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lunedì 5 febbraio 2018

"Ellissi" di Francesca Scotti

Questa recensione di Eloisa Morra al libro Ellissi di Francesca Scotti è già apparsa ne "L'indice dei libri del mese".


«Non crescere, è una trappola», così Peter Pan ammoniva Wendy; questo sembra essere il mantra di Erica e Vanessa, le due adolescenti protagoniste di Ellissi (Bompiani, 2017), ultima prova narrativa della scrittrice milanese Francesca Scotti. Amiche per la pelle, queste ragazze fisicamente diversissime un giunco dai capelli rossicci e lentiggini Erica, più piccola e bruna Vanessa sono unite dalla paura di crescere che le porta a stringere un patto: diventare libellule, rendere i loro corpi esili e flessuosi come quellanimale che «impiega quindici trasformazioni a diventare quel che è». La loro alleanza contro la crescita sembra inossidabile, almeno allinizio del romanzo: quando le vediamo fare i bagagli per Villa Flora, una clinica per disturbi alimentari, determinate a resistere alle cure e ad esercitare il controllo assoluto sui loro esili corpi dal cuore a goccia.

Già accennato in alcuni racconti della raccolta desordio Qualcosa di simile (Pequod 2011) e nel bel romanzo Il cuore inesperto (Elliott 2015), in Ellissi il tema del rapporto col cibo si fa in primo piano, oggettivando efficacemente levolversi dellamicizia tra le protagoniste (il magnum sciolto nellacqua calda, un dado di pan di Spagna apparso in sogno a Vanessa: Scotti è naturalmente portata a creare immagini che non si lasciano dimenticare per come sa dar loro corpo e concretezza). Amicizia che, come spesso capita nelladolescenza, non è immune da una certa dose di velenosità: Vanessa ed Erica si stringono in una simbiosi che anziché donar loro spazio vitale le porta a consumarsi e distruggersi, fisicamente e psichicamente, in una chiusura al mondo esterno che è anche un ostacolo al formarsi delle loro individualità. Come due fuochi di una ellisse, avranno bisogno di sovrapporsi per poi separarsi di nuovo, tornando ad essere ciascuna «uno».

Lincontro con il dottor Talevi e gli altri degenti della clinica in particolare Diego, il ragazzo dalle gambe a fenicottero che in modo diverso affascinerà entrambe, e si innamorerà di Erica muterà per sempre il loro rapporto, portandole finalmente a misurarsi con lesterno, con il peso della realtà: perché «tra due ali c’è un corpo», e non esiste leggerezza senza peso. Dallatmosfera equorea e cupa di Villa Flora, tratteggiata da Scotti con notevole sapienza narrativa, si passa ad un finale aperto ad altre consistenze e colori: la polpa della mela assaporata da Erica, tornata a casa dopo la guarigione, il rosso del ciclo che torna ad abitare un corpo sano. Colpisce come nonostante si trovi sovente a descrivere rapporti delicati la relazione morbosa tra Vanessa ed Erica rispecchia per certi aspetti quella che in Il cuore inesperto legava la diciottenne Anita al suo maestro di musica , e proprio per questo potenzialmente disturbanti, la scrittura di Scotti non perda mai delicatezza ed equilibrio né indugi in sentimentalismi (così in un altro bel libro il cui centro è il corpo, La notte ha la mia voce di Alessandra Sarchi). Scrittrice percettiva, Scotti lascia che a parlare sia lesattezza dei confini della sua realtà: più dei dialoghi contano i gesti, la musica (altro suo grande tema, torna in alcuni snodi centrali del romanzo), i dettagli che emergono con nitidezza dallacquario ovattato in cui vagano i degenti. Ed è nello stile teso e musicale, in grado di aprirsi con disinvoltura alla levità come a squarci perturbanti, che risiede forse la maggior riuscita dun romanzo sospeso tra Ogawa Yoko e il primo Parise.


Eloisa Morra

domenica 17 settembre 2017

Filosofia del surf secondo Frédéric Schiffter: l'amore è una cosa, i progressi nel surf un'altra

Chissà se il surf è uno dei pochi contesti in cui la parola 'tunnel' ha connotazioni positive. Il tunnel dell'onda è senza dubbio uno dei momenti d'estasi per chi prova a cavalcarla su tavola. Mi domando questo tanti anni fa, in una cittadina del Portogallo, Ericeira ("che si pronuncia quasi come il vostro ieri sera", precisa al telefono il mio ospite, svizzero di origini iraniane che a Ericeira è per lavoro, come me, anche se lui in pianta stabile). Siamo in ottobre; la mattina, quando non è ancora chiaro, ben prima delle riunioni di prodotto tenute sveglie a capsule di Nespresso, si va a surfare. Ci sono anche due possenti inglesi nel gruppo e hanno l'aria di essere i più bravi. L'oceano è entrato per tutta la notte dalle larghe finestre delle camere dell'albergo e le tavole sono belle prima di bagnarsi, in quel poco buio che degrada sempre più, mentre si cammina verso tutta quell'acqua. Quanta acqua. Quello è un posto ricercato da chi ama il surf, si sa, ma anche dalle aziende che vogliono darsi una connotazione surf nel loro periodico "international meeting". Mi è capitato di ritornare su questo ricordo leggendo più passaggi del piccolo libro Filosofia del surf del filosofo surfista amatoriale Frédéric Schiffter (Il Melangolo, pp. 104, euro 8, traduzione di Marta Albertella). Sono per me difficili da affrontare i libri che appiccicano la parola filosofia a qualsiasi cosa. Potrebbero essere assimilati a un genere editoriale, ma se è così io vorrei leggere anche una breve Filosofia del bagnoschiuma. Il Melangolo pare avere inaugurato una piccola serie acquatica, se pensiamo al bel libro di Carola Barbero, filosofa, intitolato L'arte di nuotare. Meditazioni sul nuoto (di cui si è parlato in questa intervista). I precedenti di libri che mescolano filosofia, arte e sport sono illustri, si pensi solo a L'ombra del Massaggiatore Nero di Charles Sprawson. Ad ogni modo, vinta questa resistenza iniziale, il libro di Schiffter vince la sua scommessa. La vince per come delimita il proprio progetto (non esiste una metafisica o un'etica del surf e la parola 'filosofia' del titolo non deve quindi ingannare), convince per passo e strutturazione dell'esposizione (tra l'altro l'edizione francese titolerebbe Petite philosophie du surf). L'autore dice di rivolgersi ad appassionati di meditazioni balneari e potrebbe essere questa una buona chiave per un ufficio stampa che deve lavorare alla promozione del libro. Naturalmente non c'è solo il balneare, ma al fine di entrare-per-uscire in certi giornali serve un Cavallo di Troia, si sa come funziona (l'agenda-setting della macchina dell'editoria è però micidiale e esiziale talvolta, non mi riferisco a casi come questo ma ad altre situazioni per le quali vale il principio dello "stendere un velo pietoso"). Poiché l'estate è ormai finita, secondo me il momento è ancora più giusto per darne notizia in questo posto.

Il libro è ricco per quello che dice circa il surf e la sua tecnica, le parole per dirla, la storia della disciplina, gli incroci con la filosofia e l'estetica in particolar modo, le considerazioni sul rapporto tra onde dell'oceano e diverse popolazioni del globo terracqueo. Non assomiglia a quei libri in cui si tenta di nobilitare uno sport con un susseguirsi di citazioni colte, anche se le citazioni e i rimandi non mancano. Lo sanno tutti - e stavo a Ericeira per questo, alla fine - che attorno al surf gira un'industria abbastanza grossa con tutto il suo indotto, persino quello modaiolo che non ha niente a che fare con tavole e onde ma solo con le t-shirt e le infradito. Però, come per lo sci e altri sport, non v'è bisogno di nobilitare con un libro proprio alcunché, semmai c'è bisogno di capire cosa evocano o attivano delle suggestioni mentali quando si scorre con una tavola attaccata ai piedi sull'acqua. Questo è un pensiero che Schiffter ha fatto e proprio grazie a questa consapevolezza il suo libro non ha tracce di ingenuità o, peggio ancora, di autoconvincimento e autocompiacimento. Che poi il suo trasporto per il surf nasca da una donna e da un innamoramento lo mette in chiaro sin da subito, precisando anche che "l'amore è una cosa, i progressi nel surf un'altra". Ma si sa come vanno anche queste cose, nessuna sorpresa. Comunque, se lo spazio è davvero la chiave per qualsiasi emozione, lo sport triangola continuamente con spazio e emozioni, a prescindere da tutti i discorsi che si possono fare sull'industria che gira attorno a ogni sport. Insomma, avete presente Goffredo Parise quando descrive le sciate sulle Dolomiti? O anche, per stare a autori vicini a noi, come Simone Marcuzzi descrive il formidabile esercizio agli anelli di Jury Chechi alle Olimpiadi di Atlanta? Lì si parla di sport, non di affari milionari (tra l'altro lo sport, questo grande contenitore sovranazionale, è curiosamente trascurato dall'industria del romanzo, almeno mi pare, e se è vero questo fatto la situazione è quantomeno strana). Cerca di parlarci dello sport anche Schiffter, che non è certo ingenuo, nemmeno quando centra subito la questione del paesaggio marino e della natura come finzione poetica. Ad un certo punto lo scrive: l'esercito di fotografi di paesaggi che siamo diventati, specialmente in estate, è solo un (indegno) erede di chi ha isolato questa finzione poetica per primo (i grandi pittori, fondamentalmente). Per di qui arriva una considerazione attorno al sublime dell'onda, e da qui vengono i paragrafi come quello su Defoe: l'odissea interiore del Robinson Crusoe nell'isola fissa per sempre il nuovo miraggio dell'esotismo della solitudine. Il libro è strutturato in brevi paragrafi che vanno a schiantarsi sull'entusiasmo (in senso etimologico) del surfista e perfino sulla sua hybris. La sua onda e il tunnel non sono però metafore di nulla. Il surf è puro dramma, ogni onda che si avvicina è agli occhi e ai piedi di chi l'attende solo un avvenimento gravido di incertezze. Filosofia del surf è un libro breve con poca filosofia e grande temperamento. Mi è parso, tra le altre cose, un bel contraltare a tutta l'accozzaglia di titoli sulla montagna e la "viandanza" che esce in libreria da un po' di anni a questa parte. Chissà che dia una bella equorea spazzata a quell'accozzaglia, che mostri come si può parlare di paesaggi, natura e movimento con intelligenza, senza formare nuove scuole, tendenze o correnti di pensiero. Del marketing che si eleva a filosofia totalizzante o, peggio ancora, che cavalca uno spettro di spiritualità proprio si deve iniziare a fare a meno.

domenica 25 settembre 2016

da "Yellow" di Antonio Porta (in morte di G.P. e sulle campane del Veneto)

Una "poesia" da #61


Rileggendo a distanza di molto tempo Yellow, libro postumo di Antonio Porta pubblicato da Mondadori nella collana Lo Specchio nel 2002 (pp. 172, a cura di Niva Lorenzini, note di Fabrizio Lombardo, difficile reperibilità, costava euro 9,40), mi sono imbattuto nella breve prosa datata 31.8.1986 che propongo di seguito. L'avevo dimenticata in quanto prosa legata alla morte di uno scrittore veneto, mentre qualcosa di questo discorrere sulle campane del Veneto era rimasto sottotraccia. A qualcuno la data avrà già suggerito qualcosa, e comunque non è passato molto tempo da quando, anche qui, abbiamo ricordato la morte di Goffredo Parise avvenuta quel giorno di tarda estate. Il brano che propongo di seguito è interessante perché insegue un fenomeno acustico che non possiamo credere segnatamente veneto ma che tuttavia si può ritenere particolarmente significativo in questa terra di campanili, i quali sicuramente attirano l'attenzione, non solo acustica (accompagnando per lavoro o piacere persone di diversa provenienza noto che, dagli USA alla Cina, restano tutti colpiti da queste torri campanarie che si susseguono ad ogni paesello del Veneto atomizzato). Allo stesso tempo, non credo sia un passo che interessa solo i veneti o chi ha una certa cognizione di campane venete oppure di campane e basta. Ricordo infine che, come Parise, Porta era nato a Vicenza (nel 1935). 




Sento alla radio che questa mattina alle 9 è morto uno scrittore (G.P.). La radio, sono le tre p.m., trasmette un'intervista di un paio d'anni fa. Sento le campane che suonano e per un momento credo che siano di una chiesa vicina. Ma il loro ritmo martellante, continuo mi riporta dentro la radio. Sono campane del Veneto, sullo sfondo dell'intervista a casa dello scrittore, vicino al Piave. Il linguaggio delle campane del Veneto è per me inconfondibile. Che cosa dice? Ecco, per rispondere a questa domanda dovrei raccontare 15 anni della mia vita, una donna, due figli, una morte (mio fratello). Le campane del Veneto suonano monotone, sempre identiche, sullo sfondo. Non sono funebri, non parlano di morte piena, ma neppure di vita piena. Non so, non voglio, non posso sapere. Scrivo qui forse per dire che non voglio rispondere.
Il sonno come esperienza della morte quando il corpo si irrigidisce troppo nel sogno. La coscienza scompare resta la visione. 
Le campane del Veneto sono come il primo suono, lontano e vicino, ascoltato dall'uomo. Come il motore di un piccolo aereo vuol dire, per me, annuncio di estate e sabbia e luminosità, così le campane del Veneto significano eros, voglia ininterrotta d'amore. Il linguaggio di quelle campane è (univoco dunque) interpretabile all'infinito: ognuno può sovrapporci, come le parole di una canzone, la propria esperienza, ecc. ecc. 
31.8.1986 

mercoledì 31 agosto 2016

Il volume di "Riga" dedicato a Goffredo Parise (e un frammento inedito sull'Arizona)

Riviste #8


Da pochi giorni è in libreria il trentaseiesimo volume della rivista "Riga" dedicato a Goffredo Parise (Marcos y Marcos, pp. 544, euro 28, a cura di Marco Belpoliti e Andrea Cortellessa). La pubblicazione coincide con il trentennale della morte dello scrittore, avvenuta il 31 agosto 1986 all'ospedale di Treviso. I motivi per avvicinarci al fascicolo sono numerosi. Questo contiene infatti, oltre a una prima serie di scritti originali di autori contemporanei (Andrea Bajani, Giuseppe Montesano e Vitaliano Trevisan), una sezione di narrazioni inedite, una di "Luoghi scritti e reportage", ampi stralci di diari e carteggi (particolarmente significativo quello con Italo Calvino, per le questioni editoriali emergenti ma non solo) e raduna due sezioni di testi critici, già editi altrove ma anche inediti, progettati appositamente per questa pubblicazione. Le pagine sono intervallate da un apparato iconografico di foto e dalla "Galleria" di Giosetta Fioroni che chiude il volume. Nelle due sezioni di inediti parisiani spicca sicuramente la pubblicazione del romanzo inedito del 1977 intitolato La politica (trotto leggero). Dalla sezione dei "Luoghi scritti e reportage", per concessione gentile dei curatori, pubblico uno dei "Due frammenti inediti sull'America (1961)". Il primo è dedicato a New York mentre il secondo, che trovate di seguito, all'Arizona. Dopo il frammento trovate la breve nota di Dario Borso.



Arizona  
di Goffredo Parise

(testo tratto da "Riga 36. Goffredo Parise", Marcos y Marcos, 2016)


Sulla grande autostrada che attraversa il deserto dell’Arizona, a 400 miglia da Albuquerque nel Nuovo Messico e a 300 da Las Vegas in Nevada, improvvisamente, la rossa Chevrolet, ippogrifo del nuovo mondo, si ferma. Non c’è benzina, per la terza volta da che si è iniziato questo viaggio, e sempre per colpa mia, per mia pigrizia. La prima volta l’alato carro si fermò davanti a un distributore, la seconda a poche miglia da una città e un camionista ci regalò una tanica, la terza, questa, ci sor­prende nel mezzo di un deserto. Ai due lati dell’autostrada, giallo deserto di pietra, cactus, fallica protuberanza di un terreno senza speranze, e ai due lati all’orizzonte fino a congiungersi davanti ai nostri occhi, immenso anfiteatro, i profili delle montagne da cui sale la notte. Non c’è nulla da fare. Non passa nessuno. Ci mettiamo sulla strada, aspettiamo, mezz’ora, un’ora; si avvicina un enorme camion da trasporti, transatlantico viag­giante su terra, con comignolo. Si arresta. Il mio compagno di viaggio, che conosce l’inglese molto meglio di me, sale con loro per fare qualcosa, per muoversi dall'immobilità, per accennare a un moto verso luogo che in questo caso significa trecento miglia prima di giungere ad una pompa di benzina. Attivo, e storico, di temperamento, egli decide appunto di costruirsi l’avvenire con le proprie mani. Un poco meno storico, io decido di rimanere ad attendere. Chi? Che cosa? Nulla, so bene che attendere nel cuore dell’Arizona non può avere che un significato, attendere che corvi aquile e sciacalli degustino me e l’ippogrifo Chevrolet, ma così ho deciso; di seguire la mia apparente antisto­ria, cioè la pigrizia, il non desiderio d’azione in un mondo (anche nell’Arizona) volto all’azione nell’azione.
  Vedo l’enorme transatlantico nerastro fumare via come un gio­cattolo nella retta matematica della strada, e scomparire, lui, i viventi e la storia medesima.
   E resto così solo, nel cuore di que­sto deserto. Fumo qualche sigaretta nell’auto, poi scendo a fare quattro passi. Intanto il sole, sceso oltre le lontane annebbiate montagne, ha portato con sé gli ultimi bagliori di luce. E la notte scende rapidamente sull’infinita distesa di uno dei più bei paesaggi del mondo, il deserto. Con la notte salgono le stelle e la luna. Continuo a camminare tra i sassi, ascoltando i mille fruscii di animali che conosco, il fruscio delle biscie, di certi topolini che appena scorgo correre e nascondersi in certe buche dopo avermi osservato a lungo con un minuscolo bagliore d’occhi rossastri da dietro le spine di un cactus: altri versi, suoni infiniti di una natura che non conosco. Seguito il cammino. Guardo dietro di me in direzione della strada dove ho lasciato l’auto con i fari accesi. Sono lontani, molto di più di quanto non pensassi. E allora, quando il senso delle distanze reali, ogget­tive e non quelle interiori, che pur sono immense prende i suoi aspetti prospettici, allora mi vien voglia di continuare a camminare nel deserto, in direzione delle montagne. Cammino per qualche ora senza accorger­mene. Solo, dopo questo tempo, quando volgo lo sguardo in direzione dell’autostrada, nord-est a giudicare dalle stelle, non vedo più i fari della Chevrolet. E inizia così, una edificante sensazione di solitudine assoluta, cioè di intensa riflessione, di dolore delle cose del mondo.
   La luna illumina davanti a me la distesa di sassi e di cactus che proiet­tano una lunga ombra trasversale. Un poco più in là strane ombre, per­forate dai raggi lunari, enormi crani, teschi che formano una collinetta. Mi avvicino a passo svelto. A mano a mano che le distanze si accorciano riconosco in quelle ombre carcasse di automobili, di autocarri, di pullmans. Abbandonate da anni e trasportate fin là chissà come. È una sorta di città defunta, a seconda delle dimensioni delle carrozzerie, può apparire all’occhio fantastico, non storico, non realistico, una defunta città futura. Mi aggiro tra le carrozzerie, in questo dedalo vastissimo, in questo gigan­tesco incidente automobilistico, tra le lamiere contorte, i vetri rotti, i sedili sfondati dell’inutile. Così osservando mi accorgo di non essere solo. Un gatto selvatico balza fuori da una finestra di pullman curvo, col pelo ritto, urlando. Subito seguito da una folla di gatti in fuga che corrono a nascon­dersi nelle forre, negli anfratti, nei buchi di quella montagna di lamiere contorte. Per qualche istante ancora silenzio, poi un miagolio diffuso, che sale dall’oscurità dei cofani, delle carrozzerie, dalla iuta delle imbottiture. Poi altre fughe, poi silenzio. Mi allontano.
   Sono stanco e mi siedo. Non posso sdraiarmi perché il terreno è cosparso di sassi aguzzi, appuntiti e nemmeno un filo d’erba: secchi e infidi cespugli bruciati nascondono nell’erba la puntura mortale, dell’insetto mortale, che è lì; per me, creato apposta per me, per finire, per rendere una buona volta concluse nello stabile equilibrio le antinomie, i dubbi, i tentennamenti, i punti oscuri dell’essere mio. Mi alzo, cammino ancora in direzione della Chevrolet, che non vedo.

 
Nota 
di Dario Borso


Durante il suo primo viaggio negli Stati Uniti, svoltosi tra il 20 marzo e il 25 aprile 1961, Goffredo Parise scrisse un mazzetto di lettere all’amico Vittorio Bonicelli, allora in forze come sceneggiatore presso la casa di produzione cinematografica Dino De Laurentiis. Scopo non secondario delle lettere, che sarebbero uscite postume trent’anni dopo per la Mondadori nella raccolta Odore d’America, era di suggerire spunti per un film americano di cui non si fece nulla. Parise coltivò invece l’idea di farne un libro di viaggio a sé, come testimoniano due frammenti conservati all’Archivio Parise di Ponte di Piave, che rielaborano due lettere, rispettivamente da NY del 20 marzo e da Las Vegas del 12 aprile: il primo segue abbastanza fedelmente l’originale, inserendo però all’inizio un episodio nuovo di zecca che riporto qui sopra; il secondo riguarda lo stesso episodio della lettera, variandone però radicalmente gli ingredienti, e perciò lo riporto per intero.
   Quanto alla data del rifacimento, posso avanzare solo un’ipotesi: poco dopo il rientro in Italia, basandomi su due elementi: Suor Bertilla Boscardin di Brendola (VI), cui s’accenna nel primo frammento, fu santificata l’11 maggio 1961 con gran risalto locale, e il momento topico dell’episodio nuovo lì inserito ricorda platealmente l’ultimo capitoletto degli Americani a Vicenza, scritto da Parise pochi anni prima.

mercoledì 27 luglio 2016

"Addii, fischi nel buio, cenni" di Silvio Perrella: trent'anni di scritti critici in un volume di Neri Pozza

Ha il pregio della semplicità della scansione temporale Addii, fischi nel buio, cenni (pp. 384, euro 18), volume di Neri Pozza dal titolo ternario e montaliano che raccoglie tre decenni di contributi critici di Silvio Perrella, molti dei quali scritti per il quotidiano partenopeo "Il Mattino". Per chi legava il suo nome principalmente a Calvino, La Capria e Parise, autori ai quali ha dedicato monografie e curatele significative, è questa l'occasione di verificare la gittata e la larghezza dello sguardo sul panorama della letteratura italiana del Novecento. Di certo calviniano suona il sottotitolo del volume, che non compare in copertina ma solamente in frontespizio: La generazione dei nostri antenati. E a un giovane Parise, autore che con l'editore Neri Pozza esordì (Il ragazzo morto e le comete, 1951) è dedicata la copertina. Ma non è solamente Parise il protagonista di queste pagine, che interesseranno sicuramente, ad esempio, chi cerca contributi distanziati nel tempo su Cesare Garboli o Anna Maria Ortese (qui rappresentata dagli scritti di viaggio de La lente scura e da L'infanta sepolta). E cito questi solo per far due nomi. In questi ultimi due casi Perrella sa porsi con larghi motivi di interesse e di novità di sguardo davanti ai propri lettori, siano essi già acquisiti o nuovi.

Emblematicamente però il volume si conclude con una rilettura de I sommersi e i salvati di Primo Levi e crea un'arcata di ponte tra il romanzo che per Perrella apre il secolo Ventesimo, La coscienza di Zeno (1923), e l'opera dello scrittore torinese. Restando in Piemonte "la descrizione di una foto" di Fenoglio non mancherà di colpire i tanti amanti della scrittura e dello stile fenogliano. Questo brano con me è riuscito in quello che un buon contributo critico dovrebbe quasi sempre riuscire a fare: condurre a una lettura o rilettura, così è stato con il Fenoglio di Un giorno di fuoco. Racconti del parentado, con quella doppietta indimenticabile dedicata alle spose, una "bambina" e l'altra "bagnata". Letture fradicie, come spesso accade in Fenoglio, scrittore che fa piovere spesso nei suoi libri. Ma non mancano contributi dedicati a scrittori meno frequentati e i cui nomi rimpallano più di rado negli scritti giornalistici sulla letteratura, spesso colpevolmente: Carmelo Samonà, Nicola Chiaromonte, Enzo Striano, il Ricordo di Anna Paola Spadoni di Giuseppe Mazzaglia, Luigi Compagnone.

Volendo seguire la struttura e l'indice e scoperchiando il volume, anticipiamo che il lettore troverà scritti brevi ma anche più articolati e lunghi su Lalla Romano (Nei mari estremi), incursioni sugli autori più assiduamente studiati (La Capria, Calvino e Parise), una circumnavigazione del mistero di Silvio D'Arzo (visto anche in una sorta di trio o "linea" emiliana con Arturo Loria e Antonio Delfini), i due Rea (Domenico e Ermanno), su altri siciliani come Sciascia, sui poeti Caproni, Sereni, Montale o Fortini. Ma a mio avviso importante, in questa raccolta di una cinquantina di scritti, è quello dedicato a Mario Pomilio e a Una lapide in via del Babuino, alla napoletanità lucente di Pomilio, laddove "il nocciolo saggistico di Pomilio viene portato a incandescenza e fuso in una narrazione di viva intelligenza emotiva", ma anche a quella "terza persona di uno scrittore che forse non scrive più".

Più che un livre de chevet, questo genere di raccolte corpose di contributi critici col sottoscritto funzionano come "livre du bidet", e non certo in senso dispregiativo o ironico, anzi: essendo infatti composte da saggi brevi e tutti autonomi, leggibili singolarmente, si prestano alla lettura frammentata negli interstizi di una giornata, prassi contro cui un romanzo, ad esempio, chiamerebbe vendetta. Di certo il montaggio di questi tre decenni di letture critiche incomincia a offrire una chiara autonomia e portata e questo libro lo dimostra. Sarebbe ingiusto chiudere senza riconoscere a Silvio Perrella questa attenzione e questo merito oramai trentennali. Finita l'epoca dei Luigi Baldacci, di alcuni sguardi di Pier Vincenzo Mengaldo, dei Giacomo Debenedetti, dei Franco Fortini e dei non pochi scrittori-critici (penso a Cases, Magris, Pasolini, Zanzotto tra molti altri) iniziano a scarseggiare questi utili coni di luce su porzioni delimitate di storia letteraria. Non è una questione di canone, bensì, più semplicemente, di letture e scritture. In questo spazio Perrella ha collocato una lanterna che fa di tutto per non ridursi mai a lanternino.

lunedì 18 aprile 2016

da "Poesie" di Goffredo Parise: tempestività e inevitabilità totali

Una poesia da #59


Poco si ricorda del Parise poeta. In effetti la sua eredità in tal senso non è voluminosa, è piuttosto luminosa. Si può auspicare che un anniversario, come il trentennale della morte che cade quest'anno, riporti l'attenzione anche su quest'aspetto tardo e non meno interessante della scrittura parisiana, possibilmente in un percorso di analisi non improvvisato e avulso come questo. Si trattò comunque di dettatura, più che di scrittura: le trenta poesie pubblicate da Rizzoli nel 1998 in un'edizione di pregio con l'introduzione di Silvio Perrella (ora fuori commercio, ma sicuramente disponibile in molte biblioteche) sono il frutto di due mesi di dettatura a Giosetta Fioroni e all'amica Omaira Rorato, tra il marzo e il maggio 1986 (Parise morirà di lì a tre mesi, a fine agosto). Lo scrittore, ormai molto malato, fu infatti preso da una strana e cieca (anche fuor di metafora) foga dettatoria che diede vita a versi insoliti per il panorama poetico novecentesco italiano. Mi è capitato di rileggerli poco fa, diciotto anni dopo la prima spaesata lettura. Tra coloro che seppero intravedere in questi "tempestività e inevitabilità totali" vi fu Andrea Zanzotto, che mai si stancava di ricordare questo nucleo di poesie con le quali lo scrittore salutò la vita, invitando a leggerle e studiarle fuori dai tanti solchi in cui Parise fu fatto scorrere (il vitalismo ereditato da Comisso, il poeta-non-poeta dei Sillabari, il darwinismo acuto dell'ultima fase). E allora non andrebbe nemmeno dimenticata, nella direzione opposta, la felice intuizione parisiana sull'inversione della sonda/trivella zanzottiana a un dato punto del suo lungo percorso poetico, poiché son proprio sonde e trivelle che più ci interessa individuare nelle opere e anche nei percorsi della critica.

Fu "stile tardo" quello di questi versi, per usare la formula di Edward Said? Non lo sappiamo e non è questo il posto per provare a confermare o confutare un'idea del genere. Certo che Perrella ha ragione a scrivere di "parola estrapolata dal tambureggiamento primordiale" e tutto ciò è ravvisabile nelle scelte lessicali e persino nei neologismi arditi che costellano la trama di questi testi terminali (si legga anche nel testo riportato in fondo). Poiché è stato citato, ricordo che del curatore Silvio Perrella è da poco stato riproposto Fino a Salgareda - stavolta per Neri Pozza, editore che nel 1951 pubblicò il romanzo d'esordio di Parise, Il ragazzo morto e le comete - un interessante saggio uscito originariamente per Rizzoli che a suo tempo fu capace di offrire una sonda interpretativa nuova della scrittura "nomade" di Jaufré.

In un'intervista di pochi anni precedente la morte (leggibile per intero qui), parlando proprio del morire, Parise aveva detto:
"Ho una paura tremenda, e basta. Paura del niente, del fatto che non mi sveglierò più al mattino a guardare il cielo. Questa consapevolezza mi dà un dolore immenso. Mi piace enormemente vedere il sole, le persone, la vita. Molto." 
Dicendo vita avrà avuto in mente anche il cane Petote, "tra coloro che non fanno banda" e questa è la poesia-ritratto che gli dedicò.


PETOTE


Come me anche tu
cerchi compagnia
ma non tra i canini

Diffidi dei proverbi
e a Darwin credi
quanto basta per esistere

Ma sai che l'onore
ha regole senza specie
il pedigree obbedisce
a chi gli è simile

Magra è l'onda
della bestia di stile
e tu sei bestia di stile
sei tra coloro
che non fanno banda

Pensiero di setola
ma olore di lord
ti degnò la magra
la sprecona lady
dell'universo.



23.4.86


lunedì 21 marzo 2016

La scrittura della violenza e i sentimenti elementari. Un'intervista a Lucia Rodler sull'opera di Goffredo Parise a trent'anni dalla morte

Librobreve intervista #66


Goffredo Parise (Vicenza, 1929 - Treviso, 1986)
Il 31 agosto di quest'anno sarà trascorso un trentennio dalla morte di Goffredo Parise, avvenuta a 57 anni non ancora compiuti all'ospedale di Treviso, dopo una lunga serie di sofferenze cardiache e dialisi. Sono già diverse le iniziative e le pubblicazioni che si immaginano per questo anniversario. In anticipo, già lo scorso anno Adelphi aveva mandato in libreria «Se mi vede Cecchi, sono fritto». Corrispondenza e scritti 1962-1973, ovvero il carteggio con Gadda curato da Domenico Scarpa. S'annuncia anche un numero monografico della rivista "Riga", curato da Marco Belpoliti e Andrea Cortellessa. Oggi vogliamo dedicare attenzione al recente studio di Lucia Rodler, docente allo IULM di Milano. Si intitola Goffredo Parise, i sentimenti elementari e l'ha pubblicato Carocci nelle ultime settimane (pp. 224, euro 17).


LB: Come si dice ai colloqui di lavoro, "le faccio una domanda cattiva". Io vorrei partire in medias res, anzi, vorrei partire postumo, cioè dal romanzo L'odore del sangue. Quando lessi il libro lo trovai una delle opere più radicali e coraggiose di Goffredo Parise, quasi come il suo esordio (anche se per motivi ovviamente diversi). Ad un livello critico è invece questa l'opera che più ha diviso, anche in seguito al film che ne ha ricavato Mario Martone. Qual è il suo punto di vista sul dibattito che riguarda il "libro postumo"?
R: Sono contenta che mi faccia questa domanda perché ammetto di essermi avvicinata a L’odore del sangue con numerosi pregiudizi, suggeriti da una certa critica al libro e alla versione cinematografica (che non mi è piaciuta anzitutto perché altera l’equilibrio particolarissimo tra dialoghi e fantasie del romanzo). Ma subito mi ha conquistato il racconto senza censure della violenza delle parole dell’intimità (quelle di Filippo e Silvia, marito e moglie cinquantenni che si raccontano i rispettivi tradimenti) sullo sfondo della violenza sociale e politica degli anni di piombo, cioè gli anni Settanta. Perciò mi trovo del tutto d’accordo con quella critica (da Cesare Garboli ad Arturo Mazzarella) che ha parlato di un romanzo in qualche modo necessario che produce un turbamento complesso, verbale, sensuale, relazionale.


LB: Ritorno ora doverosamente al suo libro da poco edito da Carocci che è un'utile monografia su tutta l'opera dello scrittore del "Veneto barbaro di muschi e nebbie" che girò tutti i continenti. Quasi ogni lato del "poligono-Parise" è affrontato nel suo contributo. Se però domani dovesse approfondire uno di questi lati della sua attività di scrittore cosa sceglierebbe? E soprattutto, al di là dell'approccio generale, quale luce specifica ha cercato di gettare sull'opera e quali incendi ha tentato di appiccare, magari sugli aspetti più controversi?
R: Non amo appiccare incendi e preferisco cercare di comprendere la complessità di uno scrittore, senza necessariamente fare riferimento agli aspetti controversi. Perciò nel testo ho sottolineato ciò che mi ha più colpito, e cioè la ricerca costante e pertinace del nucleo di violenza nascosto dietro ogni spazio, ogni circostanza, ogni individuo, ogni popolo, ogni oggetto, ogni azione, ogni evento. E da questo punto di vista approfondirei il romanzo Il fidanzamento e la raccolta di racconti brevi contenuta nel Crematorio di Vienna. Sono due testi che concentrano in modo splendido la capacità che Parise ha dimostrato nel descrivere la violenza sia privata, familiare, sia pubblica, lavorativa.


La casa in golena del Piave, a Salgareda
LB: Il titolo del suo libro è un omaggio ai Sillabari. Rappresentano davvero il culmine della sua scrittura, a suo avviso? Esistono dei sentimenti, altrettanto elementari, coi quali andrebbero "aggiornati" i Sillabari oggi, quasi mezzo secolo più tardi?
R: Il titolo del volume non è una invenzione dell'editore o mia, ma una citazione. In almeno due circostanze infatti Goffredo Parise afferma di essersi occupato dei sentimenti elementari della vita umana. E non fa riferimento solo ai Sillabari dove, peraltro, accanto ai sentimenti, ci sono le emozioni, le sensazioni, le passioni, insomma le varie forme del divenire umano. E per questo, forse, i Sillabari sono racconti senza tempo, che commuovono e fanno pensare. Sono brevi, spesso hanno un finale inaspettato che non offre una soluzione, ma solleva dubbi e interrogativi sui rapporti umani. Da questo punto di vista rappresentano una prova eccezionale della scrittura parisiana e non vanno aggiornati perché si rinnovano ogni volta che un lettore li rilegge e prosegue dentro di sé la riflessione, ricordandone qualcuno e non qualche altro, raccontandone qualcuno e non qualche altro.


Prima edizione
LB: Spesso vediamo nei Sillabari il libro della fama e della notorietà, eppure non bisogna dimenticare che Parise fu un autore di successo già da subito. Quello che fa impressione oggi è come ricordiamo i primi titoli (Il ragazzo morto e le comete, La grande vacanza, Il prete bello). Sono davvero titoli fondamentali di un'epoca del nostro paese, naturalmente assieme ad altri titoli di altri autori. Sembra davvero un altro mondo quello. Oggi faticheremmo a citare dieci titoli che rimarranno nell'immaginario (almeno quello letterario o delle persone "che leggono") tra quelli usciti negli ultimi 15 o 20 anni. Non crede che sia cambiato qualcosa in quello che potremmo chiamare, magari volgarmente, la "filiera produttiva" del romanzo? (Non mi riferisco necessariamente all'editoria e non è questa una domanda di editoria soltanto).
R: Non sono d'accordo sul fatto che oggi non potremmo fare un elenco di autori, di romanzieri in particolare, che possano rimanere nell'immaginario. Senza dubbio molte cose sono cambiate, soprattutto nei lettori che si costruiscono un canone individuale, scegliendo testi di scrittori stranieri, italiani, migranti, leggendo opere nella lingua originale, insomma avendo a disposizione molte più opzioni di un tempo. E questa è una fortuna, a mio avviso. Significa che le biblioteche personali sono inclusive, che non esiste più l'idea di un canone unico e indiscutibile. Il problema è piuttosto che i lettori sono ancora troppo pochi, almeno in Italia.


In Vietnam
LB: Da un punto di vista stilistico, uno degli aspetti meno studiati di Goffredo Parise è forse il reportage, genere che tuttavia ha contribuito alla notorietà dello scrittore. Quali aspetti stilistici citerebbe come aspetti fondamentali introdotti dal Parise giornalista di guerra?
R: Trovo che la scelta di intervistare la gente del posto e riferirne le voci sia l'aspetto più interessante della scrittura del Parise reporter perché risponde all'esigenza di evitare i luoghi comuni, gli stereotipi, i pregiudizi che ogni individuo si fa su un popolo altro da sé. E questo riguarda il coraggioso reporter della guerra del Vietnam che unisce al diario, toccante, della sua trasferta presso l'esercito americano, una straordinaria intervista al comandante supremo delle forze americane William Childs Westmoreland che espone il suo punto di vista sul conflitto. E lo stesso metodo si ritrova anche nel reporter che racconta la Cina, il Biafra, il Laos e il Cile.

LB: Una deviazione ora: una riabilitazione o riavvicinamento a Parise potrebbe comportare, quasi come un automatismo, una parallela "riabilitazione" o un tentativo di riproposta dell'opera Giovanni Comisso, che fu a tutti gli effetti un maestro per Parise. A ben vedere però, nonostante il Meridiano, sembra che le cose per Comisso non stiano proprio così...
R: Al proposito conviene forse interrogare gli studiosi di Comisso. Mi permetto solo di dire che gli automatismi non riguardano la critica letteraria.



Il cuore di Giosetta Fioroni
LB: Questa sua ultima puntualizzazione sugli automatismi che non devono riguardare la critica letteraria è molto interessante perché mi sembra densa di conseguenze, a maggior ragione se pensiamo che certi automatismi (o certe associazioni) governano talvolta le mosse della critica, soprattutto ad un livello di "nomi", più o meno consciamente. Ma fermiamoci. Un'ultima domanda: leggere Parise, soprattutto agli albori, assomiglia al perdersi dentro un quadro di Chagall. Per chiudere le vorrei chiedere però di un'opera (quadro, foto, scultura) che per lei ha senso ricordare parlando di Parise. Faccio insomma una "domanda cattiva" anche in chiusura e non vale la "Mademoiselle Pogany" di Constantin Brâncuşi di cui la casa di Ponte di Piave dello scrittore conserva una copia in giardino. Grazie.
R: A dire il vero non c'è cattiveria nella sua domanda. Senza dubbio ricorderei un'opera di Giosetta Fioroni, la compagna di Parise che è una pittrice e un'artista che Goffredo Parise ricorda anche in uno splendido articolo del 1965 sulla Pop-art italiana, raccolto nella silloge Artisti. E sceglierei il cuore rosso rappresentato sulla copertina del primo Sillabario nell'edizione Einaudi del 1972 (foto a lato: smalto rosso con foglie piume e sassi, sempre del 1972, ndr) perché rappresenta in un modo discreto, allusivo, denso, uno dei sentimenti elementari più importanti per un autore che ha analizzato la violenza tra gli individui.

venerdì 7 febbraio 2014

Brancusi fotografo

Chi ha visitato la casa di Goffredo Parise, non tanto lo spoglio buen retiro in golena del Piave a Salgareda, bensì l'altra, quella davanti alle scuole in paese a Ponte di Piave ("la prima vera casa o home della mia vita" scriveva contento nel 1984, a due anni dalla morte), si sarà aggrappato a determinati oggetti. Se uno ci arriva dopo aver letto delle sue discese sulla neve, una parte importante dei Sillabari, è probabile che si soffermi un po' davanti agli scarponi da sci, come è capitato a me (forse anche per deformazione lavorativa), oppure davanti a certi arredi (alle bianche poltrone!). Uscendo nel verde, in uno dei "due giardini" tra i quali la casa rossa si incastra, viene normale compiere il periplo della copia di "Mademoiselle Pogany", la statua di Costantin Brancusi. Mi sono spesso chiesto del perché di quella statua e del perché di Brancusi. Non che abbia trovato risposte illuminate al mio peregrinare interrogativo, tuttavia, sfogliando questo volume dedicato alle fotografie lasciate dallo stesso artista rumeno e pubblicato da Abscondita (Brancusi fotografo, pp. 153, euro 33, a cura di Paola Mola), mi pare ora di girare meglio anche per la casa che accolse Parise negli ultimi anni di vita e forse anche di girare meglio attorno a Mademoiselle Pogany.

Colonna senza fine
A dire il vero, più che una circolarità, mi pare sia una una sorta di verticalità che spicca in questo lavoro fotografico, ad esempio nelle varie foto che l'artista dedica alla celebre "Colonna senza fine" oppure all'enigmatico "Uccello nello spazio". Le fotografie che Brancusi scatta ai propri lavori o a certe vedute dell'atelier parigino di Impasse Ronsin sono parte viva e non collaterale della sua arte. Fotografia e scultura diventano davvero due facce che non si possono delaminare, due sostantivi che si declinano nello stesso caso, genere e numero. L'artista contadino nato nel 1876 nel villaggio rumeno di Hobiţa, al cospetto dei Carpazi, non amava spiegare il proprio lavoro sulla materia (legno, alabastro, marmo, bronzo, gesso, tanto gesso, chiodi ecc). In fondo la consapevolezza di un artista, anche quella teorica, a patto che ci sia davvero, si può spiegare nei modi più disparati, non necessariamente con tomi vergati magari da tediosa speculazione. E a suo dire, bastavano le fotografie che egli stesso dedicava alle sue creazioni per "spiegare" il suo lavoro d'artista. Pensando anche alla centralità che occupano i nomi/titoli delle sue opere, e da egli stesso sottolineata in alcuni aforismi, la scultura fotografata diventa un nome e un titolo (s)colpito e sostanziato dalla luce. Quando ritrae "Leda", Brancusi dimostra un approccio addirittura cinematografico. Quest'insieme di foto radunate da Abscondita e da Paola Mola diventa allora importante per addentrarsi persino nel non trascurabile rapporto tra forma e piedistallo delle sue opere. Brancusi lavorò molto anche su questo aspetto, e tutto ciò emerge bene da questo nucleo di foto, e in tutto questo possiamo ravvisare anche un'eco prolungata di quel discorso che uno dei più importanti scrittori amici, Ezra Pound, fece sull'accumulo delle forme che percorre trasversalmente l'intera sua opera.

Uccello nello spazio
Diceva Costantin Brancusi che la scultura è "l'acqua, l'acqua". Sicuramente qualcosa della levigazione dell'acqua è riposto nel suo magazzino di forme. L'atelier stesso è ritratto in momenti diversi, da angolature e altezze nuove ogni volta, immerso in luci diverse. Non c'è tormento creativo in Brancusi, c'è gioia, e ripenso che anche questo aspetto mi riporta a Parise. Eppure è preservata integra la tragicità di quelle "apparizioni larvali" (Montale) che, dalla "Musa addormentata" al "Bacio", riservano - almeno per me - anche etruschi rimandi con il lavoro quasi coevo di Arturo Martini. E non c'è l'incompleto o il non-finito nella sua scultura: la forma deve riposare nella materia (per questo la fotografia?). E allora ritorna l'interrogativo che personalmente trovo sempre più affascinante: quando un'opera d'arte è detta/pensata conclusa? Questa è la domanda che vorrei spesso fare ad ogni artista, ai poeti. Non è tanto l'inizio che interessa, l'attacco, neanche in una poesia, ma diventa molto più interessante capire quando una poesia si ritiene conclusa, finita. E queste forme di Brancusi che riposano, riposano spesso in un colore, quello che assomma in sé la luce, il bianco, riverberato dalla presenza diffusa di un materiale tradizionale e in fondo scolastico come il gesso, anche per terra e nell'aria, nell'atelier, o persino nei suoi cani somoiedi bianchi alimentati a latte bianco in una ciotola bianca. Costantin Brancusi fu anche tutto questo, scultore-fotografo e scultore-scrittore (scultura e scrittura condividono radici linguistiche, scrab e scar).

Il numero 19 di "Riga"
Il volume di Abscondita curato da Paola Mola raccoglie in chiusura interventi di Ezra Pound, Michael Middleton, Paul Morand, Eugenio Montale (in una veste di timido reporter accolto nell'atelier e invitato pure, a tempo debito, ad andarsene), Henri-Pierre Roché e Man Ray. Ricordo inoltre che negli ultimi tempi s'è rivisto in libreria pure il diaciannovesimo numero della rivista "Riga" dedicato all'artista, meritorio progetto monografico a cura di Marco Belpoliti e Elio Grazioli, uscito anni fa e ora riproposto in edizione ampliata, sempre dall'editore Marcos y Marcos. Sono tutti brani fondamentali per ricostruire la bibliografia italiana su Costantin Brancusi. Nel volume di Marcos y Marcos troverete, tra gli altri, anche un prezioso contributo di Rosalind E. Krauss, poesie di Jean Arp, altri saggi (ricordo John Berger, Mircea Eliade, Michel Frizot, Sidney Geist, Ettore Sottsass) e "interventi visivi" di Aurelio Andrighetto, Dario Bellini e della stessa Paola Mola.

martedì 29 ottobre 2013

"Dobbiamo disobbedire", le risposte di Goffredo Parise ai lettori dalle pagine del Corriere della Sera

Dobbiamo disobbedire (Adelphi, pp. 76, euro 7) è ricavato in parte da Verba volant. Profezie civili di un anticonformista, libro assai più corposo curato sempre da Silvio Perrella per Liberal Libri nel 1998. Il curatore ci fa presente che gli scritti scelti per questa silloge sono quelli dove lo scrittore, "scrollandosi di dosso la cenere dell''attualità', rende visibile il fuoco sottostante." Vi riscopriamo un Goffredo Parise magnificamente abbandonato, tra la pedagogia e la fantasia. Questa una delle sue cifre. Il volume raccoglie alcuni interventi giornalistici nati attorno a una rubrica che nel biennio 1974-75 lo scrittore veneto tenne sulle pagine del Corriere della Sera. Trovo significativa la collocazione temporale di questo esperimento accolto con entusiasmo da Parise, con un abbrivio poi esauritosi naturalmente, e per la stanchezza accumulata, e per la difficoltà di trovare lettere che lo "aiutassero" davvero a scrivere qualcosa di significativo e pedagogico, stimoli veri per immaginare il futuro e non per rimpiangere inutilmente il passato, lettere-stimolo insomma che non fossero pavide o a circuito chiuso, per nulla dialogiche. Dicevo della significativa collocazione temporale di quest'esperienza, tra la pubblicazione del primo volume einaudiano dei Sillabari e prima della stesura di quel gran libro, scritto sul finire dei Settanta ma pubblicato solo dopo la morte, che si scopre ne L'odore del sangue. Il funzionamento della rubrica del Corriere era quello "classico" di un autore affermato che risponde ai lettori del grande quotidiano "nazionale". Scrivo "classico", ma nello stesso tempo mi chiedo quale autore affermato abbia poi ripetuto l'esperimento riuscendo a suonare con tanto coraggio la tastiera del dialogo con i lettori di un quotidiano. Scrivo quotidiano "nazionale" ma nel farlo mi chiedo se già allora il Corriere vendesse poche copie fuori dalla Lombardia. Parise accettò quel lavoro giornalistico anche per "curiosità umana" (lo afferma lui stesso), la stessa molla che anni prima l'aveva condotto a passare a quello stesso quotidiano scritti di ben altra natura dalle zone calde del pianeta. In questi scritti niente Birmania, Laos, Vietnam, Cina o Biafra, niente frigida eleganza giapponese: qui troverete solamente l'Italia.

Ho letteralmente massacrato questo libretto leggerissimo di pesanti orecchie, tanti sono i passi memorabili della scrittura di Parise e tanto significativi sono pure i brandelli di lettere che Parise preleva e campiona con la sua nasuta sonda, nel gran mare della corrispondenza che non di rado lo accusa, lo biasima o, manco a dirlo, lo taccia di essere, a seconda dei casi, comunista o fascista o giù di lì. Verrebbe da dire che da buon medico, usando i sensi e la lingua, Parise individua molti dei sintomi dei cancri italiani (cosa che del resto aveva già iniziato a fare con Il prete bello o Il padrone). Quest'abilità di diagnosi appare chiara, finanche lampante, quando parla della "povertà", che significa capire bene fino in fondo ciò che è "necessità", capire le differenze tra le cose in un paese che è diventato "un'enorme bottega di stracci non necessari", un rimedio nella "povertà" - aggiungo ora, in questi giorni - ben lontana dalle favolette delle "decrescite" che tengono banco da anni, con aggettivi qualificativi plurimi, in calderoni d'opinioni che si crogiolano spesso in bassezze e vigliaccherie, come quelle dell'agroalimentare minimal-slow-OgmFree per partito preso (signori miei come si tiene in vita una popolazione mondiale in crescita? Tutti alimentati con l'agnello dell'Alpago presidio slow o a pane, magari non banale pane ma un "Pan di Sorc" e "botìro di Primiero di malga"? O con innovative ricette ottenute mischiando la "Pecora Villnösser Brillenschaf" con "Aglio di Resia"? Che vivacchi pure lo Slow Food nel suo territorio definito in negativo rispetto al Fast Food, ma che non si spacci per cultura un'invenzione del marketing più territorialmente segmentato, per quanto possano essere buone le sue cose da mangiare o da bere). Quasi ci inquieta leggere le pagine dove Jaufré "incapsulato / in una botte" (sono i versi lagunari di Montale a lui dedicati) prende di mira quell'uccellin di lettore che vorrebbe un'esperienza di lettura del giornale rilassante ed evasiva, senza le brutte notizie, o quando mette a segno un altro colpo da maestro del giornalismo parlando della dissonanza tra l'umanesimo che impronta l'offerta scolastica italiana, allora come oggi, e la società nata sul gran falò televisivo (ora digital-televisivo) che di questa scuola deve incomprensibilmente servirsi, oppure quando si sofferma sui politici e sulle loro facce, così come sono percepite e pre-giudicate da una cultura contadina (sì, "facce", avete letto bene, e tra tutte sono sicuro che vi resterà l'analisi della faccia di Berlinguer). E poi parte letteralmente in quarta, nello stupendo e doloroso scritto intitolato L'Italia dei "lotti", dove è marcato e ricorrente il senso di uno Stato italiano che non c'è e forse mai ci sarà. In quest'occasione Parise quasi rimbrotta un malcapitato signor Framarin che gli chiede di intervenire sulla questione di tutela del suo (loro) paesaggio d'altopiano vicentino, la montagna veneta Verena-Campolongo. Parise dice che non vuole ricordare quel paesaggio che non c'è più (lo stesso paesaggio onirico che forse s'insinua tra la foschia chagalliana de Il ragazzo morto e le comete), che non avrebbe senso farlo, e produce un pensiero molto più utile, un piccolo capolavoro di prosa giornalistica del quale non riesco a non riportare un brano abbastanza lungo, la cui verità sembra sempre più sotto gli occhi di tutti (anche se sta prendendo magari nuove forme):

"L’Italia non vuole più essere l’Italia. Gli italiani (parlo della grandissima maggioranza) non vogliono più essere italiani. Se ne fregano dei monumenti, dei musei, di San Pietro e della chiesa cattolica, dei Palazzi Pitti e Uffizi; ci mandano i loro figli con la scuola, ma se ne fregano, e se ne fregheranno i loro figli quando sarà il momento. Gli italiani non vogliono più essere italiani perché vogliono essere ancora meno che regionali, vogliono essere “paesani”, “paisà”, perché l’unità d’Italia, che del resto non c’è mai stata, oggi c’è meno che mai. 
Oggi l’Italia è spezzata non in staterelli, ma in “lotti”, in piccole, piccolissime, proprietà private a cui gli italiani, nel loro povero animo e nel loro povero corpo privi di Stato tengono in modo fanatico. Per gli italiani di oggi, non di ieri, l’Italia è il “lotto”, il proprio terreno, la propria villetta, il proprio “bicamere e servizi”, costruiti da geometri o finti architetti secondo i propri gusti e soprattutto in materiali pressoché eterni come il cemento armato che diano a quei poveri corpi e a quelle povere anime senza Stato l’illusione di averne uno, indistruttibile. Se potessero costruirsi un bunker, con fabbrichetta accanto e un proprio esercito personale, lo farebbero. Il perché è troppo lungo da spiegare, fondamentalmente va ricercato nell’assenza non soltanto dello Stato ma dell’idea dello Stato (che fa lo Stato), che non gli è mai stata insegnata, che non hanno mai amata, che è ostica al loro cervello e al loro cuore, e in cui non credono."

Ma non pensate che sia solo questo il Parise che risponde ai lettori del Corriere, e meglio ancora potreste fare vostra questa convinzione se venite a capo del più ricco volume Verba volant. Ad una lettera anonima che si interrogava sul suicidio, Parise rispose:

"Mi dispiace molto che non abbia firmato la sua lettera. Avrei tenuto nascosto il suo nome, ma l’avrei cercata, per telefono, una mattina presto, all’alba, per chiederle che tempo fa nel luogo dove lei abita e per farmelo descrivere nei dettagli. Quei dettagli che, messi insieme, fanno le ore, il giorno, gli anni e la vita che ci è dato vivere (qualunque essa sia sempre bella appunto, perché imprevedibile come il tempo) e che è tutto, dico tutto, quello che abbiamo".

(Questo libro si legge in una quarantina di minuti. Ho preso metà di questo tempo per scrivere, forse troppo disordinatamente, un brano che avrei potuto sintetizzare in una frase: se vi capita, leggete questo libro appena uscito. Ogni tanto consiglio apertamente.)

giovedì 31 gennaio 2013

"I padri" di Giulia Rusconi. Collezione, collazione e colazione di padri


I padri di Giulia Rusconi (Ladolfi Editore, pp. 50, euro 10, prefazione di Anna Maria Carpi) è un libro che colpisce, spiazza e lascia attoniti, e tuttavia volenterosi di far ritorno ad esso. L’autrice (veneziana, non ancora trentenne, un'iniziazione alla scrittura che risente molto del vicino-lontano Goffredo Parise e che si ravvisa nell'intelligenza situazionale) ci consegna uno degli esordi più convincenti degli ultimi tempi. Lo segnalo qui rallegrandomi, come è giusto che sia quando un bell'esordio compare, dopo aver fatto lo stesso con il libro di Marco Scarpa (ma in Italia ci sono ottimi primi libri di poesia e vorrei quasi dimostrare la presunzione che questi siano più di quelli che escono in altri paesi europei). Il fatto che per primo mi ha scosso - e che tuttora continua a persuadermi della bontà di questa raccolta - è la scelta netta di un tema preciso, individuabile, attorno al quale viene costruito un libro stringato e rapidissimo di trentuno componimenti che variano dai 7 ai 10 versi. Si tratta di un tema che sta tutto nel semplicissimo titolo scelto dall'autrice e che pure non dice molto. Di certo quel titolo non dice tutto. Inganna, contraddice, perché è questa una poesia di contraddizioni vicinissime, coaugulate persino nel passo breve di alcuni testi (una delle madri, protagoniste di secondo grado, ad esempio, “Non mi insegna niente e mi piace” anche se, poco oltre, "mi insegna a prendere posto / a disegnare contorni.”). Chi ha scritto questi versi lascia cadere tra le pagine una "collezione" di padri che può sfociare in "collazione" e - mi perdonerete i giochi di parole che si susseguono - persino in "colazione". I padri sono collezionati e tenuti tutti dentro a guisa di matrjoska da lei, "la grandissima". Giulia Rusconi - o perlomeno chi dice io in questi componimenti - colleziona, collaziona e fa colazione di padri. In una poesia si arriva addirittura al padre numero "novanta" ("...padre della dimenticanza / parla di Wittgenstein / e di Aufhebung e decostruzionismo"). Naturalmente è forte il senso di straniamento che deriva dalla lettura di un libro che si ingurgita col fiato tirato, a bocconi e pure con qualche sorriso franto, sperduto tra i denti, che sale dal nonsense latente, come nella poesia in cui lei è a cena nella luce rosa "con uno dei miei padri" (curiosa la variatio applicata a "padre", il termine più ricorrente dell'opera) che insegna le buone maniere e dove leggiamo "Io che odio il bolo subisco / questo cimitero. Ma lui / è fra tutti il preferito / poco paterno pochissimo padre.". Se nonsense può sembrare, è altrettanto vero che è questo un versificare che parla schietto a noi della nostra epoca transgender (così come efficacemente notato nella prefazione), più di tanta altra calibratissima e celebralissima poesia. Leggiamo così una carrellata di padri che si sussegue per gesti, situazioni, scene, pensieri, ricordi, moltissimi insegnamenti (in questo ravviso Parise, padre tra i padri, padre di sillabe e di luoghi).

"Padri", al plurale, nella nostra lingua è usato spesso in senso culturale, politico. L'operazione dell'autrice è invece una violenza sul plurale dell'accezione comune della parola "padre" e forse su un recupero etimologico della radice di "padre", "pa-", che rimanda alla “protezione” e al “nutrimento”, non tanto o soltanto materiale. Nella poesia che si apre con la bellissima endiade di sostantivo e aggettivo in enjambement "Tutti mi dicono che sono una donna / e bella e che ho spalle ampie...", troviamo la chiusa bisticciante con la parola "faccia": "Io non cerco che una mano / grande che mi copra tutta la faccia / non mi faccia invecchiare." Di qui la protezione, il nutrire il tempo. I padri di Giulia Rusconi non sono tutti "mali necessari" come pensava Joyce e forse, con un pizzico di blasfemia, si può dire che i padri si scelgono, si conoscono strada facendo ("Ho conosciuto un padre / è il numero duecento / mi ha insegnato che cos’è l’addio") oppure, per sottrazione, si ignorano ("Ho un padre che non conosco / l’ho visto una volta so come si fa / chiamare so che non parla / quasi mai e che vive in una buca / piena di ossa di lupo / occhi di vetro e angeli maestosi."). Talvolta la riluttanza nell'utilizzo delle virgole o di altri segni di punteggiatura conduce a riflettere, eppure non può che confermarsi come scelta consapevole e dettata - suppongo - dalla tornitura del verso, dalla sicurezza delle cose che chi scrive deve assolutamente dire. Rare sono le rime, più facile rilevare delle assonanze in chiusura dei testi, scie vibranti che sembrano fermare la voce a un passo dall'abisso della chiusa, dal contatto tra anime, come in "diventata brutta / ancora ne porto il lutto", oppure, nella poesia del "nuovo padre" (che insegna la pazienza, beve caffè decaffeinato, "...tiene / le mani a riposo sulla fòrmica",  insegna a dire grazie, ad aspettare che cali il sole) quando dice: "... «Fumiamone un’altra / e poi andiamo». Ma piano."

L'apertura del libro, su questo punto della sicurezza del dire e su questa sorta di cannibalismo messo in atto dalla scrittura, non lascia scampo, visto che viene subito sgomberato il campo dall'utilizzo della parola "papà": "Non ti voglio chiamare papà / è troppo infantile / viene in mente la pappa e allora / ti mangio ma orfana / sarò forse perduta." La seconda poesia cade invece ossessivamente sui suoni che rimandano alla radice che ho menzionato (pa-, pa-, -pe-, -po, -pa-, pi-, pa-, pe-, pa-, Pe-):

Mio padre mi insegna a parlare
per la seconda volta.
In una stanza calda mi legge Invernale
e «vile» gli esce fra i denti.
Anch’io ripeto, balbetto 
e inciampo e imparo con lui.
Quando ero piccola mio padre
- l’altro - si è perso
la mia prima parola: era
a Pechino, in viaggio di lavoro.

E le madri? La parola "madre" compare più volte. In questo libro brevissimo c'è posto persino per "alcune" madri. Insegnano il dolore, ad accarezzare, il carteggio o anche niente, come la seconda. In un caso è addirittura chi dice io nei versi ad essere madre-moglie del nono padre, in una sorta di vertiginoso percorso che pare atterrare sui terreni neanche troppo simbolici dell’incesto: "Sono sua madre perché è piccolo / e non sa fare niente. Ma / ha un pene molto grande / che mi convince e non divorzio mai." (Dicevo Parise, ho ripensato a L'odore del sangue.) Il titolo e la ripetizione ossessiva sui padri non deve portare all'errore di gettare in ombra questa epifania di madri che smembra finalmente quell'unico e goffo blocco unigenerazionale (quell'unico viso orribilmente senza età) in cui sembra essersi trasformata la linea madre-figlia, sempre più piatta, talvolta sempre più insipida e frolla (con l'aggiunta surreale persino delle nonne, talvolta). Non credo debba passare in secondo piano questo ricorrere più parsimonioso alle figure di madri. Ed è questo un passaggio chiave per dire che, se la figura dell’uomo esce bastonata da queste pagine (anche se questo non è certo un libro pseudofemminista o neofemminista), la figura femminile non ne esce aumentata a discapito. Tutt’altro.

Scrivevo in apertura della "collazione" di padri. Se prendiamo un qualsiasi dizionario, a questa voce troviamo il significato filologico di confronto tra diverse copie di un testo manoscritto o a stampa. E tutti i padri enumerati nei vari testi ("il mio quinto", "il numero tredici", il ventesimo, "(il nono)", "mio padre numero diciotto", "il numero duecento"...) potrebbero essere assunti a oggetto di collazione con un padre che non di rado l'autrice nomina con un inciso tra trattini: " - l'altro - " (e la silloge che visionai tempo fa e che ha dato vita al libro era intitolata proprio L'altro padre). Ma "collazione" potrebbe darsi anche nell'accezione di quell'istituto giuridico per cui "chi riceve un'eredità deve conferire al patrimonio ereditario tutti i beni che gli erano stati donati in vita dal defunto, in modo da dividerli con gli altri coeredi." In fondo questo è apertamente un libro sull'eredità e nella scrittura viene cannibalisticamente e ripetutamente elaborato un lutto condiviso con gli altri eredi: noi. Anche questo che fa la poesia di Giulia Rusconi.

Il libro si conclude con il testo che riporto per intero:

Quando ero piccola avevo due padri
uno non c’era l’altro c’era
e si scambiavano di posto il venerdì.
Bios mi insegnava a nuotare
a spaccare noccioline coi sassi
Calamus mi insegnava a scrivere
a mettermi in fila per due.
Bios rientrava e sapeva di treni
gli stavo in braccio sulla poltrona.
Calamus lo chiamavo papà
ma per scherzo, e in ombra.

Ecco, ogni padre ha un "posto". Collezione, collazione e collocazione di padri. E la scrittura olfattiva, di cui Parise fu esponente tra i più grandi (pure quel naso aquilino gli giovò), compare qui nella poesia conclusiva che fornisce la traccia, il contorno e le pareti dove sbattere la testa in questo libro-rompicapo, matrjoska o cubo di Rubik, che si potrebbe estendere e rigirare davvero all'infinito. E non a caso, proprio in questo testo conclusivo, ricompare la parola “papà”. Che cosa se ne fa l’io di queste poesie di tutti questi padri? "Li colleziono li metto in fila / sulla libreria e li conto sempre / e li classifico per età / per ordine di importanza / li seziono gli scambio le teste / qualcuna fa fatica a staccarsi dal collo." 

Rem tene, verba sequentur. Il vero di questo libro è nell'appropriazione primaria e istantanea della materia da cui prende abbrivio e che via via tratteggia inesorabilmente, la quale sta a monte, nei fori, nelle lacerazioni o pezzi mancanti che lascia intravedere tra un padre e l'altro (“Il contatto sì il pezzo mancante / della casa delle cose”). Le parole che Giulia Rusconi ha disposto per plasmarla sono venute poi e, con ogni probabilità, altre ne verranno. La sua è una poesia che parte a risemantizzare le parole il cui significato è dato per scontato. Ed è anche questo che mi fa pensare che l’autrice, contrariamente ad altre opere prime di poesia, avesse davvero qualcosa da dire, che abbia fatto bene a scrivere questo libro e che faccia bene a noi, ora, leggerlo, mangiarlo, deglutirlo senza alcuna concessione al tragico (“io al tragico sono negata”), ma con due piedi che piuttosto saltellano impazienti nei sempre più indispensabili e a noi congeniali spazi del grottesco.