Hanno sede in Basilicata, a Potenza per la precisione, le Edizioni Grenelle. Il loro catalogo potrebbe già parlare da solo, dopo circa un anno dal varo: le poesie di Hart Crane di White Buildings, H.G. Wells di Racconti dello spazio e del tempo, Edith Wharton di Un figlio al fronte, Thomas Hardy di Racconti scelti, Henry James di Segreti d'artista, Sherwood Anderson di Dark Laughter fino al fresco di stampa Locus solus di Raymond Roussel, precedentemente uscito nei "Coralli" di Einaudi nella traduzione di Paola Decina Lombardi e poi per Le Nubi Edizioni nella cura di Gianluca Reddavide (entrambe fuori commercio) e riproposto in questi giorni dalle Edizioni Grenelle, nella nuova traduzione di Susanna Spero. Di seguito trovate un approfondimento, con l'intervista all'editore Marco Pascarelli, che ringrazio.
Ettore Ciccotti |
LB:
Siete una realtà nata da poco, ma con un catalogo assai interessante di
"riscoperte" di opere e autori per buona parte dimenticati. Come è possibile muoversi evitando però la retorica
a senso unico della "riscoperta editoriale"? In fondo editoria è
prima di tutto scoperta, investimento, scommessa e, in un secondo momento,
"riscoperta", la quale ovviamente ridiventa nuova scoperta, nuovo
investimento, nuova scommessa...
R: La
“riscoperta editoriale” è retorica quando si configura come ripetizione pura e
semplice di certe ataviche visioni sugli autori, o come riproposizione di cliché che rendono immodificabile la prospettiva
sulle loro opere. Per come noi la intendiamo, invece, l’avventura di ridare
alle stampe dei vecchi testi – che poi vecchi non sono, essendo nel nostro caso
spesso inediti in Italia, è il caso di Un
figlio al fronte di Edith Wharton, ad esempio – va esattamente nella
direzione contraria: cioè dell’apertura a una nuova concezione di quelle opere,
alla rilevazione di certe potenzialità latenti, non recepite dalle precedenti
esperienze editoriali. E questo si realizza innanzitutto a partire da una resa
di traduzione decisamente diversa, e poi dall’apparato critico che spiega
ulteriormente il nuovo modo di intendere l’opera e l’autore proposto e la
diversa collocazione che per esso si propone.
Molto
banalmente, poi, offrire testi scomparsi da decenni rappresenta e rappresenterà
sempre per molti lettori, giovani e non, una vera fonte di scoperta, tale da
costituirsi come una vera nuova forma di proposta.
Detto
questo non siamo chiusi ai nuovi autori, ma non crediamo che la “novità” si
stabilisca attraverso un criterio puramente ed esclusivamente cronologico: un
libro o un autore “nuovo”, auspicabilmente “vitale” e necessariamente
“urgente”, è quello che sa raccontare e aiutare a comprendere il presente, come
pure a immaginare il futuro e a dialogare con altri mondi, oltre il nostro. Questo
“aiuto” può venire tanto da un filosofo tedesco del ‘500 o da un poeta di
inizio Novecento quanto da un narratore cosiddetto “contemporaneo”. Se,
pertanto, consideriamo questi autori del passato, di un passato per lo più colpevolmente
dimenticato – particolare non irrilevante nello stabilire un dovere quasi etico
nei confronti di queste voci –, alla stregua di nuove scoperte e nuove
scommesse, è perché di questa opera di “riproposizione” ci interessa in realtà
l’inedito posizionamento che offre ora, in alcuni casi per la prima volta. Crediamo,
insomma, nella potenzialità offerta dalla nuova esposizione alla nostra
attenzione di questioni e realtà irrisolte, non pienamente considerate e in
parte sempre attuali. Ciò
non significa, ancora una volta, una preclusione verso opere inedite, nuove,
che si pongano in linea di continuità con quello che si è detto. Pensiamo, ad
esempio, alla pubblicazione del saggio su Ettore Ciccotti, personaggio atipico
e di difficile inquadramento, il cui esempio di passionalità politica e
intransigente difesa delle ragioni degli ultimi andrebbe oggi attentamente
rimeditato. È il caso, d’altronde, della collana Sproni, un lessico contemporaneo del pensiero nato per sollecitare
nei lettori una riflessione personale su aspetti sconcertanti della modernità,
originalmente presentati in prospettiva pluridisciplinare da studiosi e
intellettuali originali e di assoluto rilievo. E la strada è aperta ad altre
iniziative che presto metteremo in campo.
Edith Wharton |
LB:
In un suo recente libro dedicato a figure storiche
dell'editoria italiana, Cesare De Michelis parlava di "vendere i libri che si fanno"
anziché preoccuparsi troppo di "fare i libri che vendono". Mi pare
sia un pensiero che può adattarsi anche al vostro operato, che ripone l'editore
al centro di un meccanismo di filtro e selezione (quindi, soprattutto, anche di
rifiuto). Mi pare che la parte creativa del lavoro editoriale sia anche
inventarsi modi per "vendere" i libri che si fanno, senza essere ossessionati
in anticipo sulla loro vendibilità. E quindi entra in ballo la promozione e
comunicazione dei libri, che non è il semplice battage che può mettere in campo
un editore con qualche soldo in più da spendere per la pubblicità. Che idee
avete a riguardo?
R: L’intenzione
etica ed “ecologica” in editoria è per noi un’aspirazione e un’ispirazione
fondamentale. A nostro rischio e pericolo. Non potremmo fare a meno di tentare
di “vendere i libri che si fanno”, cioè di scegliere di fare solo libri di cui riteniamo
si senta in qualche modo il bisogno.
Non
crediamo poi che l’editore possa disincarnarsi e, facendo leva sull’esigenza di
una maggiore strutturazione della propria attività e su una divisione più
(illusoriamente) efficiente del lavoro, affidare ad altri fasi più o meno
cruciali della propria attività.
La
nostra idea è sempre stata quella di rimanere protagonisti dei processi
culturali messi in atto: dalla scelta dei libri, al disegno delle collane,
all’idea di racconto della stessa casa editrice. L’affidamento a comitati
scientifici così come ad agenzie di comunicazione non ci convince. In questo
nostro approccio è probabile che agisca la natura di outsider relativi del settore, ma in questa attitudine credo si
realizzi anche la giustificazione più autentica del nostro lavoro.
Nei
confronti dell’attività editoriale, tanto dal punto di vista ideale quanto
materiale, nutriamo una sorta di convinzione implicita: immaginare e realizzare
libri, dalla scelta delle scritture all’invenzione degli immaginari grafici che
le inquadrino ai supporti atti ad accoglierli, è già un nucleo di promozione
intrinseco del libro; come a dire che i libri parlano da soli e vanno pertanto
il più discretamente possibile fatti parlare. Più spazio ai libri e meno al
discorso che cerca di venderli, la qualità e il bisogno di cultura, se c’è e se
è corrisposto dall’attività editoriale, alla lunga escono fuori. Pazienza se le
statistiche ci dicono che il tempo medio di vita di un nuovo libro non superi i
tre mesi, oltre i quali anche il più volenteroso autore e il più sollecito
ufficio stampa non possono fare molto, il tempo di un libro ha una gittata
molto più lunga e su questo tempo dal respiro lungo e dall’orizzonte ampio ci
calibriamo.
LB:
Mi interessa insistere sulla promozione dei libri. Sembra che non si possa
trattare l'argomento senza che esca il nome di Fabio Fazio, almeno tra certi
addetti ai lavori. Che ne pensate e cosa notate di macroscopico nel modo in cui
si parla dei libri nei diversi canali (TV, carta stampata, blog e social)?
Anche
per questo non ha molto senso imitare strategie comunicative che saturino
canali ordinari e straordinari – analogici, digitali o virtuali –
nell’illusione che l’adesione al canone rappresenti la forma più utile di
vendita del prodotto-libro. Di sicuro ci sentiamo poco votati a questo gioco.
Allo stesso modo crediamo che non abbia nemmeno senso aspirare ad avere anche
solo una transitoria udienza presso i canali mainstream, che sembrano rappresentare l’unica sanzione di successo
e assicurazione di vendita.
La
spettacolarizzazione del libro, in ogni sua forma, dai salotti televisivi alle kermesse espositive, passando per i
firma-copie, fraintende l’anomalia del prodotto che si vuole lanciare. Il tempo
necessario a interrogarsi sul senso e sul desiderio che un libro genera, sulla
necessità di ampliare lo spettro delle fonti che alimentano la nostra
concezione del mondo con l’apporto di un'altra voce, il dialogo profondo che
s’instaura anche con un testo che si sfoglia per la prima volta tra gli
scaffali di una libreria lo rende refrattario alle normali dinamiche di vendita
e di assorbimento del mercato.
Mi
rendo conto che un simile discorso parrà, nel migliore dei casi, naïve a
editori e direttori editoriali più scafati, ma nel dire questo ci riferiamo in
primo luogo alla nostra seppur breve esperienza, che parla di un buon numero di
vendite nonostante una promozione quasi nulla, almeno intesa secondo le formule
solite; ulteriore dimostrazione di questa tesi è anche l’attenzione di questo
blog e del suo autore.
Sarebbe
più opportuno, quindi, che invece di parlare addosso ai libri, li si facessero
più propriamente parlare; che si mettessero alla prova le loro voci al di là
dei consessi settoriali e autoreferenziali, mettendo il più possibile i testi in
stretto dialogo con i propri potenziali lettori, al limite stabilendo un
contatto tra questi testi ed altre esperienze culturali, con altre forme dello
Spirito avrebbe detto Hegel, per dimostrare il loro effettivo valore.
Tutto
questo per dire che l’importante per un libro è arrivare in libreria; poi, se
vale, si venderà quasi da solo. In questo tanto fa, nonostante tutto,
l’accortezza del libraio che riesce ancora, benché il numero di offerte sia elevato,
a individuare delle “zone di vivibilità” nel campo editoriale.
Poi
ben vengano i gruppi di lettura, nella forma tradizionale o delocalizzata sul
web, specie di lettori competenti e responsabili. Per quanto possibile
cerchiamo di essere presenti anche lì, notificando la nostra presenza e
presentando discretamente i nostri libri, che davvero parlano da soli e sanno
raccontarsi molto meglio di quanto potremmo fare noi. Ma, ecco, noi
prediligiamo e immaginiamo meglio il lettore nella sua dimensione individuale e,
per certi versi, solitaria, e sappiamo che non si lascia convincere dalla
dialettica imbonitoria dell’offerta di un prodotto à la page, ma in rapido invecchiamento, come dal battage mediatico che pratica la
retorica del bombardamento informativo, almeno il lettore in cui ci rispettiamo
e a cui puntiamo.
LB: Hart Crane, H.G. Wells, Edith Wharton,
Thomas Hardy, Henry James, Sherwood Anderson ma recentemente anche Locus
solus di Raymond Roussel. C'è una prevalenza di area
anglo-americana e ora francese. Si tratta di un indizio per la direzione futura
o è solo la base di partenza?
R:
Direi solo un inizio, derivante dai nostri interessi immediati, ma non
esclusivi, e dalle urgenze maggiori, dai libri con i quali volevamo presentarci
e iniziare a raccontare la nostra storia. L’intenzione, a breve, è sicuramente quella
di estendere territori, generi, lingue e linguaggi.
Abbiamo
in cantiere gialli, horror, poesie, teatro, saggi relativi al settore
umanistico improntati all’osmosi dei saperi e dei registri; nuovi autori e
mondi da raccontare.
|
LB:
Vi chiedo qualche parola sull'ultimo titolo mandato in libreria e qualche altra
sul titolo con cui avete esordito. Non è passato moltissimo tempo, ma ritenete
di aver già cambiato visione sul modo di fare e promuovere i libri in questo
lasso di tempo che passa dall'esordio in libreria a oggi? Se sì, in che cosa è
cambiata?
R:
In quest’ultimo anno, dalla pubblicazione del primo libro del De occulta philosophia di Agrippa von
Nettesheim (di cui stiamo preparando l’edizione degli altri due volumi) fino a Locus Solus, il visionario romanzo
proto-surrealista dell’eccentrico Raymond Roussel, e a Noia (la prima uscita della collana Sproni, il nostro lessico contemporaneo del pensiero), il nostro
catalogo ha preso forma e le collane cominciamo a dimostrare una loro
consistenza narrativa, tanto da
parlare dell’editore e del suo profilo multiforme e policentrico. È quasi
naturale, per un editore giovane che molti dati del mestiere si vadano
definendo durante il percorso. Ma la cura redazionale è sempre la stessa, così
come la “scheggia” iniziale, che ci ha permesso di immaginare il primo libro
come un banco di prova per provare a dare una nuova destinazione a testi apparentemente
datati e ormai distanti da noi. Quello di Agrippa, infatti, era un testo non solo
introvabile ma sul quale gravavano le stimmate di una lettura a senso unico,
occultistica e a dir poco reazionaria. Abbiamo cercato di restituirlo alla sua
temperie culturale – il Rinascimento tedesco – e dunque alla sua inesauribile
modernità, sembrandoci le questioni poste sui limiti del sapere umano e sulle
possibilità della scienza tuttora irrisolte, attualissime e fondamentali.
A partire
da questo testo, l’incontro con autori e scritture che partecipano di uno
spirito eccentrico, di non facile catalogazione e anzi ribelle alle semplicistiche
definizioni, è stato quasi naturale. I gradi di separazione tra Agrippa von
Nettesheim e Raymond Roussel sono tanti quante le uscite che dividono, nella
nostra breve storia, questi due libri. Davvero tutto si tiene: Agrippa, il
filosofo mago del rinascimento e i filosofi antropologi e psicoanalisti
contemporanei che ragionano sui termini del nostro pensiero; Henry James, il
raffinato scrittore americano cha amava la pittura e la cultura italiane, ed
Edith Wharton, la prima donna a vincere il premio Pulitzer; Thomas Hardy, il
mordace cantore del mitico Wessex letterario e H.G. Wells, l’inventore della
science fiction; Hart Crane, il poeta suicida dell’Ohio, e Raymond Roussel il
dandy di professione, ipocondriaco e giramondo.
In
questa intrinseca rete di corrispondenze non esplicitamente cercate ma per così
dire incontrate, in questa precisa serie di correlazioni fra titoli e autori,
si sviluppa autonomamente il racconto e la promozione dei libri.
L’emergenza
quasi spontanea di questi legami, l’aria di famiglia che erompe dai nostri
libri, rende molto facile la loro promozione, fermo restando che riconosciamo
al libro una sorta di facoltà auto promozionale: bastano i nomi, l’attenzione
curatoriale e la raffinatezza grafica a far avvicinare il lettore.
Henry James |
LB:
Per come è strutturata sinora la vostra proposta, centrale diventa la
traduzione. Come vi muovete nella cura di questo aspetto e nel rapporto con i
traduttori, da tempo considerati punto debole della filiera?
R: La
nostra redazione è abitata da traduttori, o meglio da uomini di cultura la cui
competenza linguistica e capacità di comprendere un testo scritto in una lingua
diversa da quella madre è aumentata dalla cognizione profonda dei diversi riferimenti
culturali che servono a rendere ogni buona traduzione una resa fedele e predatoria
allo stesso tempo dell’originale. In maniera forse paradossale credo sia
necessario un naturale fraintendimento del testo per farlo parlare persino meglio
di quanto l’autore avesse inizialmente inteso. Questo dato non è affatto
scontato, essendo la traduzione non un semplice processo di traslitterazione di
una lingua in un’altra. Pertanto non riusciamo a concepire come secondario il
ruolo della traduzione. I rapporti che d’altronde stabiliamo anche con traduttori
esterni, con gli esperti in grado di ridare voce ai testi provenienti da altre
aree linguistiche, è un rapporto prettamente autoriale, perché la traduzione
non può che essere considerata un avvenimento artistico, un processo di
profonda e scrupolosa – ma non pedissequa – ricreazione di un testo, della sua
verità intesa anche come virtualità e apertura non considerata originariamente
dall’autore. Tutte cose molto ovvie, che davvero rendono difficilmente
comprensibile la concezione del traduttore come “anello debole” del processo
creativo e produttivo del fare libri. D'altronde, almeno nella nostra
concezione, secondario non è l’editing e neanche l’impaginazione del testo o la
grafica. Un libro è una tecnologia complessa, ancora insuperata nel suo genere,
che si realizza solo stimando paritario il compendio di tutti gli apporti che
necessita per venire alla luce.
LB:
Qual è la domanda che farebbe cadere le braccia a un editore nato da poco in
un'intervista del genere? (Sperando non sia tra quelle sopra...)
R: In realtà anche le domande più
inconsistenti – non è il caso comunque di questa intervista, che non ne
annovera nessuna –, possono mettere in moto ragionamenti interessanti. Persino
la più stanca e insinuante richiesta di implicita giustificazione rispetto alla
nascita dell’ennesima casa editrice, quando in Italia si pubblicano più di 60
mila libri l’anno, al di là di un prurito iniziale, impone una riflessione
seria. Quindi, se me lo consente, chiuderei con questa domanda, che indispone
per la sua insolubilità, più che per l’ottusità, perché la scommessa in questo
mestiere nasce col venire al mondo, ancor prima di presentare la propria
proposta: ha senso, infatti, aggiungersi a questo corposo elenco per dare alle
stampe un numero di titoli che forse il mercato, per non dire l’attenzione dei
librai e la passione dei lettori, non sarà in grado di riconoscere?
(Qui il sito delle Edizioni Grenelle).
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