Un artista, il più grande fotografo d'Europa, diviene egli stesso opera d'arte dopo la morte. Ciò avviene tramite un processo di plastinazione attuato dal Dottor Tulp (proprio come il dottor Nicolaes Tulp del quadro "Lezione di anatomia" di Rembrandt). Giada, colei che fu la sua compagna (e non moglie come penseranno in tanti in questa storia), trascorre trenta giorni in visita nella sala in cui il corpo plastinato è esposto al passaggio di visitatori, giornalisti, critici d'arte e alla sua dolente e tuttavia mobile e laboriosa presenza, fatta di imbarazzi, riguardo, attenzioni plurime, arrabbiature, incontri. Potrebbe essere sintetizzato anche in questo modo Guasti, convincente romanzo d'esordio di Giorgia Tribuiani pubblicato da Voland (pp. 128, euro 14). Una sorta di diario e conto alla rovescia diventa allora il resoconto della protagonista, che nel piano del testo livella discorso diretto, discorso indiretto e punto di vista ondivago del narratore per trenta capitoli abbastanza brevi che procedono appunto alla rovescia, da 30 all'ultimo capitolo 1. L'occhio e l'orecchio del lettore inizianeranno presto a familiarizzare con il gioco di piani e incastri che Giorgia Tribuiani ha costruito lavorando anche negli interstizi minuti del testo (ad esempio, parlando di punteggiatura, troverete molti punti mancanti). Ma al di là della sinossi e di qualche annotazione su una prosa che non cade, va detto subito che quello che l'autrice sa fare in un numero di pagine contenuto è disporre in modo suggestivo un novero di questioni primarie che vanno dall'elaborazione del lutto al rapporto di coppia che diventa esposizione, da determinate situazioni che toccano logiche del sistema dell'arte contemporanea alle dinamiche di quella comunicazione che ci ostiniamo a chiamare giornalismo, incluso quello "culturale". Va da sé che un romanzo così tratteggiato rimanda inevitabilmente al nostro rapporto col morire e quindi col corpo, ma è qui che non ha senso anticipare troppo. Ce n'è davvero abbastanza per un romanzo breve, il quale per giunta pensa sé stesso - o immagina la propria trama - più come un susseguirsi di momenti speculativi, di personaggi evocati con grande economia di tratti decisivi ed è trascinato verso la fine e quindi verso un significato della fine da una cornice temporale che progressivamente si assottiglia, proprio come le pagine che rimangono da leggere nella parte destra, se stiamo leggendo l'opera su carta.
E se Giada è presenza costante di queste giornate, divisa com'è tra pastiglie che sciolgono l'ansia, ricordo di una vita assieme fatto di dialoghi col morto lì esposto, commenti fastidiosi dei visitatori, incursione in bagni guasti, l'insistenza delle persone che credono lei e il fotografo "sposati", c'è una presenza che appare sin da subito meno transitoria in questo flusso. Si tratta del vigilante del piano di sotto, anche lui responsabile del movimento in avanti - che a conti fatti, come detto, è un movimento all'indietro dei capitoli - di questa storia verso la propria fine. Perché le storie, si sa, hanno una fine e ciò che questo libro sa porre in prospettiva è una ridda di domande sul morire, sul fotografare, sul fare arte, sul ricordare, sul mostrare. Guasti, titolo che è sostantivo tanto quanto aggettivo, ha la grazia leggera di un'opera d'esordio che nasce tutta all'interno di un concetto compiuto, soppesato e distillato eppure aperto a letture, evocazioni e interrogazioni plurime. Questa concezione favorisce un coordinamento e un'unità di lingua, ritmo e visioni che si svolge con carattere persuasivo fino alla fine del centinaio di pagine e per tutti i trenta capitoli. E se l'autrice allude a questioni in fondo disperate calibrando la propria tastiera, avvicinandosi e accarezzando il macabro senza ostentarlo, c'è un immaginario ormai plasticale pienamente compiuto che viene a galla nel mare di questo libro, con tutto il carico di irrequietezza. Ma ci sono anche interrogativi sul come si ama una persona e sul carattere distruttivo di questo sentimento e - non da ultimo - su quel sentimento altrettanto centrale che risponde al nome di gelosia (e qui ritorna centrale il personaggio del vigilante). C'è solo una nota che mi pare stonata in questo libro d'esordio davvero bello. Mi riferisco alla copertina, non tanto al disegno in sé che senz'altro ha la propria dignità, ma alla capacità del visual di catturare e veicolare almeno una piccola parte del novero di spunti importanti che questo libro ha saputo allocare. Certo, vi è una citazione di Lucio Fontana, se vogliamo vederla. Ma mi sembra alla fine che una copertina simile non faccia esplodere la spinta intrigante che sta a monte di Guasti.
Visualizzazione post con etichetta Voland. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta Voland. Mostra tutti i post
domenica 29 luglio 2018
"Guasti" di Giorgia Tribuiani
On parle de:
Giorgia Tribuiani,
Guasti,
Voland
mercoledì 2 aprile 2014
Marina Cvetaeva e i taccuini 1919-1921: "Una donna per bene non è una donna"
Quote #2
"To repeat or copy the words
of another, usually with acknowledgment of the source." Questo il verbo
"to quote". Ma in italiano "quote" è il plurale di quota, parola che mi
interessa soprattutto nel senso della misura di un'altezza o di un lato.
Citando e contestualizzando minimamente passi importanti, cerco un modo
assai svelto di dar notizia di libri significativi, possibilmente
brevi. Stando breve, pure io.
L'altro giorno mi stava cadendo l'occhio su un titolo bellissimo. Intendo proprio il titolo, perché il libro non l'ho poi nemmeno sfogliato: Scrivere lettere è sempre pericoloso, ovvero la corrispondenza Bishop-Lowell pubblicata da Adelphi. Marina Cvetaeva non scriveva soltanto lettere dalla trappola per topi gelata della Mosca degli anni 1919-1921. Ne abbiamo una traccia in questo libro intitolato Taccuini 1919-1921, il quale propriamente breve non è (ma nemmeno tanto lungo, a dispetto della mole), che tuttavia io leggo come se lo fosse, a salti, e che ha pubblicato da poco Voland (pp. 432, euro 20, traduzione e cura di Pina Napolitano). Qualche anno fa quest'editore aveva proposto nella collana di "traduzioni d'autore", per la cura di Serena Vitale, un libro di lettere (quello sì assai breve) che ancora oggi mi sento di consigliare senza freni: Le notti fiorentine. Questi taccuini costituiscono il settimo e l'ottavo di dodici quaderni. Il volume è corredato di un quasi necessario apparato iconografico, il quale non ha comunque fatto schizzare verso l'alto l'asticella del prezzo di copertina. E ritorna in questi Taccuini la dimensione di più grandiosa modernità di questa scrittrice che finì la vita impiccandosi a Elabuga, nell'ultimo giorno di agosto del 1941, quella stessa dimensione che appare più in vista in libri quali Il paese dell'anima e Deserti luoghi. Quando dico che tengo questo tomo come una sorta di libro breve è perché lo immagino come un breviario della sua anima, di tutte le cose che la Cvetaeva ha scritto diverse dalla sua poesia. In queste pagine troverete il freddo che entra nelle ossa, ma anche la primavera che poi arriva, le giornate distillate, una città e la sua gente. Una casa. E poi la figlia Alja, le persone incontrate, amici, tra annotazioni, liste dei prezzi dei beni di prima necessità, unità di misura, persino i ripensamenti su singole parole usate.
Qualche quotes da questo libro, pardon, da questo breviario:
Copertina del taccuino 8 |
– “Signori! Vivete con la lettera maiuscola!” (Mia madre prima di morire disse: “Vivete secondo la verità, bambine, – secondo la verità!” – Com’è nebuloso! – La verità! – Non uso mai questa parola. – Verità! – È così squallido – misero – poco allettante!– “Vivete con la musica” – oppure – “Vivete come davanti alla Morte” – oppure – semplicemente: – “Vivete!”
--
La Luna ha un raggio solo. La Luna è tutta raggio. La Luna è tutta becco, il Sole tutto coda (un pavone.)
--
Il campo del sesso è l’unico in cui non sono precisa.
--
11 maggio 1920, vecchio calendario – lunedì.
Un solicello sul mio tavolo. Il tavolo è pulito, ordinato. La mia vita: far mangiare Alja e spedirla via, e poi scrivere. Nessuna attività pratica.
Oh, Blok, che avanza lentamente nella rugiada mattutina dietro l’aratro! Com’è commovente – e come non è credibile! Io, evidentemente, non amo la natura con passione, sebbene mi senta venir meno per ogni alberello. Se avessi un alberello mio, probabilmente lo amerei come una persona. Ho bisogno di un rapporto, di un legame vivo, la natura invece – per quanto la si ami – non risponde. Per lei è lo stesso – che sia io, o un’altra qualsiasi donna. – Non puoi stringerla tra le braccia!
– E non c’è niente di più terribile che il senso di svuotamento che segue un intero giorno all’aria aperta. Non riesci a riprenderti. E ogni cosa bella – fa male!
Je suis faite pour les plaisirs d’une société honnête, l’amitié de quelques amis choisis et l’amour unique et merveilleux de quelque gentilhomme beau de visage et haut d’esprit.
– Mi consolo con delle sciocchezze! –
In generale, da quando ho incontrato NN ho perso molto del mio brio. È una cosa così nuova per me – l’avevo a tal punto dimenticato – essere non amata!
--
Dal taccuino di viaggio:
Non dormire insieme – dormire insieme. (Tutto il tragitto dell’amore.)
On parle de:
Marina Cvetaeva,
Pina Napolitano,
Quote,
Taccuini 1919-1921,
Voland
sabato 4 maggio 2013
Matteo Marchesini e gli "Atti mancati"
Non ha bisogno del mio irrilevante endorsement Matteo Marchesini, recente candidato al Premio Strega. Che talento vero di scrittura non manchi a questo poeta, critico e ora narratore (dopo un libro di racconti, ecco qui il primo "romanzo", parola virgolettata per i motivi che andranno a chiudere questo mio intervento) è fuori di dubbio se si scorre la sua prosa. Penso anche al suo recente saggio dove mette in riga cinque figure chiave del Novecento: Savinio, Noventa, Fortini, Bianciardi e Bellocchio. E comunque altri, ben più dotati e navigati, hanno sottolineato il talento. Il fatto che però tutti i nostri valenti big, da Goffredo Fofi a Massimo Onofri, da Giorgio Manacorda a Filippo La Porta, assieme ai loro discepoli, inseriscano, quasi pedissequamente ormai (sono ammesse leggere variazioni sul tema), la postilla "il più interessante della sua generazione" ogni volta che ne scrivono non è poi il massimo della vita e della critica, non è nemmeno il massimo per i loro generosi lettori e in fondo neanche per Marchesini stesso. Proverò comunque a dire perché questo libro possa diventare una lettura (quella sì) rilevante per le persone della nostra generazione. Non solo per noi, ma anche e soprattutto per noi, direi molto più per noi che per le generazioni di succitati big nati tra il 1937 (Fofi) e il 1961, anno di nascita del più giovane e sempre interessante Onofri. Il motivo di questa premessa è però presto riassunto: se esiste ancora una funzione della critica legata a scelte qualitativamente discriminanti, rincorse anche mediante stratagemmi che servono a creare rotture di continuità o a smuovere acque stagnanti, non si capisce il perché di questo sostanziale appiattirsi di formule critiche coagulate attorno a questo giovane autore. Tali stratagemmi della critica, banalizzati e ridotti all'osso, ricorrono generalmente all'innalzamento/lode di nomi poco noti ove non del tutto sconosciuti o, al contrario, al ridimensionamento/stroncatura di nomi più noti o largamente noti. Riconosco che questo mio dire è un banalizzare, ma semplifica molti meccanismi della critica attuale e passata. Il fatto che però dovrebbe tranquillizzare tutti è che con Marchesini non siamo davanti né a uno sconosciuto sprovveduto né tantomeno al già avvenuto riconoscimento di un nuovo Savinio. Quindi suggerirei rilassamento, positivo rilassamento, un po' di ragionevole calma, per tornare all'opera, al "romanzo", alla scrittura, e per provare a interrogarci se queste formule critiche stiano giovando davvero al percorso di questo trentaquattrenne. In fondo la critica è (sarebbe) qualcosa di troppo importante per rasentare questo conformismo di formule.
Il nome di Marchesini a più di qualcuno ricorderà collaborazioni radiofoniche con Radio Radicale, poesie e pagine di critica sempre accese sulle pagine di quotidiani importanti, dall'edizione bolognese del "Corriere della Sera" a "Il Foglio" dove ritrova il "suo" Berardinelli, passando per "Domenica" de "Il Sole-24 Ore" dove scrivono talvolta La Porta, Fofi e Paolo Febbraro, come Marchesini vicino a Manacorda da lunga data. Ho letto Atti mancati (Voland, pp. 128, euro 13) con la curiosità che si dedica al primo romanzo di una persona che per qualche tempo della propria vita si è intercettata, pur da lontano e a distanza di sicurezza (ricordo con piacere l'omaggio delle poesie del suo I cani alla tua tavola, alcuni anni fa, per mezzo delle riviste "daemon" e "Atelier", dove avevamo amici in comune che oggi sarebbero più flebilmente consegnati al reticolo di Facebook), distanza/isolamento forse simili a quelli ricercati dal protagonista prima dell'irrompere sulla scena di Lucia. Ed è per questo che arrivo oggi a parlarvi di questi Atti, che in prima battuta mi hanno fatto sorvolare, di converso a quello che dirò tra poco, sopra ad altri atti, da quelli "linguistici" di Austin (quando si fa qualcosa con le parole, come quando qualcuno proclama/dichiara qualcuno o qualcosa), a quelli "impuri" della tradizione cattolica a quelli bellissimi e fusi in una sola parola, Atimpuri, di Luigi Meneghello. Ho forse il vizio di dare troppo peso ai titoli, pensando che con questi l'autore, il suo editore o il suo editor aprano brecce giganti sullo scalcinato muro della prosa contemporanea (quest'ultimo non sia inteso necessariamente come un giudizio di valore). In psicanalisi, apprendo aprendo una generosa Wikipedia, l'"atto mancato", detto paraprassia in ambiente britannico, coincide con un errore d'azione, laddove si vorrebbe fare un'azione e se ne compie un'altra, "guidati" dall'inconscio. A suo modo, anche il celebre lapsus linguistico è un atto mancato. In ambiente germanofono, nella lingua di Freud in sostanza, suona più come "azione difettosa", manchevole di qualcosa. E in effetti pare vivere in questa dimensione Marco, il trentenne protagonista di queste pagine, persona che si è progressivamente isolata (di sé dice: "Non ricordi nemmeno più quando ha preso piede in te questa necessità di limare, escludere, cancellare tutto: rapporti, viaggi, imprevisti quotidiani") e che al momento del ciak della macchina da presa della narrazione vive di quella professione di free lance della cultura ("un lavoro che non ha orari e quasi non ha gesti, asettico, ripulito da ogni sgradevole contatto umano") qui quasi assurta a simbolo di una parte di una generazione, che è poi la stessa alla quale appartengo (Matteo Marchesini è nato nel 1979 a Castelfranco Emilia). La mia convinzione è però che questo non sia l'ennesimo romanzo troppo debitore della psicanalisi. "Atto" e "azione" hanno fondamento comune nel latino "agere", eppure c'è un abisso - lo stesso che sembra ibernare la nostra generazione in quest'epoca - tra azione e atti. Forse siamo protagonisti di azioni, ma non di atti. Il mio pensiero sul titolo, in altre parole, è che rischiamo di (non?) passare alla storia per la generazione degli atti mancati, dei gesti normali intrecciati a quelli inadeguati e difettosi, in uno scoordinamento non più correggibile: forse una moderna edizione delle "occasioni" montaliane e magari, come generazione, abbiamo soltanto inaugurato una stagione.
A muovere questo romanzo d'esordio è un quadrilatero di relazioni, elemento geometrico innovativo rispetto al tradizionale ménage à trois, a maggior ragione se consideriamo che un punto di questa figura non agisce, in quanto è già morto, anche se forse il suo agire in absentia è massiccio e di peso. Marchesini poi sembra avere tatuata sull'iride dell'occhio la mappa dei luoghi e delle vie che descrive, nominate con ossessività che diventa via via rassicurante. (A dispetto di una bella copertina con un parabrezza coperto da gocce di pioggia pronte a essere spazzate dal tergicristallo, non ho avvertito una caratterizzazione meteorologica forte in questo romanzo, sensazione che ho registrato come misteriosa mancanza.) Sono davvero decine e decine le vie di Bologna nominate e le strade che conducono Marco e Lucia fuori dalla città, verso l'Appennino, all'interno della Micra di lui, quando incomincia una rincorsa affannosa al passato del loro fidanzamento, interrotto da una fuga di Lucia (sintomaticamente Le donne spariscono in silenzio è il titolo di un libro di racconti dell'autore), cinque anni prima del suo ritorno in scena. Lucia riappare durante la consegna del premio "Bolognino d'oro" a Bernardo Pagi, uno dei punti del quadrilatero, maestro di Marco e conoscenza comune. Marco è chiamato a coprire la cerimonia con un pezzo di cronaca culturale e da qui prende avvio il libro e un periodo di nuovi incontri tra lui e Lucia, di dialoghi zoppi, di glaciale tenerezza e di nuove scoperte, laceranti e decisive come la cicatrice che compare ad un certo punto sul corpo di Lucia. Lacerante è anche il ricordo riaffiorante di Ernesto, amico comune che ha trovato la morte in un incidente, in una delle tante strade che avviluppano una Bologna inspiegabilmente labirintica eppure priva di Minotauro, anche se la presenza di Lucia potrebbe essere ricondotta, in un goffo tentativo di critica "mitologica", ad una moderna, enigmatica e malata Arianna. Lucia aveva provato attrazione per Ernesto e la sua fuga si colloca dopo il mortale incidente, avvolto in circostanze misteriose che lasciano pensare a un suicidio. Anche l'ingresso sulla scena di Davide, fratello di Ernesto ricoverato in ospedale psichiatrico, è un fattore che allarga la convincente geometria che sottende il romanzo breve di Marchesini.
E su tutto campeggia proprio l'ossessione del romanzo, da intendersi qui come genitivo duplice, soggettivo e oggettivo: ossessione che appartiene ed è insita nel romanzo e che simultaneamente riguarda il romanzo. Per questo ho virgolettato la parola "romanzo" all'inizio del mio scritto: romanzo da concludere e condividere con la ritrovata Lucia, nel caso di Marco, romanzo nelle pagine di Ernesto non consegnate a Pagi e il romanzo vero di Marchesini, che il lettore si trova tra le mani. Le storie arrivano alla fine, sempre, così come le nostre vite: è una verità banale, lapalissiana quanto abbagliante. Un punto chiave sembra saldare le diverse esperienze di scrittura praticate da Marco e si trova all'inizio: "Ti chiedi per quanto tempo sarà possibile barare scrivendo il tuo articolo giornaliero senza lasciar capire che dietro è stato tolto l’audio dell’esperienza." (il corsivo è mio). Non possono non ritornare a galla certe scorribande attuali della critica sui temi dell'esperienza, della sua assenza e del trauma. Pensavo - e qui qualcuno magari storcerà il naso - alle pagine dedicate da Scurati all'inesperienza, nel suo libriccino La letteratura dell'inesperienza, pensavo anche a Daniele Giglioli che ha scritto un libro eloquentemente intitolato Senza trauma e poi allo stato dell'arte di Guido Mazzoni contenuto nella sua maggiore fatica, Teoria del romanzo (questo è invece un titolo che, nella sua genericità da manuale universitario, finisce coll'essere riduttivo del portato innovativo del saggio). Marco, il protagonista, alla presenza di Lucia, persona che ha amato e visto fuggire senza troppe spiegazioni e con la quale ha ripreso solo qualche timido contatto via Skype, subisce le scosse più profonde. La scoperta della grave malattia di Lucia, del suo slittamento e deperimento fisico, recepito con puntuali rintocchi durante gli imprevedibili appuntamenti che si susseguono dopo il giorno del ritrovo al Bolognino d'Oro, diventa paradossalmente una liberazione, una fessurazione nella crosta troppo dura e rinsecchita del protagonista. Lucia è colei che "fa capitare delle cose" e in questo passaggio si ravvisa quasi il nucleo del libro e dell'amore raccontato, forse il perché del timore che il protagonista prova al cospetto di Lucia.
L'ho letto come un libro-mappa che consiglio, proprio a te che pazientemente sei arrivato fino a qui e che magari, come rintocca l'incipit, senza tanti preavvisi, ad un certo punto e "senza accorgertene, hai trentatré anni". A maggior ragione se "ti sei costruito a posteriori un’adolescenza normale, una prima giovinezza decente di compagnie e bravate. E quasi quasi ci credi." Un libro utile per iniziare a fare i conti con i recessi spaziosi della nostra pusillanimità allargata e, in fondo, col nostro mai sopito sogno di una particella di immortalità consegnato miseramente alla scrittura. Insomma, per ricollegarmi alle battute iniziali, dopo aver letto questo libro credo ci sia qualcosa di più interessante e problematico da provare a dire, al di là della formuletta che vuole l'autore come "il più interessante della sua generazione". E poi, mi domando con ancor più forza dopo la lettura: siamo una generazione interessante? C'è qualcosa o qualcuno di davvero interessante tra noi? E se sì, dove e come andare a scovarlo? Non ho risposte chiare, è evidente.
Ah, dimenticavo, solo per la cronaca: quasi ogni recensore vi suggerisce di far combaciare le curvature del personaggio di Bernardo Pagi con il profilo di Alfonso Berardinelli, critico militante-importante-rilevante (e tutti gli aggettivi in -ante che volete), figura sulla quale però, a mio avviso, ci siamo un po' troppo incistati tutti negli ultimi anni. Sappiate che non è obbligatorio pensare a Berardinelli quando leggete di Bernardo Pagi; è solo un'indicazione di lettura, e il libro si può serenamente leggere lo stesso, anche ignorando questo prodigo consiglio. Trasportando il tutto in un'altra lingua, più garbata del nostro idioma ormai illividito a tutti i livelli del consorzio civile (e spesso anche nella lingua della critica), qualcuno potrebbe uscire con un sorriso e con un liberatorio who cares?
Il nome di Marchesini a più di qualcuno ricorderà collaborazioni radiofoniche con Radio Radicale, poesie e pagine di critica sempre accese sulle pagine di quotidiani importanti, dall'edizione bolognese del "Corriere della Sera" a "Il Foglio" dove ritrova il "suo" Berardinelli, passando per "Domenica" de "Il Sole-24 Ore" dove scrivono talvolta La Porta, Fofi e Paolo Febbraro, come Marchesini vicino a Manacorda da lunga data. Ho letto Atti mancati (Voland, pp. 128, euro 13) con la curiosità che si dedica al primo romanzo di una persona che per qualche tempo della propria vita si è intercettata, pur da lontano e a distanza di sicurezza (ricordo con piacere l'omaggio delle poesie del suo I cani alla tua tavola, alcuni anni fa, per mezzo delle riviste "daemon" e "Atelier", dove avevamo amici in comune che oggi sarebbero più flebilmente consegnati al reticolo di Facebook), distanza/isolamento forse simili a quelli ricercati dal protagonista prima dell'irrompere sulla scena di Lucia. Ed è per questo che arrivo oggi a parlarvi di questi Atti, che in prima battuta mi hanno fatto sorvolare, di converso a quello che dirò tra poco, sopra ad altri atti, da quelli "linguistici" di Austin (quando si fa qualcosa con le parole, come quando qualcuno proclama/dichiara qualcuno o qualcosa), a quelli "impuri" della tradizione cattolica a quelli bellissimi e fusi in una sola parola, Atimpuri, di Luigi Meneghello. Ho forse il vizio di dare troppo peso ai titoli, pensando che con questi l'autore, il suo editore o il suo editor aprano brecce giganti sullo scalcinato muro della prosa contemporanea (quest'ultimo non sia inteso necessariamente come un giudizio di valore). In psicanalisi, apprendo aprendo una generosa Wikipedia, l'"atto mancato", detto paraprassia in ambiente britannico, coincide con un errore d'azione, laddove si vorrebbe fare un'azione e se ne compie un'altra, "guidati" dall'inconscio. A suo modo, anche il celebre lapsus linguistico è un atto mancato. In ambiente germanofono, nella lingua di Freud in sostanza, suona più come "azione difettosa", manchevole di qualcosa. E in effetti pare vivere in questa dimensione Marco, il trentenne protagonista di queste pagine, persona che si è progressivamente isolata (di sé dice: "Non ricordi nemmeno più quando ha preso piede in te questa necessità di limare, escludere, cancellare tutto: rapporti, viaggi, imprevisti quotidiani") e che al momento del ciak della macchina da presa della narrazione vive di quella professione di free lance della cultura ("un lavoro che non ha orari e quasi non ha gesti, asettico, ripulito da ogni sgradevole contatto umano") qui quasi assurta a simbolo di una parte di una generazione, che è poi la stessa alla quale appartengo (Matteo Marchesini è nato nel 1979 a Castelfranco Emilia). La mia convinzione è però che questo non sia l'ennesimo romanzo troppo debitore della psicanalisi. "Atto" e "azione" hanno fondamento comune nel latino "agere", eppure c'è un abisso - lo stesso che sembra ibernare la nostra generazione in quest'epoca - tra azione e atti. Forse siamo protagonisti di azioni, ma non di atti. Il mio pensiero sul titolo, in altre parole, è che rischiamo di (non?) passare alla storia per la generazione degli atti mancati, dei gesti normali intrecciati a quelli inadeguati e difettosi, in uno scoordinamento non più correggibile: forse una moderna edizione delle "occasioni" montaliane e magari, come generazione, abbiamo soltanto inaugurato una stagione.
A muovere questo romanzo d'esordio è un quadrilatero di relazioni, elemento geometrico innovativo rispetto al tradizionale ménage à trois, a maggior ragione se consideriamo che un punto di questa figura non agisce, in quanto è già morto, anche se forse il suo agire in absentia è massiccio e di peso. Marchesini poi sembra avere tatuata sull'iride dell'occhio la mappa dei luoghi e delle vie che descrive, nominate con ossessività che diventa via via rassicurante. (A dispetto di una bella copertina con un parabrezza coperto da gocce di pioggia pronte a essere spazzate dal tergicristallo, non ho avvertito una caratterizzazione meteorologica forte in questo romanzo, sensazione che ho registrato come misteriosa mancanza.) Sono davvero decine e decine le vie di Bologna nominate e le strade che conducono Marco e Lucia fuori dalla città, verso l'Appennino, all'interno della Micra di lui, quando incomincia una rincorsa affannosa al passato del loro fidanzamento, interrotto da una fuga di Lucia (sintomaticamente Le donne spariscono in silenzio è il titolo di un libro di racconti dell'autore), cinque anni prima del suo ritorno in scena. Lucia riappare durante la consegna del premio "Bolognino d'oro" a Bernardo Pagi, uno dei punti del quadrilatero, maestro di Marco e conoscenza comune. Marco è chiamato a coprire la cerimonia con un pezzo di cronaca culturale e da qui prende avvio il libro e un periodo di nuovi incontri tra lui e Lucia, di dialoghi zoppi, di glaciale tenerezza e di nuove scoperte, laceranti e decisive come la cicatrice che compare ad un certo punto sul corpo di Lucia. Lacerante è anche il ricordo riaffiorante di Ernesto, amico comune che ha trovato la morte in un incidente, in una delle tante strade che avviluppano una Bologna inspiegabilmente labirintica eppure priva di Minotauro, anche se la presenza di Lucia potrebbe essere ricondotta, in un goffo tentativo di critica "mitologica", ad una moderna, enigmatica e malata Arianna. Lucia aveva provato attrazione per Ernesto e la sua fuga si colloca dopo il mortale incidente, avvolto in circostanze misteriose che lasciano pensare a un suicidio. Anche l'ingresso sulla scena di Davide, fratello di Ernesto ricoverato in ospedale psichiatrico, è un fattore che allarga la convincente geometria che sottende il romanzo breve di Marchesini.
E su tutto campeggia proprio l'ossessione del romanzo, da intendersi qui come genitivo duplice, soggettivo e oggettivo: ossessione che appartiene ed è insita nel romanzo e che simultaneamente riguarda il romanzo. Per questo ho virgolettato la parola "romanzo" all'inizio del mio scritto: romanzo da concludere e condividere con la ritrovata Lucia, nel caso di Marco, romanzo nelle pagine di Ernesto non consegnate a Pagi e il romanzo vero di Marchesini, che il lettore si trova tra le mani. Le storie arrivano alla fine, sempre, così come le nostre vite: è una verità banale, lapalissiana quanto abbagliante. Un punto chiave sembra saldare le diverse esperienze di scrittura praticate da Marco e si trova all'inizio: "Ti chiedi per quanto tempo sarà possibile barare scrivendo il tuo articolo giornaliero senza lasciar capire che dietro è stato tolto l’audio dell’esperienza." (il corsivo è mio). Non possono non ritornare a galla certe scorribande attuali della critica sui temi dell'esperienza, della sua assenza e del trauma. Pensavo - e qui qualcuno magari storcerà il naso - alle pagine dedicate da Scurati all'inesperienza, nel suo libriccino La letteratura dell'inesperienza, pensavo anche a Daniele Giglioli che ha scritto un libro eloquentemente intitolato Senza trauma e poi allo stato dell'arte di Guido Mazzoni contenuto nella sua maggiore fatica, Teoria del romanzo (questo è invece un titolo che, nella sua genericità da manuale universitario, finisce coll'essere riduttivo del portato innovativo del saggio). Marco, il protagonista, alla presenza di Lucia, persona che ha amato e visto fuggire senza troppe spiegazioni e con la quale ha ripreso solo qualche timido contatto via Skype, subisce le scosse più profonde. La scoperta della grave malattia di Lucia, del suo slittamento e deperimento fisico, recepito con puntuali rintocchi durante gli imprevedibili appuntamenti che si susseguono dopo il giorno del ritrovo al Bolognino d'Oro, diventa paradossalmente una liberazione, una fessurazione nella crosta troppo dura e rinsecchita del protagonista. Lucia è colei che "fa capitare delle cose" e in questo passaggio si ravvisa quasi il nucleo del libro e dell'amore raccontato, forse il perché del timore che il protagonista prova al cospetto di Lucia.
L'ho letto come un libro-mappa che consiglio, proprio a te che pazientemente sei arrivato fino a qui e che magari, come rintocca l'incipit, senza tanti preavvisi, ad un certo punto e "senza accorgertene, hai trentatré anni". A maggior ragione se "ti sei costruito a posteriori un’adolescenza normale, una prima giovinezza decente di compagnie e bravate. E quasi quasi ci credi." Un libro utile per iniziare a fare i conti con i recessi spaziosi della nostra pusillanimità allargata e, in fondo, col nostro mai sopito sogno di una particella di immortalità consegnato miseramente alla scrittura. Insomma, per ricollegarmi alle battute iniziali, dopo aver letto questo libro credo ci sia qualcosa di più interessante e problematico da provare a dire, al di là della formuletta che vuole l'autore come "il più interessante della sua generazione". E poi, mi domando con ancor più forza dopo la lettura: siamo una generazione interessante? C'è qualcosa o qualcuno di davvero interessante tra noi? E se sì, dove e come andare a scovarlo? Non ho risposte chiare, è evidente.
Ah, dimenticavo, solo per la cronaca: quasi ogni recensore vi suggerisce di far combaciare le curvature del personaggio di Bernardo Pagi con il profilo di Alfonso Berardinelli, critico militante-importante-rilevante (e tutti gli aggettivi in -ante che volete), figura sulla quale però, a mio avviso, ci siamo un po' troppo incistati tutti negli ultimi anni. Sappiate che non è obbligatorio pensare a Berardinelli quando leggete di Bernardo Pagi; è solo un'indicazione di lettura, e il libro si può serenamente leggere lo stesso, anche ignorando questo prodigo consiglio. Trasportando il tutto in un'altra lingua, più garbata del nostro idioma ormai illividito a tutti i livelli del consorzio civile (e spesso anche nella lingua della critica), qualcuno potrebbe uscire con un sorriso e con un liberatorio who cares?
lunedì 23 gennaio 2012
"Tentativo di esaurimento di un luogo parigino." La spossatezza di Georges Perec

Ma la realtà, la realtà-finzione di un luogo qualsiasi si può esaurire così? Non credo. Perec stesso adopera la parola "tentativo" nel suo titolo. Trovo sempre imbarazzanti, in un certo qual modo, queste descrizioni, questi accumuli, queste accanite restrizioni di visuale. Anche se, per contro, questo scorrere del tempo colto in dettagli, questo indugiare da macchina da presa, diventa, in maniera analoga a qualcosa che sembra stia accadendo nella fisica, un ridimensionamento della variabile tempo, una sua perdita di rilevanza. Naturalmente questa (progressiva?) esclusione di una variabile temporale è qualcosa che va tremendamente contro il senso comune (gli stessi riferimenti di Perec all'orologio sono qui tanti e continui). Ed è interessantissimo allora che questo scorrere di tempo aggrappato a uno sguardo che registra cose che nessuno solitamente nota, diventi il tentativo di "esaurire un luogo". Sembra quasi che Perec s'avvii a salutare quello che sarà lo spatial turn nei medoti di avvicinamento alla letteratura di oggi (spatial turn che tra l'altro è abbastanza attuale anche negli studi storici, studi del tempo per antonomasia; per la letteratura valga invece il consiglio di un bel libro curato da Flavio Sorrentino per Armando dal titolo Il senso dello spazio. Lo spatial turn nei metodi e nelle teorie letterarie). L'imbarazzo a cui mi riferisco allora è proprio questo miscuglio di non sapere: questo poco coraggio di uno sguardo spossato e aggrappato a tutto quel che scorre, questa rinuncia a priori ad una visione più larga, questo non capire ancora se la variabile tempo abbia perso parte del proprio peso in letteratura (se magari è letteralmente derelitta in seguito al capolavoro proustiano), se siamo già con un piede in a una nuova epoca di centralità dello spazio, spazio "temporalizzato" probabilmente. Nel caso più specifico di Perec poi, l'imbarazzo di cui scrivo sopra è chiedermi se "quello che generalmente non si nota", queste cose che potrebbero passare inosservate nella frenesia di una grande città, non siano invece oggi, in epoca di sguardi congestionati, cose che invece in molti notiamo:
"[...] In lontananza volo di piccioni.
Un mantello viola, una due-cavalli rossa, un ciclista.
Le campane di Saint-Sulpice cessano di suonare.
In lontananza, due uomini corrono. Un furgone della polizia frena di botto: la forza dell'inerzia fa chiudere la forza laterale, che una mano riapre e blocca.
Il caffè è pieno.
Passa un pullman affollato, ma non di giapponesi.
La luce comincia a calare, anche se si nota appena; il rosso dei semafori è più visibile [...]"
Questo di Perec resta appunto un tentativo. Qui è anche evidente la sua formazione sociologica, la passione documentaristica, il ritornare esplicitamente agli anni della formazione e degli esordi, allorquando nouveau roman e école du regard dettavano l'agenda in terra di Francia. Con questo esperimento, divenuto un classico, Perec sembra fornire delle "istruzioni per l'uso" per metterci alla prova. Allora tutti potremmo cimentarci in un tentativo di esaurimento di un luogo a nostra scelta finché la stanchezza non prenderà il sopravvento!
sabato 14 maggio 2011
Daniela Di Sora di Voland
Librobreve intervista #2
----
LB: Editoria formato (davvero) tascabile. Necessità dell’editore e/o del lettore, trend passeggero. Qual è la vostra valutazione?
LB: All’interno del vostro catalogo come strutturate l’offerta di libri di piccola taglia? Quali i titoli di “libri brevi” che vi hanno dato maggiore soddisfazione negli ultimi tempi?
LB: In quel meccanismo che rischia di trasformare l’editore in un operatore al centro di due poli costituiti da distribuzione e ufficio stampa-promozione, quale importanza ricopre la mole di un libro nei meccanismi promozionali? Uno degli assunti da cui parte Librobreve è la difficile visibilità di questi volumi, sia sulla stampa che in libreria. Lo condividete?
LB: Parliamo di e-book. Con il diffondersi dei devices di lettura elettronici, una volta che si sarà trovata una soluzione per il prezzo degli e-book, credete che la mole di un libro possa essere determinante per decidere se proporlo su carta o in formato elettronico? Se sì, in che senso?
LB: Parlando di libri brevi ci troviamo spesso a parlare di progetto grafico globalmente inteso (carta, copertine, aspetti tipografici). Quello della “confezione” di un libro è un aspetto sicuramente molto interessante e, tra le altre cose, è stato strategico negli ultimi decenni. Non credete però che con la diffusione del libro elettronico questa attenzione ai paratesti si perderà a favore del vero e proprio contenuto del libro, il quale potrebbe essere oggetto di esperimenti di “realtà aumentata” (da vedersi magari come una nuova vita per le “vecchie” note a piè di pagina)?
Nota ai più per i successi di Amélie Nothomb, Voland è una casa editrice in grado di reggere un non facile equilibrio tra scouting e riproposizione di classici (pensiamo alla recente e innovativa collana di classici russi proposti in "traduzione d'autore", il cui progetto grafico è stato affidato a un grande del visual design, Alberto Lecaldano). Daniela Di Sora, fondatrice di Voland e madrina al Salone del libro di Torino in corso in questi giorni, ha accettato di rispondere alle domande di Librobreve. L'occasione per conoscerci è stato il bellissimo piccolo libro di Alberto Olmos di cui ho parlato qualche tempo fa.
----
RISPOSTA: Per quanto mi riguarda, io amo il libro breve, tascabile, facilmente maneggevole, che si può leggere in qualunque situazione. Me lo porto in borsa, in tasca, in mano. Ma purtroppo spesso in libreria spariscono, se non sono vicino alla cassa, e i librai non li amano (di solito, almeno).
RISPOSTA: Per noi i libri “piccoli” sono trasversali alle collane, e nel catalogo seguono l’ordine alfabetico per autore, con l’indicazione del formato. L’anno scorso però, per i 15 anni della casa editrice, abbiamo ideato una collana di 10 titoli: classici russi tradotti da scrittori italiani, che si chiama Sírin classica. Il formato è quello della BUR classica e sono già usciti tre titoli: Lev Tolstoj tradotto da Paolo Nori (Chadzi-Murat), Anton Cechov tradotto da Pia Pera (Tre racconti), Ivan Turgenev tradotto da Alessandro Niero (Diario di un uomo superfluo). Stanno andando sorprendentemente bene tutti e tre, ma Chadzi-Murat è quello che mi ha sorpreso di più, in positivo. Quest’anno poi usciremo con i tascabili, i Supereconomici Voland, prezzo 7 euro, i primi volumi in libreria a fine aprile. Incrociamo le dita, le prenotazioni sono molto buone.
RISPOSTA: In effetti, la visibilità del libro breve in libreria non è alta. Vanno di moda i romanzi-fiume… Ma secondo me perché valga la pena di leggere un romanzo di 1000 pagine, deve essere Guerra e pace. Io preferisco le forme più “condensate”.
RISPOSTA: Parlo come lettore prima che come editore: io non amo leggere su schermo troppo a lungo, anche se gli ultimi device pare non siano faticosi per la vista. In ogni caso ho pubblicato in formato e-book anche libri molto consistenti, come numero di pagine. Per il momento, devo dire però che l’istinto è quello di fare in formato e-book libri brevi. Il mio bestseller e-book è Cosmetica del nemico, di Amelie Nothomb: breve e fulminante.
RISPOSTA: Credo che la perdita di tutto quello che è l’aspetto grafico di un libro sia la cosa più inquietante, pensi che io, in controtendenza, ho fatto disegnare un carattere apposta per noi, che si chiama come la casa editrice: Voland, e con cui stampiamo i nostri libri, dallo scorso anno.
(Intervista a Daniela Di Sora di Alberto Cellotto, raccolta nell'aprile 2011)
On parle de:
Alberto Lecaldano,
Daniela Di Sora,
Intervista,
Voland
sabato 9 aprile 2011
Sul tatami con Alberto Olmos
Volo di linea Madrid Barajas-Tokyo Narita. Lei, Olga, la ragazza di 24 anni che in questo lungo racconto dice “io” senza esserne la protagonista, è diretta in Giappone per lavorare all’università. Ci racconta del suo rapporto con i viaggi in aereo, mezzo del quale apprezza le cinture di sicurezza perché non creano problemi al suo seno che ha dimensioni imponenti. Giusto il tempo di prendere confidenza con quella che sarà la postazione nella traversata intercontinentale e nota che l’anomalo passeggero al suo fianco ha già iniziato a fissarle il petto.
Inizia così Tatami (“libri piccoli” Voland, pag. 112, traduzione di Giona Tuccini), prima opera disponibile in italiano del trentaseienne autore spagnolo Alberto Olmos. L’aereo, con quella lieve sensazione di “non esistenza” che trasmette ai passeggeri (curioso come Olmos riprenda in parte certe considerazioni sul volo lette in A perdifiato di Mauro Covacich), sembra essere l’ambientazione perfetta per quello che ci accingiamo ad ascoltare assieme a Olga: la storia di un guardone.
Luis, il passeggero anomalo, non intende mollare l’osso. Fissa continuamente il seno di Olga finché il ghiaccio non si rompe. Comprendiamo subito che Luis è motivato a raccontare la sua storia fino in fondo e che Olga, nonostante la resistenza e il pudore mostrati, è curiosa, ascolta, inizia a fare domande e a riflettere quando le normali operazioni di servizio e le soste fisiologiche dentro l’aeromobile comportano qualche interruzione.
Il dialogo tra i due è irresistibile - Olmos ha talento - mentre il racconto della vita da guardone in Giappone, nazione dove Luis ha insegnato letteratura spagnola diversi anni prima, è il vero motore del libro. Luis è diretto, essenziale, lapidario. Racconta la sua esperienza voyeuristica con una giovane giapponese, dirimpettaia del suo appartamento. Durante il volo Olga conoscerà le linee salienti del pensiero di Luis sul rapporto tra uomo e donna, sull’eros e sulla sua deformazione sociale: Luis, questo curiosissimo filosofo che ad un certo punto definisce “marce” le parole, così lontane dalla purezza e dalla muta eccitazione intellettuale del voyeur, costringe la compagna di viaggio, con una supremazia tutt'altro che celata, ad un continuo gioco sospeso tra indignazione e curiosità, ritegno e desiderio di approfondire. Luis è tutto teso a raccontare il suo "lavoro" di guardone, per il quale necessitava di una "costanza ciclopica". Ad un certo punto, colpendoci un po' tutti al cuore, arriva a postulare che "non esiste la stanchezza, esiste solo la demotivazione".
L'attenzione sui temi del voyeurismo qui racchiusa è molto graffiante e tra le altre cose credo che la realtà degli attuali mezzi di comunicazione elettronici debba riportare alla ribalta prepotentemente temi simili. Non è questo il momento per svilupparli, meglio lasciare la discussione ai commenti. Non credo sia facile parlarne, tantomeno con un racconto, brillante e senza sbavature. Alberto Olmos è credibile, per come ha pensato questa storia, per le ambientazioni, per i dialoghi tra Olga e Luis. Non era facile. Ecco un autore da seguire con attenzione.
On parle de:
Alberto Olmos,
Mauro Covacich,
recensione,
Tatami,
Voland,
voyeurismo
Iscriviti a:
Post (Atom)