L'opera di Eugenio d'Ors ha trovato in Italia un convinto promotore in Luciano Anceschi. Di Anceschi è difatti la cura di quella che resta l'opera più fortunata e duratura dello scrittore catalano, Del Barocco del 1936 (disponibile nel catalogo Abscondita), una raccolta di scritti dove questo stile veniva ribaltato e ricollocato originalmente nell'analisi fenomenologica. Qualche tempo fa ho scritto di un altro libro di Eugenio d'Ors, un volume ad alto tasso angelico (qui), e ora, per Aragno, è disponibile anche l'altro dei testi prediletti da Luciano Anceschi, la difficilmente catalogabile e anche per questo così seducente Oceanografia del tedio (pp. 98, euro 15, a cura di Alessandra Ruffino). Lo scritto comparve in catalano nel 1918 e in castigliano nel 1921. La traduzione proposta da Aragno oggi è quella di Oreste Macrì del 1943 (Roma, Edizioni Lettere d'Oggi), tuttavia, poiché cosparsa di qualche refuso, è poi stata collazionata con il testo castigliano del 1921 e con l'altra traduzione italiana disponibile, quella di Dino Campini del 1945, uscita nel volume Oceanografia del tedio e Storie delle asparagiaie (Milano, Perinetti e Casoni). Il libro è sostanzialmente una breve novella con quattro personaggi, un dottore e un Autore, una donna che può distrarre dal tedio e un amico. All'Autore viene prescritto il tedio contro l'esaurimento, un anticartesiano non-pensiero, l'assenza di movimento, il viaggio da fermo nella sedia a sdraio nel parco all'esterno di un albergo, la concentrazione di quello strano quieto rodimento che il tedio è. E da qui il libro s'avvia.
La novella (esemplare?), che è accompagnata da un'ampia prefazione della curatrice Alessandra Ruffino, si legge in pochi minuti e in parte è riassunta nelle poche righe del paragrafo precedente. Inoltre, ciò che accade, che è poco ma anche tanto, accade primariamente nella scrittura e lì soltanto (come in ogni libro di finzione, se è per questo, anche se qui è centrale l'atmosfera). L'Autore, fra l'altro, dice che l'opera d'arte non è che un titolo. Iniettata nel circuito editoriale d'oggi, quest'opera di Eugenio d'Ors pare ponga schiettamente alcune questioni all'ecosistema librario e al percepito libresco. Non è quasi mai saggio quello che sto facendo, ovvero trasformare una nota di lettura in un pretesto per parlare d'altro e allargare la visuale sul panorama editoriale, sulla circolazione, l'estetica e i meccanismi di produzione del libro, ma questa non vuole essere certo una recensione-modello (piuttosto una recensione-monello). Oceanografia del tedio pone ad esempio un cuneo divaricatore tra la cosiddetta opera d'azione e l'opera di atmosfera, tradizione nella quale si potrebbe a buon titolo inserire, e l'occasione mi pare troppo ghiotta per non sfruttare questo cuneo per suggerire qualche spunto. Inoltre, volendo offrire una motivazione alla lettura, è anche questo elencato sopra uno dei motivi per cui il libro proposto da Aragno potrebbe essere valutato per una lettura tardo agostana o settembrina: si tratta di un libro di atmosfera come pochi (in senso quantitativo assoluto, cioè intendo dire che sono pochi i libri di atmosfera). Ora, non si dà prosa senza azione e non si dà azione senza un personaggio (qui comunque ve ne sono ben quattro), eppure l'azione, codificata precocemente da qualsiasi poetica, non è tutto e in questo libro si può dire che l'azione è, già dal titolo, carente. Bisognerebbe ogni tanto aver presente quel versante muschioso, scivoloso e quasi perennemente in ombra che determinate stagioni di scrittura inseguono (e non da ieri). Mi riferisco agli universi di scrittura dove l'atmosfera è preponderante e sensibilmente più densa in quella sorta di continuum artificioso che possiamo tracciare tra l'azione e l'atmosfera. Potremmo anche dire che le scritture d'atmosfera sono le scritture dove accade qualcosa nella scrittura stessa e dove l'azione scema in intensità. La questione e il continuum non sono semplici da risolvere, però mi pare abbiano una ragion d'essere, soprattutto nel percepito medio e nelle logiche di produzione editoriale. Oggi per la maggiore mi pare vadano i libri di narrativa dove l'azione è esaltata, incalzante, prerequisito fondamentale. Insomma, solo un'azione ben costruita, magari filmica, emanata magicamente da personaggi ben torniti consente quella "lettura tutta d'un fiato" che è l'espressione passepartout prediletta da ogni pigro recensore. Eppure l'atmosfera è una forma d'azione, la rinuncia alla movimentazione e all'agitazione facilitata dei personaggi non è necessariamente una strada fallimentare per la scrittura (forse lo è nella testa dei direttori del marketing e naturalmente li comprendiamo). E non è vero che è la poesia il versante in cui recuperiamo questa scrittura che abbiamo deciso di chiamare "d'atmosfera", per comodità e anche un po' per sfida. Per ora rimaniamo nel prato della prosa, rimaniamo ai pezzi e ai brani che non siano scritture in versi o prose poetiche. Va da sé che questo ragionamento richiama anche un discorso più ampio e qui non praticabile sulla specificità delle singole tipologie di scrittura, sulle loro resilienze e su più o meno probabili estinzioni ormai prossime, in un periodo in cui osserviamo le pile dei romanzi scritti come se fossero sceneggiature lievitare a vista d'occhio.
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