Scorrendo le dediche dei libri di Toti Scialoja, maestro della difficile conciliazione tra parola e figura, dalle pagine fa spesso capolino una decisiva presenza femminile. «Nella stanza c’è Lella», recita la prima, tratta da La stanza la stizza l’astuzia, raccolta che proiettò Scialoja in una dimensione diversa dalla poesia del senso perso dell’esordio. La seconda proviene dal Giornale di Pittura, journal intime tenuto dall’artista per quasi quarant’anni: «A Gabriella, queste pagine di una pittura vissuta insieme». Di norma poco incline alle esternazioni e al sentimentalismo, Toti non mise mai in dubbio l’ascendenza esercitata sulla sua doppia vocazione dalla compagna Gabriella Drudi (1924-1998), critico, traduttrice e scrittrice tra le più interessanti del nostro Novecento.
A ridare volto e
corpo alla sua biografia intellettuale contribuisce ora il saggio di Maria De
Vivo, Andare verso. La critica d’arte secondo
Gabriella Drudi, recentemente pubblicato per i tipi di Quodlibet. Del
volume colpisce favorevolmente il taglio metodologico: più che una disamina filologica sulle posizioni assunte di
volta in volta da Drudi riguardo al singolo artista, De Vivo mira a tracciare
la genealogia che soggiace a un metodo critico così poco ortodosso, almeno da un angolo visuale strettamente
italiano. Attraverso documenti rari e corrispondenze inedite conservate presso
l’Archivio della Fondazione Toti Scialoja di Roma De Vivo
delinea il proteiforme profilo di Drudi nell’unico modo
possibile, ovvero facendo la spola tra mondo scritto e mondo non scritto, tra
biografia e critica.
Così poco di moda oggi in Italia, questo intreccio risulta
proficuo nel caso in cui si studino figure di cui tanto resta ancora da
scoprire a livello biografico-documentario e poco risulta accessibile ai
lettori (quasi tutti gli scritti di Drudi purtroppo sono fuori catalogo). Va
detto da subito che Drudi non fu un critico d’arte tradizionale: non veniva da studi specialistici in storia dell’arte, non organizzò mostre di grande
eco negli anni Sessanta né fu mai
riconducibile a scuole. Eppure, almeno a sentire le testimonianze di chi l’ha conosciuta bene, un suo giudizio, una sua parola un peso lo esercitavano
eccome: «quando c’è lei tutti si scaldano; pianta le baionette sul tavolo e
si fanno i conti sull’assoluto», confidò Mario Diacono;
Willem De Kooning le fece forse il più bel complimento possibile per un critico: «è tra i pochi
scrittori a capire cosa passa per la mente di un pittore».
Le diverse
tonalità delle
dichiarazioni concordano su un dato decisivo, che è anche il punto di partenza dell’indagine di De Vivo: Drudi è una scrittrice, e in quanto tale considera la critica d’arte non genere subalterno, ma ulteriore campo di battaglia attraverso cui
mettere la parola alla prova del nulla. Lo spiritello di Beckett si annida in
tutti i suoi scritti, con quell’indistinzione tra
vita e scrittura così dolorosa eppure
congeniale al suo temperamento ombroso, deciso e appassionato («Mal vu mal dit. Questo testo di
Beckett io lo leggevo tutte le mattine, l’alba durava
quanto basta. La porta di cucina aperta, il sole cieco ancora sul biancore del
marese», è scritto splendidamente in un testo per una collettiva del
1989 a lui ispirata).
Alla matrice
beckettiana se ne aggiungono almeno altre due: quella derivante dalla critica d’arte come poesia e l’anecdotal touch ereditato da oltreoceano. Della prima Drudi fu debitrice (oltre all’ABC del Baudelaire dei Salons:
«le meilleur
compte rendu d’un tableau pourra être un sonnet ou une élégie») all’incontro con Emilio Villa, con cui lavorò a lungo insieme a Toti Scialoja nella redazione della
rivista Arti Visive e collaborerà poi ad un’altra importante pubblicazione, Appia Antica. Da
Villa Drudi assorbe un modello di critica come crogiolo di «entusiasmo, occhio, poesia». Lontano da ogni
ideologia il critico dovrà avvicinarsi all’opera da scrittore, ricreando coi suoi mezzi corrispondenze ed echi d’una pennellata, un accordo cromatico, una sbavatura. Drudi non esiterà a bocciare come dogmatica l’avversione di Longhi per l’astrattismo,
tentando di supplire alla clamorosa assenza di un linguaggio critico atto a
descrivere l’Informale, almeno fino alla fine dei Cinquanta; è in questo giro di anni che ha l’opportunità di trascorrere
diversi mesi a New York, servendosi dei contatti dell’amico fotografo Milton Gendel per scoprire da vicino artisti fino a quel
momento solo annusati («opere viste a Venezia, dalla Guggenheim, nelle Biennali. Opere mal viste,
in letture naturalistiche o in confronti su di nulla in particolare»). Intuita la
forza di rinnovamento che il panorama italiano avrebbe potuto trarre nell’entrare in contatto con l’art world americano, nei trent’anni successivi Drudi non farà che spendere tutte le sue energie per dar voce a critici
e artisti amati, attraverso le monografie su Motherwell e De Kooning e la
traduzione dei libri di Rosenberg. Due elementi colpiscono nel leggere i suoi
scritti di «stelle
e pezzi di terra strofinati assieme», come li definì Scialoja: l’assenza di teorie precostituite e la fulminea eleganza
degli accostamenti. La prima deriva dal continuo confronto con la materia
esperito in prima persona e nell’atelier del
marito; la seconda è innata, ed è propria dei maestri.
Eloisa Morra
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