giovedì 28 febbraio 2013

"Bloody Cow" di Helena Janeczek. Chi si ricorda la BSE ora che c'è la carne di cavallo?

Avevo già pronte queste note di lettura sul recente libriccino di Helena Janeczek. Ora il caso delle carni equine rinvenute un po' ovunque riporta a galla quelle righe e questo libro uscito da poco, che in realtà costituisce la riproposizione stand-alone di uno scritto pubblicato in coda a Cibo, libro del 2002, allora intitolato Quasi un epilogo morale. Non che in queste/quelle pagine l'autrice anticipi i fatti di questi giorni, comuni a più paesi europei (il problema della carne oggigiorno travalica i confini, se non altro quelli europei), ma perché quel libro costituisce un buon passaggio per le nostre masticazioni e ruminazioni carnivore. Penso anche che prima o poi qualcuno dovrà scrivere una grande opera di narrativa sul cibo, qualcosa di imprescindibile e irrinunciabile, che dica meglio e più a fondo del nostro "rapporto" con quanto ci sostiene e alimenta, nelle diverse età dell'uomo, persino nei diversi luoghi. Qualcosa che vada oltre il filo da biancheria che, nell'immaginario, si tende tra punti (anche letterari, cinematografici e documentaristici) che scorrono tra un pranzo di Babette, una grande abbuffata o l'immagine del bambino del Biafra contenuta in Fame nei Sillabari di Goffredo Parise. Nel frattempo, nell'attesa fiduciosa che anche la narrativa smetta di essere autoreferenziale come la televisione (un giorno, su dieci romanzi che ho preso in mano in libreria, credo sette riassumessero in quarta di copertina le vicende di uno scrittore. Che palle! Non che siano tutti da buttare, anzi, alcuni sono belli, se non capolavori, ma l'inflazione del tema va detta!), accontentiamoci di questo Bloody Cow di Helena Janeczek (Il Saggiatore, pp. 58, euro 10), uscito (riuscito) per la rinata e un tempo gloriosa collana Biblioteca delle Silerchie. L'accontentarsi è riferito più che altro alle dimensioni dell'assaggio, e non nel gusto, dato che questo piccolo libro si presenta come qualcosa di strettamente necessario e assai leggibile, un testo tra la confessione, il reportage, l'analisi, il flusso di in-coscienza che regola un "regime" alimentare, la nostra ignoranza testimoniata da ogni nostro passo tra le corsie di un supermercato. Ondeggianti tra sfondo e primo piano le note (dimenticate?) vicende dei casi di BSE.

Prima di tutto la sua scrittura. Saprete (con un nome così non è difficile intuirlo) che Helena Janeczek non è nata in Italia, bensì a Monaco di Baviera. Che sia da rintracciare anche in questo dato biografico una positiva ossessione animale e alimentare? Per chi arriva dall'Italia, dopo il breve e famigerato corridoio austriaco (un budello di autostrada dove il limite di 100 km/h viene quasi sempre miracolosamente rispettato), la vacca è spesso il primo contatto visivo col mondo bavarese. Magari passate il confine, vi arriva l'sms sul telefonino di cambio roaming e vi accoglie una "simmental" tedesca. Janeczek scrive in italiano, e ha già dato prova di saperlo fare meglio di tanti scrittori nati tra il Brennero e Lampedusa. Ciò che colpisce di questo libro è proprio in primissima battuta una scrittura priva di coordinate GPS facili, uno stile che si consustanzia nella e dalla stessa materia da cui prende forma, una materia incerta, vacillante, fondamentale come quella alimentare. Provare per credere, il libro è breve.

Verrebbe voglia di leggere l'autrice su un'opera più ampia e su un simile tema, e non tanto perché brevità o lunghezza di un'opera siano garanzia di qualità, ma perché questo tema sembra pronto a sprigionare verità e succhi gastrici tutti da analizzare, nella prosa di quegli scrittori che sapranno masticarlo, digerirlo ed espellerlo. Helena Janeczek in passato ha già dato prova di sapere scavare su zone e note lasciate inesplorate dalla solfa dominante della letteratura contemporanea. E in fin dei conti, le basterebbe riprendere il filo iniziato proprio con Cibo, uscito da Mondadori ormai undici anni fa, e che in appendice conteneva questo scritto con il titolo già ricordato. Poi è arrivato Il Saggiatore, la Biblioteca delle Silerchie, il Burri Rosso del 1953 in copertina, il nuovo titolo: ecco un nuovo libro, perfetto per questi giorni, da leggere anche durante una pausa da IKEA. Anche questa è l'editoria, soprattutto se è buona, come una cosa da mangiare... 

Aveva già visto abbastanza lungo e bene Giuseppe Genna, nel mitico sito di Clarence da lui curato anni fa e fonte di ricchi spunti. Scrivendo di Cibo e di quella appendice arrivò a dire:

"Terminato il libro, Janeczek non termina il libro: scrive un'appendice che, al posto di Daniela, utilizza il reportage sulla sindrome da Mucca Pazza per mettere sul piatto la Carne: la conoscenza carnale e l'ombra dell'antropofagismo, la società del rischio e la putrefazione in vita, l'autoseppellimento e il sisma psichico, tutto - davvero tutto - viene macinato dall'idrovora di una scrittura commovente e spietata [corsivo mio]. Così si fa la Storia, così si fanno le storie: scrivendo, da grandi scrittori. O tutto o niente: tra le immense cazzate che riguardano la scrittura di genere, anche sessuale, Janeczek piazza un buco nero destinato a cibarsi di ognuna di quelle cazzate. Chi non lo capisce, e non lo capisce da adesso, è destinato a nutrire non tanto il nostro astio - siamo già stracolmi di bile -, ma le nostre onnivore fantasie, che dopo anni di fantasmi incominciano a masticare anche carne cruda e viva."

lunedì 25 febbraio 2013

da "Poesie" di Léon-Paul Fargue

Una poesia da #18


Di Léon-Paul Fargue (1876 – 1947) fatichereste non poco a trovare qualcosa. Pur essendo stato "canonizzato" in Francia con l'edizione di cui riporto sotto la copertina, Fargue è sparito dalla circolazione in Italia, e non vi è più traccia nemmeno nel catalogo dell'editore che l'ha fatto conoscere e che in fin dei conti ha contatti più o meno diretti con Gallimard. Eppure questo signore, che sopra vedete un po' corrucciato nel celebre ritratto fotografico di Man Ray, attraversa i gruppi Fantaisistes e Surrealisti, passando per la sostanziosa esperienza della rivista "Commerce", fondata assieme a Paul Valéry e Valery Larbaud. Nelle pagine di questa rivista transiterà parte cospicua della sua scrittura poetica, prima di una virata decisa verso la prosa, la quale abbraccerà gli ultimi quindici anni di vita. 
La poesia che ho scelto ha il più baudelairiano dei titoli: Spleen. Si trova nella raccolta pubblicata da Einaudi nell'anno 1981 con il titolo Poesie nella versione di Luciana Frezza. Appartiene alla raccolta Ludions. Trovo interessanti le immagini e gli accostamenti rimici, e soprattutto quel finale affidato al "cabaret du Néant". La Frezza optò per una traduzione e accoglimento di forme assai poco valdughiano (penso a una Patrizia Valduga che traduce Mallarmé) e certe scelte potrebbero far riflettere (ad esempio l'esclusione del "notre" dall'ultimo verso). Problematica anche la resa di "gironde" che potrebbe forse rimandare anche all'italiano "in carne", oltre che all'aggettivo scelto da Luciana Frezza ("avvenente"). Insomma, una poesia molto breve che però pone già qualche problema a chi la volesse portare in italiano.













SPLEEN


Dans un vieux square où l'océan
Du mauvais temps met son séant
Sur un banc triste aux yeux de pluie
C'est d'une blonde
Rosse et gironde
Que je m'ennuie
Dans ce cabaret du Néant
Qu'est notre vie.


SPLEEN


In una vecchia piazza con giardino
dove l'oceano del maltempo piazza il sedere
sopra una panchina avvilita
dagli occhi di pioggia
a causa d'una bionda
rozza e avvenente
m'annoio
in questo cabaret del Niente
che è la vita.

(Traduzione di Luciana Frezza)

sabato 23 febbraio 2013

Un ricordo per Giovanna De Angelis e del suo "Le donne e la Shoah"

Non ho mai utilizzato questo spazio per cose simili. Questo non è un necrologio (non li saprei scrivere) ed è già passato più di un mese dalla morte di Giovanna De Angelis, avvenuta lo scorso 14 gennaio. Ma l'ho saputo da poche ore, e non so bene perché ho sentito bisogno di scrivere queste righe, faccio fatica a capire cosa succede nella testa quando apprendi che una persona che credi viva invece non c'è più (forse è solo una presunzione quella di pensare alcune persone vive, se non si hanno contatti e collegamenti costanti, se non si è tra quelli che vengono avvisati in caso di morte e poi è bene che non capiamo cosa avviene nella testa in quei momenti in cui apprendiamo della loro morte...). Trovo strano pure questo "nuovo" modo di apprendere della morte di persone incrociate per lavoro o comuni interessi ai tempi della rete. Strano questo mondo di contatti fissi, interconnessione imbrigliante 24/7 e tuttavia rarefazioni potenti (incluse le amicizie) e improvvise. Strano scriversi, collaborare, lavorare assieme per qualche mese in vista di un libro da fare, magari chiudendo le mail con "speriamo di incontrarci prima o poi". A volte quest'incontrarsi capita veramente, a volte non succede e i contatti si rarefanno, a volte succede per sbaglio per i motivi più strani, a volte non succede perché la vita si interrompe. Non ho mai stretto la mano a Giovanna De Angelis, mi è solo capitato di collaborare con lei quando era alla narrativa straniera di Fazi e di sentirla spesso per email (così come le sarà accaduto con tantissimi altri dei suoi collaboratori temporanei), un paio di volte credo al telefono o con altri mezzi similtelefonici, l'ultima volta lo scorso settembre, per email, quand'era passata a Fanucci. Le scrivevo per alcune idee di traduzione attorno a Dos Passos. Per uno scambio di opinioni sulla narrativa americana era diventata un punto di riferimento per me. Ci scambiavamo talvolta idee su libri che si sarebbero potuti tradurre o altre idee su libri che necessitavano di una nuova traduzione (ricordo le sue posizioni ferme sulle traduzioni di narrativa americana dell'epoca Vittorini-Pavese). A settembre mi aveva risposto che non stava bene. Ma chiudeva la mail con una frase di cui mi ero fidato: "Ma guarirò, e faremo cose belle, ne sono certa". Ora quella risposta non può che assumere un colore nuovo. Il suo stile di lavoro in ambito editoriale, per quel poco che un esterno può percepire, mi pareva fortunatamente antecedente al grande sconquasso che è arrivato coi vampiri e con la crisi (o forse già da prima). Non comune la sua cortesia e non comune la costanza di dialogo e risposta, anche al più lontano Pinco Pallino dei collaboratori, come poteva essere chi la ricorda ora, da qui.

Giovanna De Angelis, in qualità di editor, aveva contribuito alla traduzione di tantissimi autori e titoli, concentrandosi moltissimo sulla narrativa americana. Era pure autrice di più di un libro. Con Stefano Giovanardi aveva scritto la Storia della narrativa italiana del Novecento (Feltrinelli, 2004) e, da sola, il volume più contenuto e dal profondo e silenzioso respiro intitolato Le donne e la Shoah (Avagliano, 2007). Questo libro, che nasceva dalla sua tesi di dottorato, risentiva naturalmente del filone dei gender studies. Tuttavia, allo stesso tempo, ha la grazia di quegli studi che fortunatamente restano fuori dalla camicia di forza teorica che spesso si fa indossare nel mondo universitario, dove tutto deve rientrare e ricadere sullo stesso campo, a discapito del coraggio metodologico, dell'innovazione nell'approccio e, in ultima analisi, della qualità dei risultati o fecondità euristica che dir si voglia. Questo libro pubblicato da Avagliano rimetteva in circolo la centralità delle donne nella tragedia della Shoah, proprio come in molti casi ha fatto la migliore arte cinematografica. Se il nord della ricerca di Giovanna De Angelis rimane Edith Bruck, gli altri importanti punti cardinali che orientavano il piano dello studio rispondono ai nomi di Hannah Arendt, Gertrud Kolmar (nel 2008 l'editore Via del Vento pubblicò Metamorfosi e altre liriche), Etty Hillesum (di cui Adelphi, da poco, ha pubblicato i Diari in versione integrale), Liliana Segre e Giuliana Tedeschi.

Riporto una risposta che Giovanna De Angelis diede in un'intervista dedicata a questo libro. Anche oggi possiamo dire che la Giornata della Memoria è appena trascorsa (tra l'altro è arrivata pochi giorni dopo la morte di Giovanna).

INTERVISTATORE: E' appena trascorso il 27 gennaio, Giorno della Memoria. Oggi qual è l'approccio della gente di fronte alla Shoah? Quanto è sentito il dovere della memoria?
GIOVANNA DE ANGELIS: «Penso ci sia una grandissima ignoranza per quanto riguarda i giovani. Ovviamente non per colpa loro, ma forse delle famiglie. La scuola è l'unica che costringe i ragazzi a leggere Se questo è un uomo di Primo Levi. Moltissimi giovani non sanno cosa sia la Shoah e sono dubbiosi anche sul periodo in cui collocarla. Per quanto riguarda le persone più grandi, la reazione più diffusa di fronte alla Shoah e alla giornata della memoria è la noia. Questo è un problema con il quale si confronta continuamente, attraverso riflessioni intelligenti, lo stesso mondo ebraico. La soluzione non è eliminare la Giornata della Memoria o le visite ad Auschwitz, ma trovare un modo per non analizzare e non rendere il tutto molto stereotipato. La vita è bella, uno dei film più falsificanti e irrispettosi che siano mai stati girati, ha vinto l'Oscar e viene celebrato come un'opera di genio divertente e profonda che ha dato accesso, allo spettatore comune, a temi importanti come la Shoah. Non c'è nulla di più sbagliato: la visione che veicola quel film è assolutamente fuorviante. Di fronte a un pubblico che della Shoah non sa quasi nulla, un film del genere presta il fianco a molti fraintendimenti. Trovo che sia giusto che ci sia il Giorno della Memoria e mi fa anche impressione che esista da così poco tempo. Ma bisogna continuare ad escogitare dei sistemi affinché la banalizzazione non divori quello che è stato sicuramente l'evento più tragico della storia dell'umanità».

La risposta mostrava in nuce il suo anticonformismo, quello che definirei il suo spirito (intuibile persino da alcune risposte alle mail), che immagino difficilmente conciliabile con taluni tic fastidiosi dell'editoria attuale (per il testo completo dell'intervista potete cliccare qui). Per quel che mi riguarda e tocca così tristemente, volevo ricordare Giovanna De Angelis, attraverso il suo lavoro e un suo libro in particolare. Pur non avendole mai stretto la mano, qualcosa ho imparato anche da lei: un apprendimento a distanza, per il quale la ringrazio. Lo stesso, anche adesso. Anzi, con maggior forza ora.

(Rinvio anche a questa pagina, per il più significativo ricordo dell'editore Sergio Fanucci.)

giovedì 21 febbraio 2013

Ca' dei Ricchi a Treviso ospita Giovanni Tuzet e Roberta Durante per "Tra Versi"

Non mi va più di unirmi al coro lamentoso della "morte culturale" di Treviso. Bisognerebbe definire bene "cultura", e poi un concetto spaventoso come quello di "morte culturale". Son stanco e meglio lasciar perdere. Più facile rimandare al paragone con una città confinante e dal tessuto simile come Pordenone per capire cosa si potrebbe fare in più e meglio nel capoluogo di una provincia che comunque non fa difetto di iniziative interessanti e talvolta stimolanti (forse solo disperse, malissimo coordinate e ancor peggio comunicate). Coi paragoni si sta prima e si evitano soprattutto le odiose, inutili dispute ideologiche che ci ammorbano. Coi paragoni si diventa più pragmatici. Di sicuro la governance cittadina degli ultimi decenni non ha aiutato. Pensare di limitarsi a tenere la città "dove Sile e Cagnan s'accompagna" pulita e lustra (e poco più) per le frotte di turisti dell'Impressionismo non poteva certo bastare. Ne è derivata (anche se il processo forse era già in corso da tempo) una sorta di città "bomboniera", a mio avviso, in fondo fragile anche quando provava ad alzare la voce, che a volte pare arrabbiata non si sa bene con chi... Una città incazzata coi propri fantasmi, probabilmente. Se si vuole parlare di cultura in città bisognerebbe fare un discorso ampio che coinvolge innanzitutto l'economia (compresa quella dei servizi, naturalmente) e, ancor di più, la politica. La politica che siamo anche noi, o perlomeno i residenti del capoluogo. Perché tutta questa fuffa di premessa? Perché comunque ho l'impressione che serva impadronirsi dei processi bottom-up e non soltanto di quelli che vengono dall'alto per provare a rimagliare un tessuto liso. E allora è notizia che merita condivisione questa nuova rassegna di poesia che si terrà nel restaurato spazio di Ca' dei Ricchi in Via Barberia, nel pieno centro cittadino, in quel bell'angolo con via San Gregorio. Potete trovare informazioni utili su quanto avviene in questo spazio "ritrovato" anche nel sito di TRA (Treviso Ricerca Arte). Per questo blog, la segnalazione degli appuntamenti della rassegna diventerà l'occasione per rinviare a dei buoni o ottimi libri brevi di poesia italiana contemporanea.
La formula della rassegna poetica "Tra Versi", curata dallo scatenato Marco Scarpa, prevede le presentazioni degli autori, le letture di poesie e momenti per il confronto ed il dialogo con chi verrà ad ascoltare. L’ambiente sarà informale, familiare, rilassato per facilitare l’ascolto, avvicinare colui che ascolta a colui che legge nella speranza di far trascorrere una piacevole serata, diversa dal solito.

Venerdì 22 febbraio 2013
ore 20:45
Ca' dei Ricchi, via Barberia, Treviso
"Tra Versi" - incontro coi poeti 
Giovanni Tuzet e Roberta Durante












Giovanni Tuzet è nato a Ferrara nel 1972 e vive fra Aquileia (Udine) e Milano. Ha pubblicato le raccolte di poesia 365/primo (Liberty House, Ferrara 1999), 365/secondo (Liberty House, Ferrara 2000) e 365/terzo (Raffaelli, Rimini 2010), più alcune plaquettes fra cui Male lingue (Circolo culturale Menocchio, Pordenone 2009) e Trazioni (Christophe Chomant Éditeur, Rouen 2010), oltre a diverse sillogi in riviste e antologie. È autore della raccolta di saggi A regola d’arte (Este Edition, Ferrara 2007) e ha curato il volume Simboli in versi (Editreg, Trieste 2004) nonché il n. 50 della rivista “Atelier” (2008) dedicato a poesia e conoscenza. Laureato in Giurisprudenza all’Università di Ferrara, insegna Filosofia del diritto presso l’Università Bocconi di Milano.




Da 365/terzo (Raffaelli, 2010):



sillogismo dell’unico

dice mio padre di essere un cane
vecchio: ogni giorno un dolore nuovo,
qui o là – e non ha diversi figli
ma solo me, che penso e scrivo cose

irripetibili. a questa prima
evidenza si somma un accidente:
ho un occhio che mi scappa, quando inghiotto
o sono nervoso. ad ogni modo:

se cado io, resta solo lui;
se cade lui, resto solo io.
conclusione: ancora non so dire
quanto costata è la morte di lei

-

cose che fanno la campagna:

a)  le piste polverose dove secca il fango
b)  le file di fieno e i fossi assopiti
c)  la volta di erbe vaporosa
d)  fiori e fruscii
e)  le rane e gli insetti leggeri
f)  l’alto cielo pulito
g)  i piccoli pilastri alla Vergine velata

cose che fanno la città:

a)  la lotta e l’abbraccio delle case
b)  le luci d’ogni forma e filigrana
c)  le ritmiche piazze e i cestini colorati
d)  le voci dalle torri
e)  le ore di frenetico poco
f)  i tralci spezzati nelle stanze












Roberta Durante è nata a Treviso nel 1989 ha vissuto a Venezia qualche anno per studiare Arti Visive e dello Spettacolo presso la facoltà di Architettura . Ha disegnato cartoni animati e scritto articoli per dei magazine online. Con la raccolta “Girini” vince la VI edizione del premio Mazzacurati-Russo pubblicando il libro nel 2012 (Edizioni d'if).















Da Girini (Edizioni d'if, 2012)


altra poesia a bocca aperta



se mi ci fai pensare allora penso

che il pigolio lontano qui che sento

è solo il mio pulcino nell’orecchio

(di fatto ci sarei passata sopra)

e ci avrei visto giallo e udito pio

invece se dio vuole ho ripassato

ed ho imparato a scrivere col fiato


INSTANZA


resto in piedi coi piedi 
                                    (e con le mani in mano)       
mi hai scucito le briglie ai vestitini 
                         e me ne sto precisamente nuda 
                                         (non un filo coperto)
si alza un poco la fronte 
                                    (il naso lo lascio dov'è)                         
e la mano in bocca non è la mia      
            mi tengo qualche voglia 
                                       per l'inverno
(e qualche maglia 
                          per non essere rosa carne)


martedì 19 febbraio 2013

"La poesia del giovedì" all'Osteria da Filo: Sebastiano Gatto

ATTENZIONE!
Incontro posticipato di una settimana, a giovedì 28 febbraio, 
sempre alle ore 19:00.

Riprende la rassegna "La poesia del Giovedì" a cura di Maddalena Lotter e Giulia Rusconi. Il calendario prevedeva un'interruzione in corrispondenza del Carnevale veneziano, che quest'anno è coinciso con il bianco raro della neve su calli e natanti della laguna e con l'acqua alta che ha toccato i 143 cm sopra lo zero mareografico a Punta della Salute...


Giovedì 28 febbraio 2013
Osteria da Filo, Venezia, h. 19:00
Presentazione e reading di Sebastiano Gatto
Alla chitarra: Roberto Scala
info: portalepoesie@gmail.com


Sebastiano Gatto è nato a Mestre nel 1975 e vive a Venezia. È poeta e traduttore. Ha pubblicato i libri di poesia Padre Vostro (Campanotto, 2000) e Horse Category (Il Ponte del sale, 2009). Per Amos Edizioni ha curato e tradotto Memoria della neve e Poesie complete di Julio Llamazares e Abel Sánchez di Miguel de Unamuno. Per Il Ponte del sale, assieme a Ianus Pravo, Peter Pan non è che un nome di Leopoldo María Panero. Nel 2012 per Amos Edizioni ha pubblicato il romanzo breve Le sette biciclette di César (recensito qui).














Ecco un paio di poesie dell'autore tratte da Horse Category (Il ponte del sale, 2009)


Di nuovo a portarci via il fiato,
a prendere atto di noi,
di quanto ci manca, il fianco
esibito più che scoperto.
Ancora a capire che atto sia questo,
su quale parquet moduliamo
la voce, se rumoreggia la sala
o le zanzare tra i muri di casa.
Sempre a ferirci per darci soccorso,
l'uno il gobbo dell'altro,
il cruccio che siede di fronte
ad ogni pasto.

Gennaio 2007


CASA BAGNATA


T'inviterei in questa casa bagnata,
che il peso dei muri non tiene,
né i passi che calco sulle piastrelle.
Coprono ormai il collo dei piedi
calcinacci e cocci di tegola:
sporcano e strisciano fino a far male.

Potrei staccare gli elettrodomestici
e cogliere in silenzio una preghiera:
che per una volta l'umido ceda
il suo posto al tepore, abbastanza
da farti tornare tra il muschio
e la muffa di questa stanza.


domenica 17 febbraio 2013

Jorge Luis Borges, conferenze e interviste della vecchiaia



Sarà bene prima o poi che qualcuno che conta tessa un piccolo elogio delle edizioni Mimesis. La casa editrice "di filosofia", come recitava una pagina pubblicitaria apparsa in un importante supplemento culturale, in questi ultimi anni ha registrato una virata significativa e, accanto a tante pubblicazioni di carattere universitario di grande respiro e portata, ha iniziato a ripubblicare testi importanti, spesso dimenticati. Sicuramente la filosofia è in cima alle occupazioni di Luca Taddio, uno dei principali animatori della nuova stagione dell’editore udinese, ma la letteratura e l’arte in genere (musica, cinema, arti figurative) e la speculazione estetica non occupano posizioni secondarie. In questo spazio basti ripescare certe opere riproposte in anastatica, classici inspiegabilmente divenuti introvabili, come Sesso e carattere di Otto Weininger, i due tomi de La distruzione della ragione di György Lukács, mentre in letteratura non si può tacere sui tre tomi de I Sonnambuli di Broch o i libri di Anna Seghers, letture non brevi sulle quali vorrei cimentarmi. Insomma, se prendete in mano il catalogo credo ci siano titoli in grado di soddisfare e solleticare molti di quelli che in queste pagine ritornano, oltre a quelli che ci cadono per la prima volta.

In passato ho già segnalato una collana minuscola, ricca ed economica (€ 3,90 è solitamente il prezzo "giusto" dei volumi) di questo editore. Si chiama “Minima | Volti”, una sorta di riduzione della collana-madre “Volti”, la bella ampia e ariosa collana che è quasi l'insegna dell'editore in libreria, facilmente riconoscibile dal colore nero della copertina e il taglio-occhi del filosofo-autore coperto sempre da una barra nera orizzontale. Per la sorella minore, anch'essa contraddistinta da una semplice ma efficace veste grafica, giocata soltanto sul colore, sui toni su tono e sugli allineamenti, è recentemente uscito un gruppo di tre volumi di Jorge Luis Borges, tutti curati da Tommaso Menegazzi. A proposito della veste grafica, il progetto di questa collana valga da esempio per tanti editori che si sforzano di mettere "per forza" un'immagine in copertina: non è necessario, se il budget non c'è e se l'immagine non è forte e coerente, tanto vale puntare su progetti al 100% tipografici come questo che potete vedere qui sotto, semplici eppure innovativi.

 
Se seguiamo l'ordine cronologico, il primo testo da menzionare è quello contenuto ne Il linguaggio dell'intimità (pp. 64, euro 3,90) trascrizione di una conferenza tenuta nella Spagna del 1976, vale a dire nel paese appena affrancatosi dal lunghissimo regime di Franco. L'occasione politica è soltanto uno spunto tra gli altri, in un volumetto che diventa invece una sorta di "Borges in compendio", un grimaldello delicato per avvicinare le architravi della sua opera.

La cecità e L'incubo (pp. 60, euro 3,90) sono i titoli di due conferenze argentine datate 1977. Se nella prima l'autore è chiamato a registrare il proprio contributo alla lunga storia degli scrittori ciechi illustri, conducendoci piano piano in quell'universo di oscurità al quale tanti di noi riconoscono un indubbio potenziale attrattivo, ne L'incubo l'autore-biblioteca travasa un originalissimo contributo verso questa forma peculiare di sogno, unendo e affabulando sogni celebri della letteratura e sogni personali.

Non c'è nessuno allo specchio (pp.64, euro 3,90) infine è la trascrizione di un'intervista televisiva concessa in occasione del conferimento del Premio Miguel de Cervantes del 1980, massimo riconoscimento letterario della Spagna. Per molti versi è il più stupefacente dei tre volumetti. Torniamo quindi a Madrid. Qui lo scrittore compare in grande autentica umiltà, tra affetti, debolezze e ricordi. La lettura di questa intervista potrebbe persino contrastare con l'idea che qualcuno si è fatto dell'autore de El Aleph e Ficciones, scrittore "mastodontico" e colossale, almeno per chi scrive. Il testo è continuo rimodellare, abbassare, sgrassare le domande dell'intervistatore che potrebbero spingere l'intervistato fuori strada, tra i tic dello scrittore alla moda e  consacrato. Borges invece, ormai in età avanzata,  pochi anni prima della morte (1986), ci offre in quest'intervista apparentemente permeata di uno strano understatement un prezioso cuneo per entrare più a fondo nelle sue opere maggiori, nella cecità, nell'amore, nei sogni. Questo volumetto ha in sostanza il fascino delle scritture d'occasione e minori, laddove spesso rinveniamo passaggi importanti che possono spostare alcune percezioni delle opere fondamentali.

"J. S.S.: La trovo più giovane che mai, con una pelle ancora più lucente delle altre volte.
J.L.B.: Certo, sono appena ottant'anni."

martedì 12 febbraio 2013

Karl Kraus e Shakespeare, citazione e traduzione. Intervista a Irene Fantappiè

Librobreve intervista #11

Irene Fantappiè
Sono contento di accendere per la prima volta la fiaccola della forma breve in questo blog che dalla brevità attinge e che alla brevità ritorna. Ma sono anche altri i motivi per cui trovo interessante avvicinare finalmente il nome di Karl Kraus, figura centrale per chiunque si interessi all'irrinunciabilità del linguaggio (dei linguaggi) e della traduzione per provare a "capire tutto". Non parleremo del celeberrimo libro di aforismi Detti e contraddetti e non ci focalizzeremo nemmeno in quell'antitesi di "libro breve" costituita da Gli ultimi giorni dell'umanità, opera infinita quasi per antonomasia. Cercheremo invece di illuminare un aspetto meno noto della produzione krausiana, il cosiddetto Theater der Dichtung, concentrato nella stagione della rivista "Die Fackel" e analizzato da Irene Fantappiè con grande competenza nel suo recente libro uscito da Quodlibet e intitolato Karl Kraus e Shakespeare. Recitare, citare, tradurre. Colloquiare con l'autrice, ora alla Humboldt-Universität di Berlino, rappresenta inoltre l'occasione per riprendere contatto con gli amici con cui, anni fa, feci l'esperimento della rivista daemon. Dopo Azzurra D'Agostino e la sua convincente ricerca poetica, dopo Franco Baldasso, intervistato poco tempo fa su Curzio Malaparte, ecco un'altra ospite la cui presenza qui si sostanzia anche in quel vivace periodo il cui fulcro insisteva in quella città bellissima che è Bologna. Per Librobreve, infine, un ulteriore capitolo di questa piccola antologia che tiene traccia dei bei percorsi di chi per qualche tempo è stato anche un compagno di viaggio.

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Il libro di cui
si parla
LB: Il tuo libro porta alla luce un territorio precedentemente poco noto dell'opera di Karl Kraus. Dov'è partito il progetto di questo studio? Quali le principali difficoltà?
RISPOSTA: Il libro è frutto delle mie ricerche portate avanti tra Bologna, Vienna e Londra, ma in realtà il progetto è nato nel 2006 da un lavoro di traduzione. Ho iniziato a studiare seriamente quest’autore per tradurlo ed stata un’esperienza istruttiva quanto frustrante: ha significato confrontarsi a ogni frase col fatto che questo autore tende (o addirittura si diverte) a falsificare le definizioni che potrebbero inquadrarlo. Il carattere asistematico e volutamente contraddittorio di questa scrittura è funzionale alla sua potenza distruttiva: Kraus, “genio mimico” come lo definì Benjamin, si trasforma imitando un altro autore al solo scopo di condannarlo in modo ancor più definitivo. A traduzione ultimata mi sono ritrovata d’accordo con Canetti: le ventimila pagine della rivista Die Fackel (La Fiaccola) sono una distesa di “macerie su macerie, sempre più strane, sempre più fantastiche”, che hanno in comune solo il fatto di essere prodotte dalla “furia” del “medesimo barbaro”. Eppure, a un certo punto, in questo paesaggio di rovine viene fuori un nome ‘salvato’: quello di Shakespeare. Questo mi affascinava. Mi incuriosiva un autore che, dopo aver fatto per decenni ferocemente a pezzi la sua epoca e preannunciato l’apocalisse gridando “La mia satira avrà ragione!”, poi, nel bel mezzo della guerra mondiale, ovvero proprio quando l’apocalisse arriva davvero, non grida: “La mia satira aveva ragione!”, ma:“Shakespeare sapeva già tutto!”. Per di più, Kraus era cosciente che molti avrebbero considerato il suo lavoro su Shakespeare un atto di codardia intellettuale. Aveva ragione anche su questo, tant’è che finora questo testo è rimasto sostanzialmente ignoto. In Italia come nei paesi di lingua tedesca l’opera di Kraus è stata spesso recepita come una piccola Bibbia del cinismo da cui trarre versetti, eppure questo scrittore ha trascorso i suoi ultimi vent’anni a lavorare su Shakespeare e sulla grammatica.

Una copertina
di "Die Fackel"
LB: Tutto parte e tutto ritorna continuamente, nel tuo studio, al binomio citazione-traduzione all'interno del lavoro di montaggio e smontaggio compiuto da Kraus sulle traduzioni da Shakespeare. Potresti spiegare quali sono i momenti chiave di questi "movimenti" che danno vita al lungo progetto del Theater der Dichtung ?
RISPOSTA: Un momento chiave è il maggio del 1916. Siamo nel pieno del primo conflitto mondiale, proprio durante l’“inferno di Verdun”. A Vienna, nelle redazioni dei giornali e intorno ai tavolini dei caffè, si inizia a comprendere che il crollo dell’Impero Austroungarico è una possibilità tutt’altro che remota. Kraus, che negli anni precedenti aveva condotto una campagna feroce contro l’entrata in guerra, sorprende il suo pubblico leggendo a teatro i buffi malintesi della commedia shakespeariana Love’s Labour’s Lost. È il primo atto di un progetto ventennale di letture teatrali e riscritture di Shakespeare, appunto il Theater der Dichtung (Teatro della poesia). In una lettera all’amata Sidonie Nádherny scrive: “La stupidità del mondo rende ogni lavoro – escluso quello su Shakespeare – impossibile”. L’altro momento chiave è il 1934, anno dell’uscita in volume delle riscritture krausiane dei drammi di Shakespeare. Queste “rielaborazioni” hanno una particolarità: sono in realtà montaggi di citazioni. Kraus crea il suo Shakespeare prendendo le più celebri traduzioni tedesche d’epoca romantica (soprattutto la versione di Schlegel) e smontandole in frammenti, che poi raffronta tra loro e riassembla in un mosaico originale composto da materiali di seconda mano. In questo senso citare e tradurre si dimostrano due operazioni possibilmente affini. Inoltre, se nel primo Kraus la citazione era quasi esclusivamente strumento di satira, con il lavoro su Shakespeare diventa un gesto per preservare il proprio patrimonio culturale dalle offese della Storia. 
The bard
LB: Shakespeare. Un classico. Eppure sembra che talvolta passi in secondo piano, che "incida" meno di altri classici. Forse è solo una mia impressione. Credi che l'operazione di Kraus sia anche essenziale al recupero di questo gigante?
RISPOSTA: Certamente sì. In realtà nella Vienna d’inizio Novecento Shakespeare non ha alcun bisogno di essere recuperato: è un autore assolutamente centrale, sicuramente più di quanto non lo sia oggi in Italia (concordo). L’operazione di Kraus è finalizzata al recupero di uno Shakespeare, appunto quello delle traduzioni tedesche fatte da Schlegel un secolo prima, in opposizione al nuovo Shakespeare delle raffinate messe in scena dei suoi tempi. Kraus lascia il testo originale inglese quasi completamente in disparte: Shakespeare gli interessa come “autore tedesco”, ed è per questo che non si cura – e anzi paradossalmente si vanta – di non sapere l’inglese. Quel che gli sta a cuore è, come ha scritto Benjamin,“riportare la situazione borghese-capitalistica ad una forma passata che non ha mai avuto”, per mezzo del recupero della lingua dei romantici e della valenza universale del gesto scenico shakespeariano.
Karl Kraus
LB: Ogni autore sceglie i propri precursori. In che modo Kraus sceglie il suo Shakespeare per trasformarlo quasi in una sinfonia d'aforismi, di "forme brevi", tra l'altro proprio nel momento in cui, nel pieno della Grande guerra, è alle prese con quell'opera sterminata che è Die letzten Tage der Menschheit?
RISPOSTA: L’ammirazione di Kraus per Shakespeare deriva in parte dal ruolo svolto da quest’autore tra Settecento e Ottocento nel processo di costituzione dell’identità culturale tedesca. Shakespeare assume per Kraus una ulteriore doppia funzione: da una parte è una sorta di enciclopedia del reale, il “carnevale di tutte le azioni”, dall’altra è il minimo denominatore del mondo poiché esprime ciò che del mondo non muta. In questo senso Kraus afferma che “Shakespeare sapeva già tutto”. A fronte di questa sconfinata ammirazione, è interessante la completa assenza di rispetto filologico per il testo del maestro. “A Shakespeare bisogna sottrarre Shakespeare”, scrive Kraus, che sottopone i drammi del Bardo a un editing spregiudicato, eliminando tutte le parti da cui si evince lo sviluppo della trama; rimangono solo i brani – ad insindacabile parere di Kraus – più riusciti. Così Kraus trasforma Shakespeare in una collezione di “perle”, di cammei senza tempo, di frammenti che spesso diventano aforismi; e sostanzialmente lo rende simile alla sua stessa opera, che è come una “muraglia cinese”di frammenti giustapposti. Negli stessi anni, non a caso, Kraus lavora ai ben più celebri Ultimi giorni dell’umanità, opera che consiste anch’essa in buona parte di materiali preesistenti; sia questa pièce teatrale che il Teatro della poesia rielaborano il passato decostruendolo in frammenti e ricostruendolo secondo una diversa struttura.

LB: In quale accezione Kraus pensa al tedesco, la lingua da cui riparte per avvicinarsi a Shakespeare, come lingua straniera?
RISPOSTA: I criteri con cui Kraus giudica la letteratura e il teatro del suo tempo si rifanno ad un preciso momento storico della cultura tedesca: il romanticismo, che è il punto di fuga utopico del suo canone letterario e culturale. Di conseguenza la lingua tedesca contemporanea può risultargli una lingua straniera, più straniera di quella di Shakespeare che pure non conosceva. Kraus ha addirittura tradotto dal tedesco al tedesco, volgendo ad esempio le ampollose espressioni del giornalista berlinese Maximillian Harden in un tedesco sobrio. Queste satire fatte per via di citazione vengono denominate proprio Traduzioni. Inoltre, Kraus traduce le traduzioni, ad esempio le versioni rilkiane dei sonetti francesi di Louise Labé che vengono rovesciate così da sferrare un attacco alla lingua del traduttore e poeta.
Walter Benjamin
LB: Il suddetto portante binomio di citazione e traduzione s'allarga a macchia d'olio a innumerevoli altri casi della letteratura del Novecento. Vorresti ricordarne alcuni?
RISPOSTA: Un caso significativo è Uomini tedeschi di Walter Benjamin, quasi contemporaneo al Teatro della poesia. La raccolta di lettere di grandi uomini tedeschi data alle stampe nel 1936 non contiene scritti di Benjamin eppure è una delle sue opere più personali e più audaci. Adorno sostiene che sia una delle più compiute manifestazioni del suo pensiero: montando materiali che parlano da soli Benjamin intende riportare alla luce una tradizione tedesca sotterranea, quella tradizione che il nazionalsocialismo stava degradando a semplice ideologia. Ma nel Novecento il binomio citazione-traduzione non è solo una delle strutture portanti della creazione letteraria, è anche soggetto letterario esso stesso. Penso al Pierre Menard dell’omonimo racconto di Borges, che traduce il libro di Cervantes citandolo ovvero ricopiando le parole del Chisciotte – parole che, pur rimanendo uguali a loro stesse, si caricano di altri significati. L’arguto paradosso di Borges è a mio parere anche una riflessione metaletteraria sul possibile carattere traduttivo della citazione e sul possibile carattere citazionale della traduzione.
La corrispondenza
Celan-Sachs
LB: A lungo ti sei occupata di Paul Celan e la sua figura ritorna anche in questo tuo ultimo studio. Come?
RISPOSTA: Da Celan – di cui negli anni scorsi mi sono occupata specialmente in relazione a Nelly Sachs – in realtà ho solo preso in prestito, del tutto arbitrariamente, parole che a mio parere esprimono benissimo quel processo di ricerca e di avvicinamento di figure degne di essere tradotte, citate, “mimate”; quel tentativo di riallacciare i fili sottili che ci legavano ai maestri e che adesso, in un presente che non sentiamo più nostro, vediamo spezzati. Celan, traduttore di Osip Mandel’stam, in È tutto diverso (cito la traduzione di Ida Porena e rimando a Vita a fronte di Camilla Miglio) immagina un ‘incontro’ attraverso la traduzione che ricrea una perduta simbiosi tra epoche, tra parole, addirittura tra corpi, “gli stacchi le braccia dalle spalle, il destro, il sinistro, / attacchi le tue al loro posto, con le mani, le dita, le linee”. Eccolo lo Shakespeare del Teatro della poesia: ha “le dita, le linee” di Kraus, della sua lingua madre (il tedesco dello Shakespeare tradotto da Schlegel), e allora finalmente “ciò che era strappato si rinsalda – eccoli, prendili, li hai tutti e due, / la mano, la mano, il nome, il nome”. Il nome ora è doppio: è stato ripetuto tramite la citazione e la traduzione, è stato traslato, e ora – divenuto “di seconda mano”, identico e non più identico a se stesso – non è più soltanto altrui, è anche proprio. Citazione e traduzione sono un modo per costringere i maestri a venirci di nuovo incontro. E’ così che Kraus ritrova Shakespeare e Schlegel, a fronte di un presente perduto, in un’Austria che negli anni Trenta si sente improvvisamente orfana del proprio passato e che non tarderà ad intrecciare le sue sorti a quelle della Germania nazista.

sabato 9 febbraio 2013

"Geologia di un padre" di Valerio Magrelli

Feci il mio primo viaggio in aereo all'età di sei anni, destinazione Treviso. Che spedizione insensata: partii con mio padre per visitare una fabbrica di caldaie! Io che c'entravo? Niente. Fatto sta che il biglietto era pagato, e lui mi porto con sé.
Mi fece tenerezza, sin da allora. E la noia di tutte quelle spiegazioni, che i tecnici ci inflissero davanti a centinaia di termostati... Poi ancora il pranzo, sempre spaesato, sempre accanto a lui. Infine ritornammo, così come eravamo partiti. Fu il mio battesimo dell'aria, insomma: caldaie a Treviso.”

Quello che avete letto è, nella sua interezza, il paragrafo numero 75 di Geologia di un padre di Valerio Magrelli (Einaudi, pp. 146, euro 18), un libro costruito con frammenti di memoria, appunti, lacerti e scene di vita più o meno affollate, un tentativo riuscito di restituire con una prosa che sa di nuovo l'orografia e l'idrografia di una vita, le formazioni rocciose, le eruzioni (molto bello il paragrafo sul pianto del figlio ricoverato in ospedale, dopo la visita del padre). Il sismografo di Magrelli registra 83 paragrafi-scosse, simili a quello che ho deciso di pescare per una semplice ragione geografica. Il titolo riporta chiaramente la parola “geologia” anche perché c'è un continuo rimando alla terra (anche quella della sepoltura, soprattutto nelle prime pagine, l'esperienza dell'autore tra le tombe in contrapposizione al "Piano Oceano" di Shanghai che prevede lo spargimento in mare delle ceneri: ancora una volta terra e mare, in contrapposizione). "Geologia" perché il percorso di restituzione in scrittura del padre Giacinto Magrelli, recentemente scomparso, avviene a strati, scavi e carotaggi, ora delicati spolverii ora decisi affondi di pala, che nulla hanno a che vedere con un normale ordinamento temporale, à rebours o in avanti. Eppure la geologia rimanda chiaramente a un tempo, anche se quasi sempre a un tempo lontanissimo, percorso in profondità, verso il centro della terra o verso le vette delle montagne, dopo essere passati tra conoidi delle deiezioni, e si intreccia non di rado con la paleontologia, la disciplina che continuamente ridefinisce la parentesi umana e il cervello, uno dei tanti inquilini del "condominio di carne". I paragrafi allora, tanti quanti gli anni vissuti dal padre, si configurano come quegli elementi che in archeologia compaiono dopo lo scavo in una posizione saliente, e nel loro stare ritti, "in piedi", protuberanti o sporgenti, portano informazioni aggiuntive, forse. Anche se potrebbero ingannare, come qualsiasi segno. Nello scavo però ogni posizione e ogni orientamento potrebbero avere un preciso significato, visto che sono comparabili a una restituzione (nello spazio) del tempo in cui sono stati sepolti e nascosti sotto forma di una postura o posizione appunto. Credo possa essere uno dei tanti parallelismi e circuiti che si possa innescare con la lettura di questo libro per certi versi indefinibile, ma che proprio per questa inclassificabilità dice anche delle possibilità (o non possibilità) del romanzo, così come l'abbiamo conosciuto finora. Non stupisce allora la scelta di pubblicare all'inizio del libro una serie di disegni del padre, ingegnere che scopriremo legato a doppio mandata con un'architettura borrominiana (bellissimi anche i paragrafi sul Borromini), intitolata L'uomo di Pofi, dai resti di quell'uomo risalente a circa 400 mila anni fa rinvenuti in Ciociaria, luogo d'origine del protagonista di queste pagine.

E poi ritorna la geologia poiché le scoperte (la scrittura) non avviene in un senso ordinato, ma per guizzi di ricerche e di scavo. Si presti attenzione poi allo stesso titolo, dove è impiegato l'articolo indeterminativo: non "mio padre" o "del padre", bensì "di un padre". Come se questo "prestito" disciplinare e metodologico dalla geologia fosse applicabile ad altre persone e come una presa di distanza dallo smaccato autobiografismo. Quando si affronta Magrelli bisognerebbe pensare a un certo fallimento dell'umanesimo e delle lettere. Nulla di drammatico, non fraintendete: un fallimento in fondo felice, necessario, che l'autore ha fatto proprio quasi con serenità e dal quale sembra ripartire, spesso sotto la luce di episodi di pensiero accaduti ad esempio in Paul Valéry o in altre intelligenze presupposte da altre arti, quelle figurative ad esempio, le arti davvero "intelligenti" secondo Valéry. Nella geologia uno spazio e un tempo quasi sempre smisurato e spaventevole si saldano, per un po'. Già in Ora serrata retinae, Magrelli annotava, in una sorta di ricognizione sul sé: "Soltanto il tempo veramente scrive / usando come penna il nostro corpo. / Per le strade, nei cinema o in un letto / questa calligrafia va persa / ed è atroce l’incuria  / degli dei e degli uomini. / Quello che arriva sulla carta è solo / il commento residuo d’un poema / perennemente disperso. / Chiosa frugale, calco d’un racconto,  / questo è l’indice ultimo degli indici."

Già mi è capitato di ricordare Giuseppe Caliceti, che in Pubblico/Privato 0.1 annotava: "Da alcune settimane ho la sensazione che tutti i giorni, i mesi, gli anni che ho vissuto e vivrò dopo la morte di mio padre siano una specie di regalo che mi è stato concesso, un indecifrabile tempo supplementare". Chissà se Caliceti immaginava i tempi supplementari "normali" o quelli della "sudden death" o "golden goal" (brutti ricordi per gli italiani...). Immagine calcistica che sembra validarsi da sola e che faccio carambolare non a caso in Magrelli, che pochi anni fa ci aveva raccontato del calcio, di quello sport che a volte sembra vegliare e proteggere intere famiglie, in quell'opera intitolata Addio al calcio che oggi sembra porsi come punto di raccordo tra questa storia e questa scrittura e ciò che leggemmo nel 2003, quando Magrelli esordiva in narrativa con Nel condominio di carne, opera che resta a mio avviso la sua più bella. In altre parole sembra profilarsi ormai decisamente un percorso del Magrelli narratore. Se in quel primo sorprendente libro del 2003 il poeta procedeva ad uno scandaglio degli umori tra le fibre del corpo, oggi l'operazione compiuta (ma per forza di cose, ontologicamente, incompiuta) sul padre appare inserita in quel solco che dice ormai, sempre più, della difficoltà di concepire un romanzo così-come-lo-conoscevamo, un romanzo della vita che sopporti e sia supportato da una pressoché univoca manifestazione di un sé. Agendo sui salienti, sulle sporgenze e sulle protuberanze del suo sito archeologico e geologico, del suo sito biologico nel caso del primo libro, Magrelli si sgancia da tutta una tradizione biografica e autobiografica che potrebbe condurre ad un nulla di fatto. E allora dove ci conduce Magrelli attraverso gli 83 paragrafi-anni del padre Giacinto? Sembra essere il primo a non saperlo fino in fondo, per questo ricorre alla "geologia" nel titolo. Così, la linea di faglia della sua scrittura, di difficile e incerta individuazione tra poesia a arte figurativa (a costo di ripetermi, ricordo nuovamente le pagine romane sul Borromini), si situa, in questo libro importante, all'altezza di un ripensamento della scrittura stessa, "geologicamente" intesa. Perché è qui un punto fondamentale che Magrelli sfiora: quale posto rimane alla scrittura? La risposta sul perché scrivere sta allo stesso livello della risposta sul come scrivere? Quale specificità rimane al gesto di scavo e di analisi quando paragonato ad altri gesti artistici? Rintraccio qui, in questo tentativo di risposta concreto, uno degli esiti più duraturi di questa nuova prova di Magrelli, di questa apparentemente non lineare relazione stratigrafica sul padre. Lo possiamo registrare anche come tentativo di ripercorrere una distanza geologica e non genealogica, che procede con la direzione di quella cosa ardua da avvicinare e sorpassare che è la memoria. Lo sapete anche voi che è una direzione talvolta non rappresentabile, com'è l'esile traccia di un aroma di caffè (non necessariamente, anche stavolta, in una cornice proustiana, con buona pace dei famosi biscottini).