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venerdì 12 ottobre 2018

Su Vitaliano Brancati. Un'intervista con Valeria Giannetti

Librobreve intervista #83


È uscito quest'anno per Nino Aragno Editore il saggio Vitaliano Brancati di Valeria Giannetti, docente di lingua e letteratura italiana all'Université Sorbonne Nouvelle - Paris 3. Nell'intervista che segue, l'autrice ripercorre alcuni aspetti rilevanti dell'opera brancatiana e alcune dinamiche relative alla ricezione di questa. Ringrazio Valeria Giannetti per le risposte, dense e scorrevoli ad un tempo, che davvero possono invitare alla lettura o alla rilettura dei libri dello scrittore di Pachino.


Vitaliano Brancati
(Pachino, 1907 – Torino, 1954)
LB: Partirei da un'apparente dimenticanza (dico apparente perché questi su e giù dell'interesse per un autore e la sua opera ormai sono noti e non devono più di tanto sorprendere). Le chiedo comunque perché secondo lei non sono anni "su" per Brancati e la sua presenza nelle grandi linee di forza del dibattito culturale. C'è da dire che, a un livello di pubblicazioni, Mondadori, proprio da quest'anno, sta riproponendo nei più fruibili Oscar diversi suoi titoli e che il suo saggio, assieme a pochi altri, fa eccezione. L'impressione è comunque quella di una strana mancanza di Brancati nel dibattito, oserei dire quasi una rimozione. Ma forse esagero e lei saprà correggere il tiro...
R: Brancati è stato nel suo tempo un intellettuale spregiudicatamente “inorganico”, come ha sottolineato Giulio Ferroni; critico nei confronti degli “ismi” contemporanei, vale a dire delle mode culturali e delle codificazioni ideologiche del secondo dopoguerra – profondismo, freudismo, ibsenismo, intimismo, realismo sociale, materialismo – subentrate, con effetti anch’essi negativi sulla società e la cultura italiana, ai precedenti “ismi” del regime fascista – anticomunismo, antiparlamentarismo, anticonvenzionalismo, nazionalismo, attivismo, “niccismo”. Droghe gratissime ai cervelli stanchi, le definiva Brancati. Questo spiega in parte la tiepida accoglienza che gli fu riservata dai critici, i quali lo considerarono come un moralista, o lo relegarono nella categoria degli scrittori rappresentanti di tematiche regionali, per i suoi romanzi e racconti ambientati in Sicilia. Un’interpretazione riduttiva, se si pensa che Brancati aveva affrontato anche temi scabrosi per l’epoca, come l’omosessualità, incorrendo peraltro nella censura, e che partecipava attivamente al dibattito culturale, attraverso i suoi numerosi interventi giornalistici. Anche il suo rifiuto della letteratura di ispirazione ‘metafisica’, denigrato da Alberto Savinio per esempio, aveva in realtà ragioni poetiche profonde, rimaste incomprese, che ho voluto restituire, insieme ad altri aspetti della sua opera. C’è da dire che non vi era ancora stato Sciascia, in quegli anni, a illuminare il senso profondo della “sicilitudine”, tanto discusso in seguito.
Oggi poi può parere difficile riuscire ad avvicinare i lettori a un’opera percorsa da una grande tensione morale e civile. I nostri sono anni in cui anche gli spazi del discorso culturale e sociale sono spesso colonizzati da dichiarazioni malintenzionate, destinate a influenzare masse disorientate; anni in cui il pensiero si trova a doversi dispiegare nelle forme rapide e superficiali della comunicazione odierna che, apparentemente libere, dirette, nascondono invece nuove e complesse insidie, nuove distorsioni e condizionamenti.
Proprio per questo però, mi pare importante riscoprire e rileggere uno scrittore come Brancati. Uno scrittore che con coraggio e dignità, in anni difficili, aveva scelto la strada della libertà e dell’autonomia intellettuale, della lucidità critica, dell’impegno e della militanza intesi come conquiste della coscienza civile, e non come acquiescenza a logiche partitocratiche o mediatiche. I suoi scritti possono ancora parlarci oggi, e indurci a pensare.

LB: L'apparente dimenticanza - qualora sia confermata - cozza con il lascito di uno scrittore la cui opera è probabilmente una chiave d'accesso privilegiata al carattere "italiano" largamente inteso e a decenni fondamentali della storia del nostro paese, il Fascismo in primis. Secondo lei, le due cose potrebbero in realtà essere più legate di quanto crediamo?
R: La nostra, ci è chiaro, non è l’epoca dell’autocritica costruttiva, della riflessione, del progetto. È piuttosto l’epoca delle certezze ostentate, della hỳbris, dell’altercazione sguaiata, del frastuono mediatico, di una demagogia enfatica che, più che farsi espressione della volontà del popolo, rivela i condizionamenti su di esso esercitati. Il dibattito politico attuale ne è un esempio. Gli intellettuali del Risorgimento italiano avevano mostrato che il popolo, se la parte “illuminata” di esso non lo aiuta a ritrovare coscienza di sé, della propria storia, della propria cultura, diventa una massa amorfa, dominata e sedata da élites che perseguono i propri interessi economici e politici, o degenera invece in massa riottosa, pronta ad obbedire a nuovi tribuni.
Brancati scriveva che le aberrazioni del fascismo non erano scomparse con la fine del regime, che piuttosto si erano incarnate in nuove forme ideologiche, perché insite nella natura umana, che è inclinata verso gli istinti bruti. Ma la cultura, l’arte, la letteratura, il lavoro intellettuale, possono costantemente sublimare la natura umana. La nostra visione, oggi, è meno pessimista di quella di Brancati, perché la società, rispetto agli anni del dopoguerra, ha conosciuto globalmente conquiste importanti, insieme naturalmente a nuove sfide, nuovi pericoli, e insidiosi arretramenti. Anche oggi, allora, la letteratura può e deve riaprire gli spazi del pensiero perduti, minacciati, o dimenticati. Il dovere di memoria è stato la forza dei nostri grandi scrittori; a loro dobbiamo almeno di ricordare quello che ci hanno insegnato.

LB: Poniamoci nei panni di un lettore digiuno di Brancati. Si sentirebbe di consigliare un ordine di avvicinamento alle sue opere? Da quale consiglierebbe di iniziare? Che cosa consiglierebbe di lasciare alla fine?
R: Comincerei senz’altro dai racconti, e poi dai romanzi degli anni Trenta, Sogno di un valzer e Anni perduti, nei quali la scrittura si fa dialettica del reale e dell’immaginario, tra illusione della realtà e realtà dell’illusione. Sono opere che nascono da quel “sentimento comico” che Brancati identificava come la chiave della sua apprensione e scrittura del mondo, in un’accezione tuttavia complessa, che difatti non esclude affatto un’accentuazione drammatica, e persino tragica. Gli antieroi comici di Brancati nascono come figure di un desiderio che produce illusioni, e che si consuma comicamente nel rapporto impossibile all’azione. La forza del desiderio rende la loro esperienza della realtà intermittente, o radicalmente assente, o potentemente alterata. Essi vivono del “non essere qualcuno”; e in ciò rinviano all’instabilità ontologica dell’essere, alla sua labilità, incompiutezza, discontinuità. Sciascia, per il quale Brancati era stato un riferimento importante, considerava la Sicilia come metafora del mondo. Ma già per Brancati, come per altri grandi scrittori siciliani, l’habitus antropologico dei propri personaggi è specchio di una condizione esistenziale. Il “gallismo” degli uomini del sud Italia, neologismo da lui creato, ha, come il dongiovannismo del Don Giovanni in Sicilia, un senso ontologico che eccede quello socio-culturale. Il desiderio nei romanzi di Brancati è il solo indizio reale della ‘persona’, ed esso invia dei segnali inquietanti, di dissoluzione e fuga. È il tema dei due romanzi successivi, Il bell’Antonio e Paolo il caldo, in cui alcune interrogazioni aperte dalle teorie dell’inconscio sono elaborate con esiti narrativi di una complessità molto più intensa rispetto ad altri romanzi italiani che se ne ispirano. In questa prospettiva, Paolo il caldo andrebbe letto dopo gli altri romanzi che ho citato. È un approdo ulteriore della riflessione di Brancati sulla condizione umana – e la morte prematura dello scrittore ha fatto sì che esso restasse l’ultimo. Il discorso del corpo, attraverso il quale si esprimono i personaggi di Brancati, è illustrazione del conflitto insolubile tra la materia organica e le produzioni dello spirito, tra il meccanicismo delle funzioni fisiologiche e l’astrazione intimista del pensiero. Nell’ultimo romanzo però tra l’istanza riflessiva della coscienza e l’opacità degli istinti, delle pulsioni, non vi è più che un’osmosi incessante e automatica. La coscienza si arrende alle incursioni dei sensi, imprigionata nelle cavità oscure della carne; le facoltà razionali sprofondano in esse, e si confondono con la materia organica, che le riassorbe trionfante. Il corpo allora diviene il mondo del soggetto; un mondo non più abitato da cose e persone, ma da pulsioni e “oscuri fermenti”.
Il percorso iniziatico si concluderebbe però con le prose dei Piaceri, per il loro felice equilibrio compositivo, per la loro “precisione epigrammatica”. Brancati le aveva definite come «un misto di fatti e moralità, quasi dei racconti avventurosi», con allusione alla loro natura di avventure dell’animo, secondo un modello leopardiano, e alla tensione gnoseologica che in esse si esprime. In esse l’esercizio dell’ironia critica perviene ad esorcizzare le alterazioni della realtà, a riannodare i frammenti sparsi dell’esperienza sensibile, e a ristabilire la comunicazione tra le fantasmagorie dell’immaginazione e il lavoro critico della ragione. Non è una raccolta che conclude, tutt’altro, e per questo la suggerirei alla fine del percorso.

LB: Lei insegna in Francia. Ha avuto modo di registrare diverse attenzioni nei confronti dell'opera di Brancati fuori dai confini nazionali, in Francia ma anche in altri paesi?
R: In Francia Brancati è tradotto, ma non si può certo dire che sia un autore molto conosciuto. La questione dell’italianismo all’estero è complessa; certamente legata alle politiche istituzionali in questo ambito, più o meno felici.

LB: Vorrei aprire due parentesi che esulano dal romanziere: il continente della saggistica brancatiana e la sua presenza nel cinema. Quali sono secondo lei le maggiori eredità in questi due ambiti?
R: Gli scritti saggistici di Brancati si iscrivono nella grande tradizione di letteratura morale e civile italiana. Il pensiero ‘civile’ di Leopardi – ma l’influenza leopardiana in generale è molto presente nelle opere di Brancati – ne è un riferimento teorico essenziale. Esso orienta il liberalismo e il ‘moralismo’ dello scrittore, la sua concezione dell’arte, l’interesse che egli porta alla lingua italiana, e l’interrogazione sulla condizione umana, nella sua dimensione intima e privata e nei suoi rapporti con la Storia. Di Leopardi Brancati aveva curato un’antologia, con il titolo Società, lingua e letteratura d’Italia (1816-1832), che si apre con il Discorso sullo stato presente dei costumi degl’Italiani, nel quale, ricorda Brancati, Leopardi si interroga sulla società e sulla natura delle istituzioni civili. Nel testo leopardiano Brancati identifica i presupposti di una critica del nazionalismo e dell’attivismo, alla quale egli si ispira. Dal Leopardi ‘civile’ egli desume anche le premesse per una riflessione sul rapporto degli individui con la società, e il fondamento teorico della critica del mito del progresso e del carattere perfettibile della realtà. La forza della posizione leopardiana consiste per lui nella rivendicazione dell’autonomia intellettuale degli individui e nel rifiuto della loro identificazione col sistema sociale. È in questa prospettiva che lo scrittore dichiara di non amare la propria epoca, e di non condividerne gli orientamenti ideologici e intellettuali. La scrittura saggistica di Brancati esprime il disagio provocato dalla crisi del fondamento morale dell’impegno politico. Un tema di grande attualità. Si esprime nei saggi di Brancati il monito a fare della coscienza morale il motore della vita sociale, e il suo principio di coesione; a ritrovare la sintesi di morale e vita, di sentimenti e impegno civile, di storia privata e storia pubblica, nella quale si è riconosciuta, in alcuni momenti storici determinati, la civiltà europea.
Complesso è il rapporto di Brancati col cinema, nel quale lavorava come sceneggiatore. Un lavoro che non lo soddisfaceva, percepito come alienato o alienante, e che definiva persino odioso; forse perché l’espressione artistica e la creatività nel cinema gli apparivano troppo condizionate da fattori esterni, economici, sociali, ideologici, da criteri collettivi, da mode e esigenze di mercato. Ad esso preferiva l’intensità e l’indipendenza della scrittura narrativa, essa sì sentita come vivifica e libera, perché in essa, osservava, il « cervello vive ancora di vita propria”.

LB: Dalla Sicilia al mondo: le chiedo infine di tracciare brevemente le principali traiettorie di collegamento tra l'intellettuale di Pachino e i contemporanei scrittori e intellettuali della sua epoca. 
R. Brancati è stato un grande interprete del suo tempo, e questo anche perché, come tutti i grandi scrittori, teneva attraverso le sue opere un dialogo costante con i suoi autori prediletti, italiani e stranieri. Il suo confronto critico con quei modelli fu sempre originale, e per questo spesso più interessante rispetto a quello che stabilivano altri scrittori italiani, anche di maggior successo. Il dissenso dal fascismo lo aveva indotto a una lettura di alcuni autori del Novecento – da Mann a Freud, a Einstein, Bergson, Ortega y Gasset – finalmente libera da fraintendimenti critici e distorsioni ideologiche, e destinata a dare un orientamento nuovo al suo progetto di scrittura. A Freud, per esempio, Brancati arriva attraverso La montagna incantata di Thomas Mann - lo si comprende dal suo primo romanzo, Singolare avventura di viaggio. E nel segno del “realismo assoluto”, egli accosta Gogol a De Roberto, poi a Flaubert, infine a Gide, uno degli scrittori contemporanei più ammirati, e che più hanno più contato per lui. Ai Journaux intimes di Baudelaire si era avvicinato forse perché ne era uscita un’edizione recente, curata da Sartre; ma aveva poi detestato l’introduzione di Sartre, affascinato invece dalla profondità di Baudelaire. L’eco dei Journaux intimes, e non se ne sono mai accorti i critici, percorre l’ultimo romanzo di Brancati; in Paolo il caldo la lacerazione devastante tra l’invocazione a Dio, desiderio di elevazione, e l’invocazione a Satana, piacere della degradazione, che travolge l’essere e lo precipita infine nel delirio, è quella a cui dà voce Baudelaire in Mon coeur mis à nu.

giovedì 13 settembre 2018

"Non sparate sul recensore", le recensioni di Giorgio Manganelli raccolte in un volume ragionato di Aragno

Recensire, strana attività in bilico. Ancora necessaria? Credo di sì. Di qui a dire cosa sarà del recensire il passo è tutt'altro che agevole. La recensione è un testo strumentale e non è soltanto pubblicità per un libro o un'altra opera d'intelletto (per quanto sia talvolta anche pubblicità). È un'attività che deposita una prima ricezione e anche inevitabilmente una prima polvere e crosta interpretativa su un'opera, sul suo percorso che - nel caso dei libri - resta per fortuna incalcolabile. Gore Vidal scrisse che "affermare che il destino dei libri è incalcolabile è esagerare con l'understatement" e in linea di massima possiamo essere d'accordo. Anche quando si prova in molti modi a confezionare, prevedere e accompagnare il destino di un libro, questo resta tutto sommato incalcolabile. Il successo fulmineo non è garanzia di long-seller e un iniziale fiasco può diventare alla lunga un libro diffusamente letto. Cose note. Ma tralasciamo gli estremi e torniamo a quella peculiare pubblicità che è la recensione. Oggi lo stato del recensire non è del tutto inquadrabile e pertanto sfugge. Tra l'altro, quanto vengono pagate le recensioni, se vengono ancora pagate? Suppongo qualche decina o centinaia di euro, nel migliore dei casi, se non si è dei Claudio Magris. Sussistono spazi di approfondimento e analisi efficaci, attraenti, ma viene passata per recensione anche un'attività stanca e stancante di scrittura che spesso insegue, più che un'opera, un determinato profilo autoriale considerato il cavallo su cui puntare in quel frangente. Recensire è diventata un'attività nella quale raramente fanno apparizione coraggio, capacità di visione del diamante-opera nelle sue sfaccettature, rischio e altri requisiti necessari all'elogio ancor prima che alla stroncatura. Inoltre c'è da dire che si sta disquisendo senza considerare lo slittamento semantico in atto, per cui "recensione" è sostanzialmente un commento successivo a un acquisto lasciato su una piattaforma di ecommerce che diventa determinante per i futuri acquisti di quel bene o servizio. Se le cose stanno circa così, qualcosa ci stiamo perdendo e continueremo a perdere di un certo modo di scrivere attorno a libri, mostre d'arte o film, un usus scribendi che non è strettamente critica letteraria, critica d'arte o cinematografica. Di certo lo sguardo non deve essere rivolto solo al passato, perché restano nuove vie da sperimentare (ad esempio le videorecensioni, con qualche simpatica deriva a mo' di televendita, non distante da certe presentazioni librarie). Tuttavia non c'è molto da stupirsi se una certa cura e passione nel recensire è venuta meno: se la nostra giornata è dispersa in mille rivoli di post, commenti, controcommenti, quali risorse attentive restano alla recensione, per chi vuole scriverla e chi vuole leggerla? Non vi è critica in queste considerazioni, semmai la necessità di prendere coscienza di un cambiamento, anche nella capacità di concentrazione largamente intesa. E ancor più a fondo, che risorse restano per la coabitazione con le opere di ingegno, siano queste libri o altro, in questo paradigma di accelerazione e di autopromozione costante e infinita? Difficile dirlo. 

Eppure leggere, ci ricorda uno scritto su Pavese del libro di oggi, è un "modo come gli altri di fare la storia, di esistere, di prendere partito" e "una pagina, letta o scritta, è innanzitutto un gesto, compiuto da una creatura reale, in un luogo e un tempo realmente accaduti". E per arrivare a leggere si può passare prima per una recensione. Per farsi un'idea di cosa abbia voluto dire la pratica del recensire nel caso limite di un autore eccezionale della nostra storia letteraria, possiamo sfogliare, leggere o piluccare da questo corposo volume che Aragno ha pubblicato con il titolo Non sparate sul recensore (a cura e con una prefazione di Lietta Manganelli e Michele Farina, euro 35). Sono qui raccolte le recensioni scritte da Giorgio Manganelli in quasi mezzo secolo, dagli anni Quaranta agli anni Novanta. Il volume porta in salvo scritti anche molto brevi e divenuti difficilmente consultabili. A volte queste note di lettura assomigliano a delle schede sintetiche e in questo si potrebbero accostare a  quanto è già apparso su Estrosità rigorose di un consulente editoriale pubblicato da Adelphi e del quale s'è scritto qui (tra parentesi: per i fan del Manga, ho trovato davvero bello il breve reportage di viaggio intitolato Africa uscito da poco, sempre per Adelphi). E come nel caso di Giuseppe Berto e Soprappensieri. Tutti gli articoli 1962-1971 o di Luigi Sampietro e La passione della letteratura va riconosciuto il merito dell'editore Aragno di aver raccolto in un corpo unico ciò che era davvero disseminato e difficilmente reperibile. Lietta Manganelli ci ricorda che il merito va riconosciuto inoltre a Michele Farina, giovane studioso che, armato di fotocamera digitale e grande pazienza, è andato a scartabellare scritti che ormai diventavano inaccessibili anche nelle più fornite biblioteche della penisola.

Manganelli, nato a Milano da genitori emiliani, inizia presto a collaborare con "La Gazzetta di Parma", giornale che in un certo senso inventa la pagina culturale del dopoguerra italiano, come rammenta la figlia dello scrittore nella sua nota introduttiva. La preoccupazione per il conto economico è chiaramente centrale nella sua poderosa attività recensoria e del resto, sempre in quelle pagine su Pavese, ci ricorda che la letteratura "non è meno reale (e neppure di più) dell'economia". Procurarsi i libri nel dopoguerra è quasi un'avventura e soltanto più tardi, con il boom economico, le case editrici diventeranno più generose e elargiranno copie gratuite per la stampa con maggiore facilità. Il libro di Aragno diventa una cavalcata, suddivisa per annate, delle collaborazioni di Manganelli per riviste quali "La Giostra" (una rivista studentesca del liceo Beccaria di Milano), "Il Ragguaglio Librario" (una parte cospicua del volume), "Paragone", "Letterature Moderne", "Aut Aut", "Il Mulino", "Il Gatto Selvatico", "Tempo presente", "Il Punto", "L'Europa Letteraria", "L'illustrazione Italiana" (altra cospicua collaborazione), "Il verri", "Il Menabò", "Quindici", "Il Caffè", "Mondo Operaio", "Libri Nuovi", "Alfabeta", "Il Piacere", "Kos", "Il Moderno", "Nuovi Argomenti" e "Italia Oggi". 

Con Mario Praz, Manganelli è stato uno dei grandi traghettatori della letteratura inglese e anglo-americana del dopoguerra e notevole è anche il suo spoglio periodico delle riviste britanniche qui riassunto. In questi contributi recensori, diversi per ampiezza, approfondimento, scrittura, portata e sguardo, possiamo estrarre nuovi punti di partenza per tornare a fissare la traiettoria di scrittori più o meno noti, dall'amato Poe di cui fu traduttore, a Orwell, a scrittori meno conosciuti, che Manganelli ci porge con il gusto tipico del recensore che racconta di una scoperta (si veda lo scritto su Werner Bergengruen). Singolare l'attenzione prestata a John Dos Passos, un autore tradotto in modo discontinuo e incompleto in italiano (pare non abbia mai venduto bene nel nostro paese, così si dice tra gli addetti ai lavori, e in questo frangente del Centenario della Grande Guerra nessuno ha pensato di ritradurre Three Soldiers). Nuovo è anche il suo punto di vista su Pavese e fulminanti le due paginette su Tozzi, in cui invita a strapparlo dalla Toscana e da Siena e valutarlo per quel che è, fuori da inconcludenti e pericolosi discorsi di autobiografismo e psicologismo. Federigo Tozzi è uno scrittore che evoca fantasmi e evocare fantasmi è quello che fa da sempre la letteratura, in questo strettamente imparentata con la negromanzia e la cattura di ombre. Insomma, come lasciato intuire in apertura, questo libro, tratteggiando una precisa idea di letteratura senza ricorrere a un sistema, documenta un'attività che ci spinge realmente a interrogarci sul senso del recensire oggi. Non c'è necessariamente una risposta a un simile interrogativo che Manganelli ci lancia con questo volume confezionato dalla figlia Lietta e da Michele Farina, anzi. Anche il silenzio (o il non recensire più) è contemplato come possibile risposta.

venerdì 18 maggio 2018

Luigi Sampietro e la passione della letteratura

Definire "livre de chevet" La passione della letturatura di Luigi Sampietro che Nino Aragno Editore ha pubblicato in tempi recenti e che di pagine ne conta 778 potrebbe apparire quantomeno bizzarro. Eppure, per chi legge gli interventi che da anni (dal 1992, per la precisione) Sampietro pubblica sulle pagine di "Domenica" de "Il Sole-24 Ore", questo libro può divenire la classica raccolta antologica, la lettura a portata di mano, da consultare per un'esigenza particolare, da aprire rabdomanticamente oppure da scorrere alla ricerca di un titolo nuovo da leggere recensito anni or sono oppure di un titolo più o meno scordato. Insomma, non è necessariamente quel libro che oggi si legge dall'inizio alla fine. Lo dico perché nel mio caso non è stato così e non credo potrà mai essere così. Sinora l'ho sfogliato, ho trovato articoli di anni fa, ho capito che si può percorrere a salti e diagonali in futuro. La natura non sistematica di questo libro, unita alla sua sostanziale funzione di "raccolta", porta a galla la costanza di dedizione alla letteratura anglo-americana che si è declinata in quasi centocinquanta articoli scritti per la testata già ricordata. Entriamo dunque nei terreni della divulgazione, che purtroppo non è mai abbastanza protagonista dei nostri pensieri, anche se ricopre un ruolo vitale che dovrebbe essere evidenziato. E così come ci sono libri nati nell'orbita accademica che meriterebbero un'azione di divulgazione maggiore perché capaci di toccare temi fondativi con un piglio agile e vitale, così vi sono autori di provenienza accademica che scelgono di abbracciare una via che è già segnatamente indirizzata verso la divulgazione. Sampietro costituisce oggi un esempio ancora molto attivo nel secondo versante e questo libro ne documenta con esaustività il percorso. In lui è ancora vitale l'esercizio della recensione, una tipologia di scritto che quando funziona bene fa spesso la differenza, anche se la recensione oggi è più una questione di breve giudizio accompagnato da 1, 2, 3, 4 o 5 stelle.

Nelle pagine di questo volume troverete pertanto radunati gli articoli che vi sarà capitato di leggere negli anni ne "Il Sole-24 Ore" e potrete soffermarvi sulle opere di molti autori della letteratura anglo-americana di ieri e di oggi. Tra questi i più citati restano Shakespeare, Coleridge, Eliot, Hemingway, Melville, Bellow, Capote, Faulkner, Whitman e l'imprescindibile Walcott, di cui Sampietro fu un precoce conoscitore e sostenitore. La scansione che ha guidato l'operazione di raccolta prevede un primo raggruppamento per scrittori e critici, un capitolo dedicato ai classici, uno a modernisti e moderni, uno ai contemporanei, quindi le conclusioni e un post scriptum. Il titolo che lega con lo spago questi centocinquanta articoli, pur generico, è esatto (gli articoli tra l'altro non sono nemmeno tutti quelli scritti da Sampietro dall'inizio degli anni Novanta). Per Sampietro è la letteratura, anzi l'opera-libro, che dovrebbe rimanere al centro (anche in ambito accademico) e resistere agli assalti che vogliono questa come una appendice tra altre degli studi culturali o Cultural Studies che dir si voglia, giusto per fare un esempio di un paradigma un giorno sostituibile - per definizione - con un altro paradigma. Un libro del genere è un valido contrasto ai tempi che corrono, infettati di posture autoriali poco interessanti e ripetitive. Sampietro, con il piglio del cronista delle cose di letteratura, consiglia essenzialmente titoli, singole opere, nuove traduzioni, in un contesto che originariamente è quello di un supplemento culturale di un giornale nazionale. Attraverso questo percorso di diverse centinaia di pagine che coprono un quarto di secolo, possiamo incontrare diverse porte che si aprono su un libro nuovo, sia questo un classico o un titolo presto tornato fuori catalogo. In un'opera del genere diventa allora utilissimo l'indice dei nomi, che contiene anche i titoli delle opere, chiamato a sigillare il tutto.

domenica 22 ottobre 2017

I "Pensieri" di Alfonso Gatto tra Saba, Sbarbaro e Savinio

Quote #18

"To repeat or copy the words of another, usually with acknowledgment of the source." Questo il verbo "to quote". Ma in italiano "quote" è il plurale di quota, parola che mi interessa soprattutto nel senso della misura di un'altezza o di un lato. Citando e contestualizzando minimamente passi importanti, cerco un modo assai svelto di dar notizia di libri significativi, possibilmente brevi. Stando breve, pure io.


Impressionanti per mole, estensione e sporgenze questi Pensieri di Alfonso Gatto che l'editore Aragno ha pubblicato in una edizione come sempre di pregio a cura di Federico Sanguineti (pp. 370, al prezzo invitante, considerando la consistenza del volume, di soli 15 euro). Si tratta di grande libro di scrittura aforistica, ma non solo. Vi sono pensieri che superano la misura consueta dell'aforisma e i due esempi che a breve riporteremo ne sono conferma. Il curatore ha anteposto una premessa e ha concentrato il suo lavoro in un implacabile apparato di note che suggella il volume. Sanguineti accosta questo libro a Scorciatoie e raccontini di Saba e a Fuochi fatui di Camillo Sbarbaro (ma anche a La linea gotica di Ottiero Ottieri, la quale, datando 1962, è sicuramente più vicina a Gatto). Naturalmente tornano titoli come Zibaldone e leggendo certi "numeri" di questi pensieri credo possa ritornare alla mente la prosa vibrante delle voci di Nuova enciclopedia di Alberto Savinio (se n'è parlato qui). I pensieri, composti tra il 1964 e il 1971 e conservati in cinque quaderni manoscritti presso la fondazione Alfonso Gatto di Salerno, sono una risorsa sorprendente per avvicinarsi alle illuminazioni e ai fantasmi di una speculazione che si apre all'insegna di una singolare operazione matematica esposta così:


[Diario - prosa = poesia]

Il pensiero seguente, isolato tra i moltissimi altri, a mio avviso offre un bell'esempio di come la mente di Gatto si sganci dalla prime righe per arrivare ad altro. È l'agilità tipica dell'aforisma, della prosa che non ha l'ossessione di essere romanzo o racconto, e nemmeno del finito. E, diciamocelo, quando questa ossessione di impacchettare romanzi o racconti verrà meno si potranno sprigionare vere forze. Forze che forse si sprigionano ora nella migliore scrittura diaristica o aforistica, ora nelle corrispondenze, ora nella prosa filosofica e in altre forme di prosa che possiamo provare a scoprire o a tradurre, se già tentate altrove.
Ho sempre invidiato gli uomini che a quarant’anni restano soli con un figlio di dieci: tra i due è da immaginare la più dolce amicizia, la più delicata tristezza. (Ogni uomo ancora giovane ha sognato di avere un figlio, lasciatogli da una donna partita per sempre, ma non morta.) Chi crede di poterlo negare a se stesso è, quanto all’amore per la donna, un marito o un amante da nulla.
Una delle più flagranti contraddizioni del nostro tempo è che l’uomo si lascia dirigere anche nel timor proprio, cioè nel timore che ha o dovrebbe avere di sé: si lascia pensare e rilanciare in una scommessa d’avvenire, in una continua perdita dei suoi limiti, nello stesso tempo in cui è dominato (e direi “occupato”) dalla paura e dal terrore della morte. Questa paura e questo terrore della morte così restano nella storia, a causa di quel “doppio passo” con cui l’uomo d’oggi, nella fiducia in un progresso più veloce di lui, teme tuttavia di non giungere in tempo a [a soprascritto a per] usufruirne per una vita più lunga, se non addirittura per una rigenerazione, per una rinascita. Una alternativa, insieme primitiva e finalistica punge ed esaspera gli uomini – e non soltanto coloro che al vertice di una fortuna economica possono e potranno assicurarsi gli strumenti della propria longevità e della propria riedificazione fisica – ma anche tutti gli altri, il numero, che è già oggi sono al di qua delle assicurazioni e delle assistenze che la scienza può dare e che ancora di più lo sarebbero domani per gli alti costi economici delle ibernazioni, dei trapianti e di tutte le altre ipotesi di rifacimenti e di riprese vitali che si promettono. È la vera tragedia di una speranza che vuole essere e si dice singolarmente pessimista per quanto ha fiducia in un “futuro collettivo”. (Pensiero 448, pp. 203-205)
Poco sopra, nel numero 445, troviamo un pensiero che si apre all'insegna della scultura e vale la pena riportare. Le incertezze del manoscritto (si è visto anche nel pensiero precendente) sono segnalate puntualmente dal curatore e inondano l'aria della prosa con un sentore di non-finito che si protrae come un bell'interrogativo e talvolta anche come un buon aroma:
Fossi scultore, chiederei ai luoghi, ai particolari silenzi di uno spazio, quale presenza vogliono, quale assenza evocare. Questa presenza, questa assenza, insieme sono la "statua", per la cui identità, raggiunta nella pietra nel bronzo nel ferro - materie dotate di propria autorità e di propria legge interiore atte a contrastare l'intuizione, - ha da essere virtualmente umana, quale umano è ogni segno dell'uomo, anche il più religioso e il più astratto. La statua, cerco di spiegarmi, nasce sempre da una "somiglianza", la "somiglianza" reale e la "statua" ancora irreale. Può "essere" la somiglianza di una cosa che ancora non è, e tuttavia reale, di quale realtà? La statua (la scultura) nasce dall'assedio storico di tutte le presenze che si sono dileguate e che tornano ad apparire e a sparire con una velocità da luce che non ci è dato cogliere. Questo fa sì che è nell'aria di un luogo l'attesa della "presenza"-["]forma" che dovrà abitarlo fermandosi [,] è il veloce apparire-sparire di tutte le altre presenze che per approssimazione si sono via via rivelate e proposte. La somiglianza è l'ironia veloce dell'[ms. della] intuito che sorprende la meditazione. Si dice tempo di uno stesso tempo. In questa meditazione sarà dopo il dominio visuale della presenza-statua, ma è prima in noi ascolto, una pausa nel luogo che andiamo fissando [in interlinea: scoprendo]: e ancora più lo spazio dei nostri pensieri e delle memorie nostre. La "materia" in cui si va concependo la "somiglianza"[;] la probabilità errante è il lavoro sulla materia, verso la materia[,] l'intuito del fare[.] (Pensiero 445, pp. 202-203)

martedì 29 agosto 2017

"Oceanografia del tedio" di Eugenio d'Ors: l'opera d'arte è semplicemente un titolo

L'opera di Eugenio d'Ors ha trovato in Italia un convinto promotore in Luciano Anceschi. Di Anceschi è difatti la cura di quella che resta l'opera più fortunata e duratura dello scrittore catalano, Del Barocco del 1936 (disponibile nel catalogo Abscondita), una raccolta di scritti dove questo stile veniva ribaltato e ricollocato originalmente nell'analisi fenomenologica. Qualche tempo fa ho scritto di un altro libro di Eugenio d'Ors, un volume ad alto tasso angelico (qui), e ora, per Aragno, è disponibile anche l'altro dei testi prediletti da Luciano Anceschi, la difficilmente catalogabile e anche per questo così seducente Oceanografia del tedio (pp. 98, euro 15, a cura di Alessandra Ruffino). Lo scritto comparve in catalano nel 1918 e in castigliano nel 1921. La traduzione proposta da Aragno oggi è quella di Oreste Macrì del 1943 (Roma, Edizioni Lettere d'Oggi), tuttavia, poiché cosparsa di qualche refuso, è poi stata collazionata con il testo castigliano del 1921 e con l'altra traduzione italiana disponibile, quella di Dino Campini del 1945, uscita nel volume Oceanografia del tedio e Storie delle asparagiaie (Milano, Perinetti e Casoni). Il libro è sostanzialmente una breve novella con quattro personaggi, un dottore e un Autore, una donna che può distrarre dal tedio e un amico. All'Autore viene prescritto il tedio contro l'esaurimento, un anticartesiano non-pensiero, l'assenza di movimento, il viaggio da fermo nella sedia a sdraio nel parco all'esterno di un albergo, la concentrazione di quello strano quieto rodimento che il tedio è. E da qui il libro s'avvia.

La novella (esemplare?), che è accompagnata da un'ampia prefazione della curatrice Alessandra Ruffino, si legge in pochi minuti e in parte è riassunta nelle poche righe del paragrafo precedente. Inoltre, ciò che accade, che è poco ma anche tanto, accade primariamente nella scrittura e lì soltanto (come in ogni libro di finzione, se è per questo, anche se qui è centrale l'atmosfera). L'Autore, fra l'altro, dice che l'opera d'arte non è che un titolo. Iniettata nel circuito editoriale d'oggi, quest'opera di Eugenio d'Ors pare ponga schiettamente alcune questioni all'ecosistema librario e al percepito libresco. Non è quasi mai saggio quello che sto facendo, ovvero trasformare una nota di lettura in un pretesto per parlare d'altro e allargare la visuale sul panorama editoriale, sulla circolazione, l'estetica e i meccanismi di produzione del libro, ma questa non vuole essere certo una recensione-modello (piuttosto una recensione-monello). Oceanografia del tedio pone ad esempio un cuneo divaricatore tra la cosiddetta opera d'azione e l'opera di atmosfera, tradizione nella quale si potrebbe a buon titolo inserire, e l'occasione mi pare troppo ghiotta per non sfruttare questo cuneo per suggerire qualche spunto. Inoltre, volendo offrire una motivazione alla lettura, è anche questo elencato sopra uno dei motivi per cui il libro proposto da Aragno potrebbe essere valutato per una lettura tardo agostana o settembrina: si tratta di un libro di atmosfera come pochi (in senso quantitativo assoluto, cioè intendo dire che sono pochi i libri di atmosfera). Ora, non si dà prosa senza azione e non si dà azione senza un personaggio (qui comunque ve ne sono ben quattro), eppure l'azione, codificata precocemente da qualsiasi poetica, non è tutto e in questo libro si può dire che l'azione è, già dal titolo, carente. Bisognerebbe ogni tanto aver presente quel versante muschioso, scivoloso e quasi perennemente in ombra che determinate stagioni di scrittura inseguono (e non da ieri). Mi riferisco agli universi di scrittura dove l'atmosfera è preponderante e sensibilmente più densa in quella sorta di continuum artificioso che possiamo tracciare tra l'azione e l'atmosfera. Potremmo anche dire che le scritture d'atmosfera sono le scritture dove accade qualcosa nella scrittura stessa e dove l'azione scema in intensità. La questione e il continuum non sono semplici da risolvere, però mi pare abbiano una ragion d'essere, soprattutto nel percepito medio e nelle logiche di produzione editoriale. Oggi per la maggiore mi pare vadano i libri di narrativa dove l'azione è esaltata, incalzante, prerequisito fondamentale. Insomma, solo un'azione ben costruita, magari filmica, emanata magicamente da personaggi ben torniti consente quella "lettura tutta d'un fiato" che è l'espressione passepartout prediletta da ogni pigro recensore. Eppure l'atmosfera è una forma d'azione, la rinuncia alla movimentazione e all'agitazione facilitata dei personaggi non è necessariamente una strada fallimentare per la scrittura (forse lo è nella testa dei direttori del marketing e naturalmente li comprendiamo). E non è vero che è la poesia il versante in cui recuperiamo questa scrittura che abbiamo deciso di chiamare "d'atmosfera", per comodità e anche un po' per sfida. Per ora rimaniamo nel prato della prosa, rimaniamo ai pezzi e ai brani che non siano scritture in versi o prose poetiche. Va da sé che questo ragionamento richiama anche un discorso più ampio e qui non praticabile sulla specificità delle singole tipologie di scrittura, sulle loro resilienze e su più o meno probabili estinzioni ormai prossime, in un periodo in cui osserviamo le pile dei romanzi scritti come se fossero sceneggiature lievitare a vista d'occhio. 

mercoledì 28 ottobre 2015

Renato Serra tra le nuvole e la luna fresca

Leggere una grande guerra #17

"Leggere una grande guerra" intende essere il breve spazio in cui segnalo dei libri sulla Prima guerra mondiale. Il quinquennio 2014-18 coincide con un lungo periodo di celebrazioni, commemorazioni ed eventi a livello internazionale. Segnalare semplicemente dei titoli di libri, brevi o meno brevi, passati o attuali, reperibili o non reperibili, italiani o stranieri, può essere un buon antidoto contro le fanfare e i tromboni che stanno pericolosamente giungendo un po' da ogni parte. Le segnalazioni saranno sintetiche, poco più di una scheda bibliografica. (In coordinamento con World War I Bridges).

Non propriamente un libro sulla Grande Guerra è questo Tra le nuvole e la luna fresca che l'editore Nino Aragno dedica a Renato Serra (euro 12, a cura di Luigi Bonanate). Tuttavia si sa che la pallottola che colpì il direttore della Biblioteca Malatestiana in fronte, il 20 luglio di cent'anni fa sul monte Podgora, durante la Seconda battaglia dell'Isonzo, ha indissolubilmente legato il suo nome a quel conflitto per il quale aveva espresso il proprio peculiare favore. Se scorriamo l'indice del volume, capiamo comunque che si tratta anche di un libro utile per provare a leggere quella guerra. Vi troviamo l'approfondita prefazione di Bonanate, nella quale avviene anche una sommaria ricomposizione della vita del critico romagnolo, con qualche concessione ai dettagli (dal Serra sciupafemmine al patito del gioco d'azzardo), una ricognizione sulle opere e sulle tantissime lettere (Serra si muoveva poco da Cesena e la sua opera più affascinante resta forse l'epistolario), l'affastellarsi dei ricordi di amici e di Giuseppe De Robertis in particolare modo. Dopo la prefazione, il libro prende due strade. Una prima parte raggruppa le Lettere in pace e in guerra già pubblicate dallo stesso editore, il celebre Esame di coscienza di un letterato e il puntiforme Diario di trincea (6-20 luglio 1915); una seconda sezione è invece tutta dedicata a De Robertis, con gli scritti La realtà e la sua ombra, quella sorta di necrologio impossibile che fu Per la morte di Serra e infine Conversazione sulla vita e sulla morte. Una selezione di lettere di Serra è recentemente comparsa anche nella bella collana "Maestri" curata da Antonio Debenedetti per Elliot con il titolo Lettere dal fronte (pp. 96, euro 9,50, con una prefazione di Massimo Onofri). Su questa collana dovremmo prima o poi ritornare. Ma è bene tornare ogni tanto anche sul "mito Serra", dentro e fuori l'aria viziata e perniciosa del centenario. Ecco quindi due segnalazioni di libri, come due finestre aperte a salutare spiffero.

martedì 10 settembre 2013

Un'incursione nella preistoria acustica della poesia con Brunella Antomarini

Librobreve intervista #23


Dopo tanti libri di poesia, parliamo di poesia da un nuovo versante, che si staglia sull'orizzonte delle possibili discussioni sulla poesia. Parto dal recente saggio di Brunella Antomarini intitolato La preistoria acustica della poesia (Nino Aragno Editore, pp. 105, euro 10). Non è passato molto tempo da quando dicevo ad un amico che trovo molto più interessante la riflessione teorica attorno al romanzo, se paragonata a quella concentrata sulla poesia. Prontamente il libro di cui parliamo oggi mi ha smentito. L'autrice insegna Fenomenologia ed estetica alla John Cabot University di Roma. Che cosa ha scritto prima di pubblicare questo saggio così appassionante? The Maiden Machine. Philosophy in the Age of the Unborn Woman (Edgewise, New York 2013); Thinking Through Error. The Moving Target of Knowledge (Lexington Books Lanham 2012; Italian edition: Pensare con l'errore, Codice Edizioni, Torino 2007); L'errore del maestro. Una lettura laica dei Vangeli (Derive&Approdi, Rome 2006); La percezione della forma. Trascendenza e finitezza in Hans Urs von Balthasar (Aesthetica Edizioni, Palermo 2004). Con A. Berg ha curato Aesthetics in Present Future. The Arts in the Technoogical Horizon (Lexington Books, Lanham 2013) e, diversi anni fa, è stata autrice anche di un libro per bambini, Denizens of the Forest (Poligrapha Ediciones, Barcelona 1992). Un percorso avvincente, che ad un certo punto incontra la pubblicazione di un saggio interamente dedicato alla poesia con l'editore Nino Aragno. Scopriamo come nelle sue risposte.

LB: Mi permetto di partire banalmente dal titolo del suo libro uscito per Nino Aragno Editore qualche tempo fa: La preistoria acustica della poesia. Estrapolo intanto due parole: "preistoria" e "acustica". Siamo oggi nella storia? Che cos'era la preistoria della poesia? E possiamo leggere l'aggettivo "acustica"  in contrapposizione con la "deriva tipografica" della poesia? (Penso anche al colpo di dadi di Mallarmé...) 
RISPOSTA: Siamo nella storia nel senso che possiamo guardare indietro e tracciare le strade (o qualche strada) che abbiamo percorso per essere arrivati dove siamo arrivati. Voglio dire, come tento di fare con il saggio, che ci dev'essere una genesi (certo complessa) della 'naturalezza' di scrivere in versi, di andare a capo, cioè di visualizzare un ritmo, una metrica, una musicalità che non appartengono al visivo, ma all'acustico. E fuori di dubbio la poesia c'era prima della scrittura e c'era con funzioni rituali e didattiche che spiegano con chiarezza (come hanno fatto i teorici delle tradizioni orali) l'uso della musicalità e quindi della cognizione corporea (non concettuale). Quindi ho lavorato sulla metamorfosi della poesia dall'oralità alla scrittura, dall'arcaico allo storico. Pur immersi nella storia (o magari stando ormai all'uscita), custodiamo gli strati precedenti, ce li portiamo dietro in queste tracce di cui la poesia è un esempio. Restiamo arcaici, o in debito verso quell'identità arcaica che ci accompagna ma che non possiamo del tutto capire o recuperare. Non parlerei perciò di contrapposizione tra oralità e scrittura, cognizione corporea e cognizione concettuale, ma piuttosto di derivazione, evoluzione. Mi piace l''espressione 'deriva tipografica', se significa che questa evoluzione è piena di deviazioni e orientamenti imprevedibili e non progressivi, ma non vuol dire critica alla scrittura, naturalmente.

LB: Ora, per non fuggire dal titolo, passo alla "poesia" (in fondo i titoli, quando indovinati, sono flash che illuminano improvvisamente tutta l'opera e che dalle parti dell'opera sono a loro volta illuminati, secondo Andrea Zanzotto). Lei si è normalmente occupata di filosofia. Come avviene questo incrocio con la poesia? Non che sia una situazione rara, anzi. Ma intendo da un punto di vista quasi professionale, come si passa da certe tematiche prettamente filosofiche al soffermarsi sulla poesia?
RISPOSTA: La transizione avviene come interesse per il coinvolgimento della percezione, del corpo, della globalità corporea nella conoscenza. La poesia è stato un esempio, come lo è stato il mio lavoro sui Vangeli (che erano orali e non scritti). Ho fatto questo lavoro antropologico che è servito come base fattuale e concreta al mio lavoro epistemologico sulla conoscenza ordinaria, cioè come conosciamo in assenza di certezze, teorie, concetti fissati dalle scienze, eccetera.


LB: In quali punti le tematiche affrontate nel suo libro si intersecano con quelle ampie della traduzione e con quelle ancora più intime del ritmo?
RISPOSTA: Il ritmo sembra sostenere la poesia nella sua definizione minima. Lo stesso atto di andare a capo è una determinazione di ritmo. Qualunque corrente, orientamento, o poetica difendano oggi i poeti, si definiscono dal quell'atto. L'analisi della traduzione come 'intrinseca' alla poesia segue dal fatto del ritmo. Dal momento che cogliamo un senso nel ritmo, pensiamo che quel ritmo-senso possa essere traslato, appunto tradotto, in un'altra lingua. Un po' ci sbagliamo, perché in ogni traduzione si perde qualcosa - o molto - della lingua originale. Eppure è proprio nella traduzione che viene attuata - quando la poesia è grande, diceva Marina Cvetaeva - quella vocazione a dire e non dire, definire e lasciare indefinito, che è propria di tutta la poesia. Il passaggio da una lingua all'altra insomma è rivelativo di come si muove, si costruisce e si trasforma un testo poetico.


LB: Ci racconta brevemente, per quanto possibile, di Marcel Jousse?
RISPOSTA: Un antropologo gesuita, che ha lavorato dagli anni Venti e ha viaggiato in Palestina e tra i nativi americani per capire come fa il corpo a conoscere, anzi come si realizza una conoscenza del mondo nella trasmissione orale di formule da un corpo all'altro. Conoscenza fragile e collettiva, senza autore e sempre in fieri. Un po' come avviene paradossalmente nella nostra cultura digitale. Comincia a essere studiato ora in Italia, da esperti come ad esempio Antonello Colimberti.


LB: Poesia e errore era un titolo di Franco Fortini, un cappello con il quale radunare molti versi giovanili. Un titolo "mobile", che fu soggetto a variazioni e slittamenti. Lei si è occupata in profondità dell'errore in un suo studio uscito per Codice Edizioni (Pensare con l'errore, Codice edizioni, 2008, qui un estratto con le prime pagine). Per quale porta "rientra" l'errore in questo suo recente libro dedicato alla poesia?
RISPOSTA: In realtà questo libro è stato scritto prima di quello sull'errore. È che ci è voluto tempo e non era facile trovare un editore colto e libero come Nino Aragno. Il passaggio avviene appunto dallo studio di esempi di conoscenza corporea allo studio della mente-corpo nell'uso che fa degli errori. Il corpo non ha bisogno di verificare le proprie credenze ed è tenace nell'attaccarsi a quelle che ha, anche se sono sbagliate. Sappiamo benissimo perciò (senza ammetterlo) che quando pensiamo di essere certi, lo siamo in virtù di una finzione. Per fortuna, ci sbagliamo sempre.


LB: Lo sviluppo della rete ha portato un nuovo fiorire di studi e ricerche sull'oralità, la corporeità, la voce. Di questo si trova traccia anche nel suo testo. Qual è la sua posizione scientifica in merito a questa "nuova ondata" ad un livello più generale e, poi, nello specifico, nei confronti della poesia?
RISPOSTA: Sto lavorando ora infatti a come il corpo cambia nel suo contatto e interprenetrazione con le nuove tecnologie. Abbiamo un corpo tecnologico e abbiamo tecnologie quasi-organiche. Che tipo di poesia produrranno questi ibridi non lo so. Sto a vedere.


LB: Quali libri di poesia consiglia Brunella Antomarini?
RISPOSTA: Quelli che commuovono e quelli che giocano con la scrittura senza l'arroganza dell'illeggibile.

domenica 14 luglio 2013

"Pasta madre" di Franca Mancinelli: lo spazio di nessuno dove avviene l'incontro

Non sembri un facile gioco provare a dire qualcosa di efficace, utile e sensato sul nuovo libro di Franca Mancinelli, uscito da poco per Nino Aragno Editore all'interno della collana "Licenze poetiche". Il volume titola, quasi con un'ironia inconsapevole e diretta al mondo oggi tanto chiassoso e tronfio dell'editoria culinaria, con il nome di un ingrediente semplice e basilare, irriducibile, né liquido né solido, ma malleabile, nel quale agiscono primariamente lieviti e batteri: un ingrediente che tra le altre cose necessita di essere tenuto in vita. Pasta madre (pp. 84, euro 10, con una nota di Milo De Angelis) segue quel libro altrettanto bello che fu Mala Kruna (Manni, 2007), ne ripercorre lo spazio, s'insinua nei vuoti, anzi, nelle convessità e concavità aperte da quel felice esordio, come gli specchi concavi e convessi restituisce distanze, producendo anche sottili distorsioni. In realtà, se vogliamo rimanere ancorati alla sola titolazione (che poi è uno dei pochi paratesti offerti dall'autrice), è evidente lo strappo che il linguaggio poetico compie, qualcosa di simile a quanto accade in un altro dei grandi libri/titoli di questa ultima stagione di poesia (in fondo non così disastrosa come ho sentito dire da più di qualcuno, o perlomeno non più disastrosa della prosa), il Salva con nome di Antonella Anedda. Le poesie di Franca Mancinelli accolgono tanto quanto sono accolte, appaiono rastremate come colonne di tempio e talvolta, nella loro brevità, lievitano di volume indurendosi, come dopo cottura, similmente a quanto avviene nell'architettura di origine greca, quando scorgiamo l'èntasi delle colonne, reale o illusoria, prodotto precipuo dalla rastremazione o dell'occhio umano illuso. Qui talvolta si produce una sorta di rigonfiamento (ottico e sonoro) ad una certa altezza del fusto di questi testi minuti e vibranti, un'illusione dovuta in realtà alla tornitura del verso, ad un senso di circolarità che ha trovato un corrispondente in una gozzaniana (ma anche deangelisiana) posata. Mi riferisco al "cucchiaio", che è parola focale del suo percorso di scrittura, anche quando è soltanto evocata, e in questa parola-immagine il senso di concavità/convessità è primario, tanto quanto il senso dell'impugnatura che avviene con le "mani" (altra parola ricorrente); davvero quel senso di concavità/convessità diventa primario, sia in rapporto a ciò di cui ci nutriamo, il contenuto, sia rispetto alla lingua e alla rima di labbra che il cucchiaio trapassa:

cucchiaio nel sonno, il corpo
raccoglie la notte. Si alzano sciami
sepolti nel petto, stendono
ali. Quanti animali migrano in noi
passandoci il cuore, sostando
nella piega dell’anca, tra i rami
delle costole, quanti
vorrebbero non essere noi,
non restare impigliati tra i nostri
contorni di umani.

La bocca, si sa, è importante. Vi passa la voce (nel testo finale la bocca "passa calore", calore importante per la lievitazione). Il cucchiaio, il cui etimo rimanda - con un sorriso da scoperta felice e casuale - a chiocciola/conchiglia è parimenti importante nel quadro di una poesia ossea e minerale come questa. C'è poi molta saliva in questi testi, così come denti e altre ossa nominate; i riferimenti ai territori del sacro non mancano nemmeno nelle grondaie "colme acquasantiere" o quando si legge "Ma in questo chiaro di saliva / cloro e seme, abbandona ognuno / la sua scorza, gesto dopo gesto entriamo / bambini con un segno d'acqua in chiesa" o ancora "Dammi i tuoi occhi e sarò salvata". Dal balcone del corpo di Franca Mancinelli (anche se, più precisamente, lei scrive: "quel che sono è una finestra") ho intravisto alcuni abbracci di arti superiori e inferiori, certe inclinazioni del collo, nudità parziali che restituivano qualcosa di simile, anche nei colori, ad alcune pose dipinte da Egon Schiele:

qui non c'è pronuncia
si serrano i denti
il collo avvolto
nel caldo delle mani, obbedienti
al dovere che disegna
nel muro una porta 

oppure, nel già citato testo conclusivo:

dormivo su una pagina ogni notte
bianca. Il mattino
un'ombra del mio peso, alcune pieghe
e subito voltava: proseguire
è questo a capo del principio,
bocca che passa calore
all'aria come potesse svegliarsi
essere ancora salvata.

Della nota di Milo De Angelis vorrei estrapolare soltanto una manciata di parole, laddove puntualizza che "La similitudine è protagonista". Questo è vero ed è importante ribadirlo. E mi sono spesso chiesto se in questa nostra epoca, tra similitudine e metafora, non la spunti forse la prima, così come è già accaduto in altre epoche probabilmente, e alla seconda non spetti altro che tornare ad essere un caso particolare (e minore) della prima, un suo corollario, svuotata così di tutto il portato poetico, retorico, linguistico e persino cognitivo di cui è stata investita, insomma una metafora prossima a diventare catacresi (e leggo il "cucchiaio" più come una già formata catacresi del suo idioletto). Parafrasando il titolo di un celebre libro di George Lakoff, il quale eleva invece la metafora a costrutto chiave per la spiegazione di tanti processi cognitivi, potremmo scrivere "similes we live by" e non Metaphors We Live by. Tuttavia, è proprio questo "live by" del titolo originale dell'opera più nota di Lakoff che qui vorrei recuperare e isolare per un istante, per il senso di vivere "attraverso" ma anche vivere "accanto". Come si sta accanto a una finestra, standing by the window. Nel migrare dell'io al noi (incluso quello degli uccelli e di altri animali: montaliane formiche rosse, cani a pancia all'aria che attendono carezze, lucertole, insetti, bestie, poi cimici o selvaggina) e viceversa esiste questo senso profondo del vivere accanto e l'essere attraversati dalla vita, in un'accezione costiera, di confine, di questa parola, che non si riduce a solo corpo (altro termine che sembra schiudere molte porte nella critica d'oggi, ma che in realtà spesso cerca solo di scimmiottare - male - le convergenze che questa parola ha attirato in tanta critica d'arte nella seconda metà del Novecento).


Il libro colpisce anche per una totale assenza di paratesti. Non troverete titoli in questi brevi componimenti, né titoli di sezioni. A separare le sezioni giunge un accorgimento raramente usato, due pagine bianche affiancate, quasi a mettere davanti al lettore, con più forza, il continuo confronto e lotta che è proprio della poesia (così come della musica) con il silenzio. Non ci sono epigrafi. La variazione può riguardare solo il corpo tipografico dei testi: prevalentemente normale, in alcuni casi corsivo. Mancinelli non fornisce rimandi specifici, coordinate. Se li vogliamo, li cercheremo da lettori, in quell'esperienza solitaria e vera della lettura. E allora credo che in questi testi dove avviene una sorta di inedita intersezione tra il meridiano di Celan (di un certo Celan, forse sarebbe più corretto scrivere "semimeridiano") e il parallelo di Jaccottet, forse registrabile all'altezza geopoetica nel paesaggio friabile e franoso delle Marche tra Adriatico e Appennini (Franca Mancinelli vive a Fano e il suo paesaggio, anche se non nominato apertamente, è presente quasi come un calco), i momenti della giornata si ritrovano a possedere lo stesso peso specifico, la stessa luce e la stessa lentezza di certe ore mattiniere e certe albe di Pavese in Lavorare stanca. (Qualcuno scriverà prima o poi dell'influsso della poesia pavesiana su tanta poesia tardonoventesca e seguente, non si è ancora capito perché il suo nome si faccia sempre con qualche imbarazzo.) A tratti, pare riscoperto persino il piede metrico dimenticato della lassa. Sicuramente la nostra autrice non è passata indenne nemmeno alla lettura di quel Milo De Angelis che ora ne accompagna il passo, riconoscendone la sicurezza e la postura nuova. C'è un verso, in Quell'andarsene nel buio dei cortili, che sopra ogni altro è rimasto, come in una eco di specchi, e che qui faccio rimbalzare per provare a chiudere un cerchio e suggerirvi la lettura di questo breve libro ed è lo spazio / di nessuno dove avviene l'incontro. Pasta madre dà spesso la sensazione di uno spazio dolorosamente creato che nella realtà non appartiene più (non è mai appartenuto) a nessuno, circa come avviene in Punteggio di De Angelis: "Fu una rara edizione del nulla, / un nulla fiorito d’estate, brusio / di terra rossa e presagi, un nulla / vicino al suo rovescio di fanciulla / tra erba e colletto, tra ventaglio / e firmamento, / gioia e fine avvinghiate / in una sola melodia, lo spazio / di nessuno dove avviene l’incontro." In fondo, se non mi inganno proprio in queste battute finali, credo che ciò che con molta disinvoltura chiamiamo vita abbia molti punti in comune con questo spazio senza padroni; per ritornare alla poesia di Franca Mancinelli, già in Mala Kruna potevamo leggere "intreccio le mani sul ventre e sono / creta sul letto di un fiume di passi":  la creta e la pasta, dai piedi alle mani. Attraverso e accanto questa poesia catacretica che per dire davvero adopera la lingua sulla soglia dell'indicibile.

anche queste mani che apro
colmandole d'ombra a lavarmi
gli occhi nel mattino
sanno dove sorgeva
un viso, una profonda
e chiara insenatura.