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martedì 23 gennaio 2018

"Andare verso. La critica d’arte secondo Gabriella Drudi". Il libro di Maria De Vivo nella lettura di Eloisa Morra

L'articolo seguente di Eloisa Morra è già uscito su «alias - il manifesto» il giorno 31 dicembre 2017.


Scorrendo le dediche dei libri di Toti Scialoja, maestro della difficile conciliazione tra parola e figura, dalle pagine fa spesso capolino una decisiva presenza femminile. «Nella stanza c’è Lella», recita la prima, tratta da La stanza la stizza lastuzia, raccolta che proiettò Scialoja in una dimensione diversa dalla poesia del senso perso dell’esordio. La seconda proviene dal Giornale di Pittura, journal intime tenuto dall’artista per quasi quarant’anni: «A Gabriella, queste pagine di una pittura vissuta insieme». Di norma poco incline alle esternazioni e al sentimentalismo, Toti non mise mai in dubbio l’ascendenza esercitata sulla sua doppia vocazione dalla compagna Gabriella Drudi (1924-1998), critico, traduttrice e scrittrice tra le più interessanti del nostro Novecento.
A ridare volto e corpo alla sua biografia intellettuale contribuisce ora il saggio di Maria De Vivo, Andare verso. La critica darte secondo Gabriella Drudi, recentemente pubblicato per i tipi di Quodlibet. Del volume colpisce favorevolmente il taglio metodologico: più che una disamina filologica sulle posizioni assunte di volta in volta da Drudi riguardo al singolo artista, De Vivo mira a tracciare la genealogia che soggiace a un metodo critico così poco ortodosso, almeno da un angolo visuale strettamente italiano. Attraverso documenti rari e corrispondenze inedite conservate presso l’Archivio della Fondazione Toti Scialoja di Roma De Vivo delinea il proteiforme profilo di Drudi nell’unico modo possibile, ovvero facendo la spola tra mondo scritto e mondo non scritto, tra biografia e critica.

Così poco di moda oggi in Italia, questo intreccio risulta proficuo nel caso in cui si studino figure di cui tanto resta ancora da scoprire a livello biografico-documentario e poco risulta accessibile ai lettori (quasi tutti gli scritti di Drudi purtroppo sono fuori catalogo). Va detto da subito che Drudi non fu un critico d’arte tradizionale: non veniva da studi specialistici in storia dell’arte, non organizzò mostre di grande eco negli anni Sessanta né fu mai riconducibile a scuole. Eppure, almeno a sentire le testimonianze di chi l’ha conosciuta bene, un suo giudizio, una sua parola un peso lo esercitavano eccome: «quando c’è lei tutti si scaldano; pianta le baionette sul tavolo e si fanno i conti sull’assoluto», confidò Mario Diacono; Willem De Kooning le fece forse il più bel complimento possibile per un critico: «è tra i pochi scrittori a capire cosa passa per la mente di un pittore».

Le diverse tonalità delle dichiarazioni concordano su un dato decisivo, che è anche il punto di partenza dell’indagine di De Vivo: Drudi è una scrittrice, e in quanto tale considera la critica d’arte non genere subalterno, ma ulteriore campo di battaglia attraverso cui mettere la parola alla prova del nulla. Lo spiritello di Beckett si annida in tutti i suoi scritti, con quell’indistinzione tra vita e scrittura così dolorosa eppure congeniale al suo temperamento ombroso, deciso e appassionato («Mal vu mal dit. Questo testo di Beckett io lo leggevo tutte le mattine, l’alba durava quanto basta. La porta di cucina aperta, il sole cieco ancora sul biancore del marese», è scritto splendidamente in un testo per una collettiva del 1989 a lui ispirata).

Alla matrice beckettiana se ne aggiungono almeno altre due: quella derivante dalla critica d’arte come poesia e lanecdotal touch ereditato da oltreoceano. Della prima Drudi fu debitrice (oltre all’ABC del Baudelaire dei Salons: «le meilleur compte rendu dun tableau pourra être un sonnet ou une élégie») all’incontro con Emilio Villa, con cui lavorò a lungo insieme a Toti Scialoja nella redazione della rivista Arti Visive e collaborerà poi ad un’altra importante pubblicazione, Appia Antica. Da Villa Drudi assorbe un modello di critica come crogiolo di «entusiasmo, occhio, poesia». Lontano da ogni ideologia il critico dovrà avvicinarsi all’opera da scrittore, ricreando coi suoi mezzi corrispondenze ed echi d’una pennellata, un accordo cromatico, una sbavatura. Drudi non esiterà a bocciare come dogmatica l’avversione di Longhi per l’astrattismo, tentando di supplire alla clamorosa assenza di un linguaggio critico atto a descrivere l’Informale, almeno fino alla fine dei Cinquanta; è in questo giro di anni che ha l’opportunità di trascorrere diversi mesi a New York, servendosi dei contatti dell’amico fotografo Milton Gendel per scoprire da vicino artisti fino a quel momento solo annusati («opere viste a Venezia, dalla Guggenheim, nelle Biennali. Opere mal viste, in letture naturalistiche o in confronti su di nulla in particolare»). Intuita la forza di rinnovamento che il panorama italiano avrebbe potuto trarre nell’entrare in contatto con l’art world americano, nei trent’anni successivi Drudi non farà che spendere tutte le sue energie per dar voce a critici e artisti amati, attraverso le monografie su Motherwell e De Kooning e la traduzione dei libri di Rosenberg. Due elementi colpiscono nel leggere i suoi scritti di «stelle e pezzi di terra strofinati assieme», come li definì Scialoja: l’assenza di teorie precostituite e la fulminea eleganza degli accostamenti. La prima deriva dal continuo confronto con la materia esperito in prima persona e nell’atelier del marito; la seconda è innata, ed è propria dei maestri.

Eloisa Morra

martedì 3 febbraio 2015

Toti Scialoja nel ritratto di Eloisa Morra: "Un allegro fischiettare nelle tenebre"

Librobreve intervista #50

Un allegro fischiettare nelle tenebre. Ritratto di Toti Scialoja è uscito da pochi giorni per Quodlibet (pp. 240, euro 20). Eloisa Morra ne è l'autrice. La raggiungo con le domande di questa intervista, che ora vi proponiamo per accompagnare una stagione di parziale riavvicinamento all'opera del pittore-poeta romano, del quale lo scorso anno ricorreva il centenario della nascita. Fortunatamente però quest'intervista esce nel 2015, e quindi siamo a 101 anni dalla nascita; 101 è un numero palindromo e quella di Eloisa è la cinquantesima intervista di questo blog, metà di cento. Insomma, questa numerologia mi solleva. Ringrazio l'intervistata e anche Mariagiorgia Ulbar per avermi parlato per prima, alcuni mesi fa, dello studio di Eloisa Morra.

LB: Come nasce e si sviluppa questo tuo studio su Scialoja? (E una curiosità personale: questo autore ha vinto su qualche altro autore che avresti potuto/voluto studiare e approfondire?)
R: Il progetto del libro nasce da una ricerca iniziata alla Scuola Normale Superiore di Pisa a fine 2010; mi sono resa conto quasi subito di avere a che fare con un autore non ancora “scoperto”, nonostante potesse vantare tra i suoi ammiratori Calvino, Manganelli, Porta e Raboni, senza dimenticare le poesie à la Scialoja di Alberto Arbasino… A parte gli scritti di questi grandi Toti Scialoja poeta e illustratore rimaneva inesplorato. Studiarlo (ma sarebbe meglio dire inseguirlo; i suoi talenti sfuggono a qualsiasi tentativo di incasellamento) era una sfida ardua: come muoversi nell’esplorare un autore su cui non esistevano studi organici? Il  maggiore rischio stava proprio nell’apparente facilità derivata dalla troppa libertà: ma mi sembrava valesse davvero la pena tentare una ricostruzione — e un’interpretazione — da zero di un’avventura intellettuale unica, che si snoda lungo tutto il Novecento per andare ben oltre i confini italiani. Girando per diversi archivi mi sono resa conto che c’era abbastanza materiale per tentare un ritratto critico di un artista capace di passare dal tono sofferto dei suoi dipinti più famosi, le “impronte”, a storie di animali che sembrano lievitare dalla trama invisibile delle sillabe:

L’istrice attrice illustre
recita parti tristi
con occhi lustri lustri
inchiostrati di bistri…


Mi affascinava scoprire cosa si nascondesse dietro l’apparente semplicità dei versi e dei disegni… Arrivata da Pisa a Harvard ho continuato a lavorare a questa ricerca grazie a un sistema bibliotecario straordinario. Quanto agli altri autori, sì, Scialoja ha “vinto” su Calvino, che però si è imposto comunque come una presenza forte all’interno del libro: Toti lo avrebbe voluto tra i collaboratori di “Rivista Bianca”, una pubblicazione di cui doveva essere co-direttore insieme a Elsa Morante e Mario Lattes all’inizio degli anni Cinquanta. Trent’anni più tardi sarebbero diventati amici: Calvino avrebbe spinto Einaudi a pubblicare il suo secondo libro di poesia, e — spinti da predilezioni visive simili — i due avrebbero lavorato intensamente al “Teatro dei ventagli”, un progetto di fiabe animate da mandare in onda per la RAI, poi non finalizzato… Insomma, attraverso questi inaspettati “incroci” ho avuto la fortuna di poter esplorare anche altri autori, italiani e stranieri.

Toti Scialoja
LB: E, risalendo a prima ancora, ci racconti del tuo personale incontro con Scialoja?
R:  Ho “conosciuto” prima il pittore; a colpirmi era stata soprattutto l’evoluzione avventurosa del suo percorso (c’è uno Scialoja esordiente che guarda alla Scuola Romana, un altro che si ispira a Morandi, per poi passare ad assorbire la lezione di Picasso e infine trovare la sua strada all’inizio degli anni Cinquanta, col passaggio all’arte astratta e alle sue “impronte”) e anche la sua letterarietà: il Giornale di pittura, il ‘diario di lavoro’ che Toti inizia a scrivere nel ‘53, è allo stesso tempo una testimonianza sulla vita artistica dell’epoca e — lo ha ricordato bene Gillo Dorfles — un “documento poetico”. Solo dopo una compagna di studi mi ha raccontato che da piccola le leggevano le poesie di Scialoja; l’idea che un pittore scrivesse poesie e le illustrasse mi ha subito affascinata, come  mi ha colpita il fatto che la casa-biblioteca di Scialoja fosse a Roma, ancora intatta. Da qui è nata la curiosità che ha dato inizio alle ricerche di cui parlavo prima...

Alberto Savinio
LB: Credo si possano ravvisare delle alterne vicende nella sua storia editoriale e critica. Pensi tuttavia che il futuro sia dei Scialoja? Voglio chiedere, al di là della battuta, se credi che ci sarà sempre più spazio e attenzione per figure così irriducibili, poco "pure", come il nostro poeta-pittore.
R: Senza dubbio la complessità della sua poesia è stata poco apprezzata a livello editoriale; i confini (tra poesia per adulti e poesia per l’infanzia, tra libro per bambini e libro “d’artista”) sono ancora oggi molto rigidi, e Scialoja sembra nato apposta per metterli in discussione: non è un secondo Rodari, i suoi nonsense non hanno morale, ed usano un linguaggio musicale e arduo insieme… Una figura straordinaria e non catalogabile, dunque poco valorizzata. Ma sono ottimista verso gli “impuri”, credo che la loro irriducibilità abbia molto da dirci ancora oggi: pensa ad Alberto Savinio, e al bellissimo lavoro di riscoperta/restauro dei testi portato avanti negli ultimi anni… Certo sono autori difficili da studiare: la pienezza dei loro interessi costringe l’interprete a muoversi attraverso campi non sempre battuti. Ma è proprio in quest’indisciplina (saper mettere insieme saperi diversi, oltre gli steccati tradizionali; fornire uno sguardo lucido ma non cinico sulla società, senza risparmiarsi un’analisi schietta del proprio lavoro e delle pressioni cui si è sottoposti in prima persona in quanto artisti-intellettuali: penso ai nomi fatti sopra, ma anche a Fortini) che sta il loro valore. E nel riscoprire i loro percorsi intellettuali spesso ci si trova anche a riflettere sulla specificità delle oggi tanto bistrattate discipline umanistiche.

LB: In una parte del libro, secondo me molto interessante, scrivi del rapporto di Scialoja con Mino Maccari e della collaborazione alla rivista "Il Selvaggio". Potresti ripercorrere le principali mosse di questo frangente del tuo studio?
R: Quando inizia a collaborare a “Il Selvaggio”, nel 1940, Scialoja è un ragazzo ancora indeciso tra le strade della letteratura e della grafica, della pittura. È stato interessante scoprire come la rivista diretta da Mino Maccari fosse per lui una specie di laboratorio letterario, un’arena da percorrere in direzioni diverse: su quelle pagine — spesso percorse dalle bellissime incisioni del direttore-fondatore — Toti pubblica prose poetiche dai toni malinconici, recensioni di mostre, ritratti critici di amici pittori, e i suoi primi disegni… Sono poi rimasta incuriosita da alcuni versi satirici, non firmati, che apparivano in coda ad un suo articolo del 1941. A chi appartenevano? In un primo momento pensavo si trattasse di Toti, ma lo stile ed altri dati esterni hanno portato invece ad attribuire le poesie a Maccari. E un confronto tra questi versi ed altri ‘scherzi’ e vignette pubblicati da Scialoja in quegli stessi anni hanno rivelato due diverse posture, stilistiche e gnoseologiche: se Maccari dà vita a un tipo di satira molto spiccia e ‘locale’, Scialoja spezza la gabbia etica e fono-simbolica dell’Italia fascista, nascondendo una realtà drammatica sotto segni e disegni solo apparentemente giocosi.

LB: Nella tua ricerca c'è qualcosa che ti ha sorpreso? Quel che vorrei chiederti ora è se il processo di ricerca ti ha portato anche ad affrontare degli elementi che ti hanno sorpreso, turbato, depistato o altro, comunque assai lontani da certe idee "iniziali" che ribollono quando si intraprende un ritratto del genere. 
R: Certo, è stato un processo pieno di sorprese. Mi ha colpito sopratutto scoprire un primo Scialoja molto diverso — mi riferisco in particolare al suo stile degli esordi, con i racconti, finora dispersi, pubblicati a metà anni Trenta: sono pezzi immaginifici, ma anche molto letterari e ardui da cogliere a una prima lettura — da quello dei nonsense; per arrivare a quella sprezzatura ha dovuto percorrere un via fatta di molti ostacoli. La semplicità delle sue poesie è solo apparente, come pure la loro natura di divertissement: il nonsense è un talismano, un modo di dire l’indicibile nascondendolo, polverizzandolo… Forse è anche per questo che tra i versi ritroviamo echi, parodici e non, di una tradizione letteraria che va da Dante a Montale al “nonsense metafisico” di Eliot.
Un simile discorso va fatto per i disegni. Nel libro paragono per la prima volta le illustrazioni dell’inedito Tre per un topo, il quaderno disegnato da Scialoja per i nipoti nel 1969, con quelle poi pubblicate nei libri degli anni Settanta: ne vengono fuori delle varianti grafiche d’ incredibile finezza, molto significative per capire in che modo Scialoja intendesse il rapporto tra testo e immagine. Alla fine, sono rimasta sorpresa nello scoprire come una continuità tra i racconti degli esordi e la sua produzione poetica successiva al nonsense. Il confine tra leggerezza e serietà, tra gioco e tensione morale del gesto artistico in Scialoja è molto più sfumato di quanto pensassi all’inizio.

LB: Vivi negli Stati Uniti. Cosa ci puoi raccontare di Scialoja letto e visto da lì? 
R: Negli Stati Uniti il ricordo di Scialoja pittore resta vivo grazie all’azione di ponte e filo conduttore tra due culture e scene artistiche che lui e la compagna Gabriella Drudi (una figura da riscoprire: scrittrice e critica d’arte, fu autrice della prima monografia italiana dedicata a Robert Motherwell) hanno esercitato per decenni. C’è ancora molto da fare però, soprattutto sul versante della poesia: spero che la monografia contribuisca a far conoscere la sua opera anche oltreoceano.

LB: Potresti scegliere una poesia e un'opera pittorica di Scialoja come saluto? Grazie. 
R: Grazie a te! Il quadro si chiama Impronta bianca su sabbia (1959), ora al Guggenheim di Venezia.

Toti Scialoja, Impronta bianca su sabbia (1959)
Tra le mie poesie preferite c’è invece quella del dromedario:

Quando il tetro dromedario
giunse dietro al tetraedro
alzò gli occhi e disse: «Diamine!
Son davanti a una piramide!».