i maschi;
più tardi partorisco i figli inermi
e l'istruisco a vivermi lontano.
Il grasso fa lucente il pelo smorto;
però mai basta all'intimo comando
di più indossarne pel nuovo letargo.
Ecco: è già tempo. Si annunciano le nevi.
Scòstati. Voglio chiudere la tana.
Tu guardi i vetrici già rossi sul greto
e mesto mi sorridi e abbrividisci...
ma che accade di voi, mentr'io dormo?


L'ASINO


Calura e mosche intorno a te,
mentre il padrone contratta o beve.
Ma ecco l'evasione del tuo grido
che si sprigiona dalle mille pelli
di un mantice rotto di pena
nella piazza dell'erbe
e spazza l'aria d'ilarità.
Sei fermo tra gli orecchi, gli occhi fissi
alla cavalla baia. Il carrettino
proietta l'ombra di una nuova stanga.



lunedì 1 agosto 2016

"Giù in fondo" di Leonora Carrington

Riletture di classici o quasi classici (dentro o fuori catalogo) #30


Nel 1979 uscì per Adelphi la traduzione italiana di En bas di Leonora Carrington (Giù in fondo, pp. 76, traduzione di Ginevra Bompiani, libro del quale si dovrebbe riuscire a recuperare qualche copia). Il breve racconto, uscito in prima battuta a Parigi nel 1973, si tiene in forma diaristica tra il 23 agosto e il 27 agosto 1943 e si apre con una lettera all'editore che dice: "Come una vecchia Talpa che nuota sotto i cimiteri mi rendo conto che sono sempre stata cieca - cerco di conoscere La Morte per avere meno paura, cerco di vuotar via le immagini che mi hanno resa cieca - Le mando ancora molto affetto e la bacio attraverso la mia Dentiera (che tengo accanto a me, la notte, in una scatoletta di plastica celeste) NON HO PIÙ NEANCHE UN DENTE" e poi un significativoo P.S. "Se i giovani mi dicono che ho lo Spirito giovane mi offendo - Ho lo SPIRITO VECCHIO Cerchi di capirlo -". Forse la dentiera è una spia, uno dei tratti che rimandano anche alla sua lunga frequentazione surrealista, ma non formalizziamoci troppo coi surrealisti. Leonora Carrington fu infatti una pittrice e scrittrice che sicuramente visse dal di dentro quella "corrente" ma con una libertà di gesto ineguagliata. Normale ricordare la relazione con Max Ernst, dalla quale anche questo En bas scaturisce, sebbene in absentia. Sono infatti raccolti qui i giorni dell'internamento in manicomio dopo il trapasso del confine spagnolo, in fuga dalla Francia occupata dal Reich e in seguito alla rottura della serenità speculativa che Leonora Carrington e Max Ernst avevano costruito nella casa di Saint-Martin d’Ardèche. Ma tralasciamo per oggi le intricate vicende sentimentali interne al quartier generale surrealista e le altrettanto intricate vicende sentimentali che portano - neanche a farlo apposta - sempre a Peggy Guggenheim (che fra l'altro poi sposò Ernst) e al suo salvataggio di mezzo esercito di artisti figurativi con un volo Pan Am Lisbona-New York nel luglio del 1941 (tra cui proprio Carrington e Ernst).

In questo memoir sull'esperienza dell'internamento nella clinica di Santander gestita dal filonazista Luis Morales, Leonora Carrington semina per strada il ricordo delle terapie brutali, le cure al Cardiazol, le violenze sessuali, i cibi inghiottiti secondo un rituale ben preciso, l'ossessione per certi numeri, la relazione con la lordura della propria condizione di internata, le droghe allucinatorie e arriva a formare un universo di realismo magico dove il dato reale avanza in un deserto di visioni e allucinazioni. L'arrivo in Spagna coincide con il seguente ricordo linguistico: "Dover parlare una lingua che non conoscevo fu molto importante per me. Non ero impacciata da un'idea preconcetta delle parole e capivo soltanto a metà il loro significato moderno. Ciò mi permetteva di attribuire un senso ermetico alle frasi più banali." (corsivo mio). Oggi leggiamo Giù in fondo quasi come una inconsulta reazione scritta dal di dentro di una pazzia incipiente mentre là fuori il mondo va in fiamme e deflagra la rovina bellica. Eppure c'è sempre un occhio che analizza e l'altro che soffre per il continuo cambio di fuoco tra immenso e minuscolo, fuori e dentro. E la pazzia è una sentenza della società salutata positivamente, sin dall'incipit, perché "ingnoravo l'importanza della salute, cioè la necessità assoluta di avere un corpo sano per evitare il disastro nella liberazione dello spirito".

Max Ernst, Leonora nella luce del mattino, 1940
Leonora Carrington fu probabilmente il più gran autore di prosa in un movimento a trazione maschile e figurativa. Ma come accennato fu surrealista per così dire (è stata con Max Ernst, insomma, e Max Ernst è stato con lei), anti-freudiana, seppe correre fuori dall'alveo che Breton (che le dedicò un capitolo nella sua Antologia dello humor nero del 1939) e gli altri surrealisti volevano in un certo senso tracciare per lei. Fu capace di trattare la follia, il sogno e la relazione con gli oggetti all'insegna di una libertà maggiorata rispetto a quella mostrata da certi altri automatismi (e automi) di quel movimento. Per questo oggi, a cinque anni della morte avvenuta in quel Messico dove trascorse larga parte della sua esistenza, possiamo riappropriarci dei fantasmi che ha lasciato sulla pagina e sulle tele e percorrere quest'ennesima discesa agli inferi che la scrittura ha saputo consegnarci, una memoria nera scritta nella "paura di cadere nella finzione, veritiera ma incompleta", un altro notevole risultato ottenuto nell'immondo e nella prosa disposta veramente a lordarsi.