giovedì 26 aprile 2018

"L'inconscio e la dialettica" di Enzo Melandri e la fondamentale critica a Freud

Presso la casa editrice Quodlibet prosegue la pubblicazione e sistemazione doverosa di tutte le opere del filosofo Enzo Melandri (Genova 1926 - Faenza 1993). Anni fa, su queste pagine, già abbiamo dato notizia di un libro tanto piccolo quanto fondamentale intitolato I generi letterari e la loro origine. Con riferimento a quel contributo, più passa il tempo e più ci accorgiamo del valore di quel breve scritto. Succede spesso così: una manciata di pagine può dare una scossa più forte di un tomo di cinquecento e in filosofia e nella scienza è spesso accaduto proprio questo (altre situazioni come la prosa e ultimamente anche la poesia hanno inspiegabilmente bisogno di allargarsi ed espandersi). Ora nella stessa collana compare L'inconscio e la dialettica (pp. 112, euro 12, con una postfazione di Felice Cimatti), un testo che uscì per l'editore Cappelli di Bologna nel 1983 e nel quale l'economia politica di Marx e l'inconscio di Freud arrivano a toccarsi e fertilizzarsi. Per arrivare a dire quello che preme, Melandri adotta un progressivo confronto con l'opera dello psicanalista argentino Ignacio Matte Blanco, il cui progetto consente al filosofo di mostrare come la contraddizione e gli oggetti contraddittori, che avrebbero la propria locazione proprio nell'inconscio, siano una "metafora dinamica". 

In una trattazione che abbraccia ipnosi, sogni, inconscio (sostantivo nell'accezione forte, aggettivale nella versione debole), la matematica di Cantor e Dedekind, Melandri prende avvio dal problema fondamentale della dialettica, ovvero prende le mosse chiedendosi se l'oggetto del discorso possa essere contraddittorio o meno. Sullo sfondo c'è l'urgenza di capire se di un dato oggetto del discorso si può parlare in modo sensato (ad esempio un oggetto che sia contemporaneamente A e non-A risulta contraddittorio e risulta arduo parlarne in modo sensato). La questione si fa interessante se applicata alla psicanalisi e all'inconscio in particolar modo. Cimatti nella postfazione sintetizza il problema chiedendo come è possibile occuparsi dell'inconscio alla maniera di Freud, se "il modo scientifico di conoscere qualunque oggetto si basa su operazioni logico-linguistiche affatto incompatibili con le (presunte) caratteristiche di quello stesso oggetto?" Sullo sfondo, centrale, il problema di come sia possibile parlare dell'inconscio, cioè di qualcosa che sfugge al nostro apparato cognitivo. Nel corso di queste pagine Melandri cerca sostanzialmente di capire (e contestare) l'attributo di illogicità dato da Freud all'inconscio.

La temperatura del ragionamento di Melandri sale allorquando definisce la psicanalisi come interpretazione di manifestazioni neurotiche mediante logoterapia e osserva, se le cose stanno così, come questa diventi una pratica poco convincente che può andare presto a noia. Come può essere che lo psicanalista interpreti o spieghi il sogno o l'atto mancato? E se l'inconscio fosse davvero illogico, come provare a fare su questo un ragionamento scientifico o addirittura, come tenta Melandri, come provare a perseguire l'epistemologia della psicanalisi? Qui s'innesta l'idea regolativa dell'inconscio che secondo Melandri la psicanalisi deve postulare al fine di rincorrere un discorso più efficace e teoreticamente elegante e qui si innesta anche il capovolgimento e contraddittorio rispetto a Freud: non illogico bensì irrazionale è il nostro inconscio, quindi, per definizione, oggetto non catturabile dai nostri strumenti della logica, ovvero dagli stessi strumenti dai quali il discorso era partito. Ma non è possibile rinunciare alla logica per Melandri, mai e poi mai, perché rinunciare alla logica significa precludersi qualsiasi possibilità di conoscenza. Spesso diciamo di un sogno che è assurdo perché vogliamo inquadrarlo in una data logica che non è la sua. In tale cornice ogni evento psichico mantiene una straordinaria autonomia e l'inconscio diventa "obiettivo di un certo sistema di incongruenze".

Come si può dunque conoscere l'inconscio? Innanzitutto serve scalpellare una radicale critica di Freud, laddove riduce l'inconscio a fatto segnatamente linguistico. Per Melandri è venuto il momento di slegare il fatto psichico dall'accento dominante che su di questo esercita il linguaggio. Viva allora la psicanalisi che resta ben salda nel mondo della parola, ma stiamo attenti che la sfera della psiche non si sovrappone a quella del linguaggio, ma è a questa antecedente. E se con Lacan si può arrivare a dire che l'inconscio è strutturato come linguaggio, questo non significa che si possa dire che l'inconscio è linguaggio. Le possibilità conoscitive attorno all'inconscio per Melandri non si possono pertanto fondare su un sapere ancora saldamente logico o saldamente linguistico. Serve un sapere che si apra all'ignoranza, a ciò che sfugge e proprio qui, così, il circolo si salda con la dialettica del titolo di questo saggio. La psicanalisi, nel lacaniano Melandri, si smarca dalla sua centratura linguistica e lo psicanalista diventa colui che propone buone analogie affinché il paziente possa arrivare a pensarsi in modo inedito, scongelato. Come chiude Cimatti la sua postfazione, la psicanalisi così facendo "non dà la parola all'inconscio, al contrario, produce nuovo inconscio, e così facendo inevitabilmente lo rivoluziona."

lunedì 23 aprile 2018

Ritorno di Hart Crane. Una recensione di Massimo Bacigalupo a "White Buildings"

Di Grenelle Edizioni abbiamo già parlato in questa intervista. La recensione seguente di Massimo Bacigalupo all'edizione di Grenelle di White Buildings è apparsa su "Alias". Di Hart Crane si è parlato anche in quest'altra intervista con Simone Maria Bonin, traduttore e curatore del volume Atlantide (Thauma edizioni), contenente poesie, prose e corrispondenze del poeta.


Un piccolo editore di Potenza, Grenelle, ci ripropone uno dei libri di poesia americana più importanti del secolo scorso, White Buildings di Hart Crane (a cura di Piero Pascarelli, pp. XL+86, 14 euro). È un piccolo libro (23 poesie per lo più brevi) di grande tensione lirica, che dato anche il formato tascabile invita alla lettura odeporica. Hart Crane era contemporaneo di Hemingway e dell’amico Cummings e raggiunse nella breve e tormentata vita di omosessuale alcolista dei vertici lirici assoluti. Di solito lo si ricorda per il poema The Bridge, che doveva essere una risposta affermativa e whitmaniana a The Waste Land, una esaltata e diseguale storia dell’America vista dal meraviglioso Ponte di Brooklyn. Ma c’è chi sostiene che in queste liriche brevi egli ha dato il suo meglio. Ecco i primi versi della prima poesia, “Legend”: “As silent as a mirror is believed / Realities plunge silent by...”. Pascarelli, autore della approfondita introduzione e di ampie note, traduce: “Silenziose come si crede uno specchio / Le realtà affondano nel silenzio vicino...”. C’è la lezione dei metafisici (Eliot) recepita in un bar di Broadway. E la vocazione assoluta della poesia (Shelley). Infatti “Leggenda” continua: “Non sono pronto al pentimento; / Né a misurare rimpianti.  Perché la falena / Non piega nulla più che la fiamma / Ancora implorante. E tremuli / Fra i bianchi fiocchi cadenti / Sono i baci – / L’unica verità che vale tutto”. È un programma di passione e abbandono (Crane morì suicida a 32 anni gettandosi da una nave nel Golfo del Messico). Tipica della poesia di Crane è l’abbondanza di immagini, sinestesie e involuzioni sintattiche. Il tutto si giustifica come musica e spesso non è facile per lettore (e traduttore) raccapezzarsi fra tanta ricchezza e stranezza. Comprendiamo a tratti, a lampi, ascoltiamo il rumore della risacca. La raccolta si conclude infatti con la celebre sequenza “Voyages” (viaggi, navigazioni), sei poesie estatiche (salvo la prima assai sobria: “Il fondo del mare è crudele”) nate da un grande breve ricambiato amore: “Hasten while they are true, sleep, death, desire, / Close round one instant in one floating flower” (“Affrettati finché son vere – il sonno, la morte, il desiderio, / Sono racchiusi all’istante in un fiore che galleggia”). È uno dei “carpe diem” più memorabili della poesia in lingua inglese, con quella straordinaria rima piana desire/flower. (Shakespeare rimò flower con power in un sonetto celebrativo della bellezza e della poesia.) Sullo sfondo, come si accennava, il paesaggio sognante dei Caraibi, dell’oceano (vengono in mente le corone hawaiane alla fine del film Da qui all’eternità). E Melville, che scrutò quel mondo ambiguo di fiori e desideri appagati, appare nella celebre riflessione sulla sua tomba nel cimitero del Bronx: “Spesso di sotto l’onda, di là da questa scogliera / Egli vide i dadi d’ossa degli annegati lasciare / Un’ambasciata....” (ma forse, più che “scogliera”, ledge sarà la pietra tombale del marinaio scrittore su cui se ben ricordo  è incisa una lira?). Crane è un poeta urbano che vede il suo viso moltiplicato in una caraffa (“Il serraglio del vino”), ma ha nostalgia di spazi interminati, e una famosa poesia si intitola “Riposo di fiumi”: “Non potei mai ricordare / Quel ribollente, regolare acquattamento delle paludi / Fino a che l’età non mi portò al mare”. Com’è giusto, i versi e le immagini non sono mai del tutto perspicui, e di alcuni credo nessuno sia mai venuto a capo, tale e tanta la densità metaforica e sintattica. La traduzione (la seconda dopo quella felice di Roberto Sanesi, raccolta nel volume Il ponte e altre poesie, 1967) aiuta a scandagliare l’inglese, che poi va assaporato di per sé. La poesia di questo genere ha a che fare non solo col suono ma quasi con le papille gustative, il modo in cui i suoni si sciolgono nella bocca, o vi si muovono, diventano carnali. Sul livello del suono c’è anche (ci spiegano le note e le dichiarazioni di Crane) l’imitazione del jazz, presente nella poesia “Per il matrimonio di Fausto ed Elena”, una delle più ampie e complesse e, diciamolo, difficili. (Una studiosa italiana, Bonalda Stringher, vi dedicò molte pagine anni fa: Introduzione alla poesia di H.C, 1987.) Ma il lettore non iniziato potrà accontentarsi di liriche meno ardue, come “Chaplinesque”, che piacque allo stesso Chaplin: “Perché possiamo ancora amare il mondo, noi che troviamo / Alla porta un gattino affamato, e conosciamo / Segreti ripari per lui dalla furia della strada...”. La protezione della debolezza, il poeta esaltato e il poeta del cinema. E poi la sconfitta, nonostante tanto sognare. White Buildings è un libretto tutto da godere ma sarebbe un errore prenderlo per poesia pura. Nel suo folle volo c’è un elemento tragico che è connaturato all’esperienza americana.

Massimo Bacigalupo

domenica 22 aprile 2018

Erika Crosara per "Giri di chiglia" a Milano sabato 28 aprile


DIALOGO CON ERIKA CROSARA
Sabato 28 aprile – h 17:30
Caffè Colibrì, Milano
(via Laghetto 9/11)

Torna "Giri di chiglia", il ciclo di incontri poetici de "La Balena Bianca". Sabato 28 aprile, dalle 17:30, Erika Crosara dialogherà con Alberto Cellotto e Lorenzo Cardilli.

"Giri di Chiglia" è una rassegna dedicata alla poesia contemporanea e alle sue sfide. Attraverso letture dei testi e discussioni a più voci, l'incontro propone una "visita guidata" nell'officina dell'autore. Sullo sfondo, i grandi problemi della poesia di oggi: quali stili ha ancora senso praticare? Cosa rimane da dire alla poesia? Come può "andare verso il pubblico"? Questioni urgenti e condivise, pur nella specificità di ogni percorso creativo.


Erika Crosara è nata a Vicenza, nell’ottobre 1977. Laureata in Conservazione dei beni culturali, attualmente vive a Galleriano di Lestizza (UD). Le sue poesie sono presenti su riviste, blog letterari e nelle antologie Dall’Adige all’Isonzo. Poeti a Nord-Est (2008), Notturni di versi. Crisi (2010), Salvezza e impegno (2010), Ombre come cosa salda. Il Purgatorio letto dai poeti Canti X-XXVII (2011). Ius è il suo primo libro di poesia (Anterem Edizioni, Verona 2010; Premio Lorenzo Montano nello stesso anno). Collabora con il fratello Diego Crosara, musicista e compositore (Case, 2012). 

(Ricordiamo questa nota di Giusi Montali su Ius di Erika Crosara pubblicata qui.)


Lorenzo Cardilli (Rho, 1984) è redattore de «La Balena Bianca» e si occupa perlopiù di poesia contemporanea. Ha svolto un dottorato di ricerca presso l'Università degli Studi di Milano e l'Université de Fribourg - Suisse e insegna Italian and European culture al Politecnico di Milano.

venerdì 20 aprile 2018

"Anonimo veneziano" di Giuseppe Berto: dai dialoghi per il film e il teatro al romanzo che lavora negli spazi tra i dialoghi

Ad un certo punto de Il dilemma Giorgio Gaber canta "l’amore e il litigio sono le forme del nostro tempo". È una bella canzone sulla coppia, che mi pare abbia qualcosa da dire su questo "tema". Può capitare di ripensarla leggendo questo libro. Non so quanti libri oggigiorno dicano qualcosa di interessante sulla coppia o sulle coppie. So che a suo tempo qualcosa di interessante lo disse Giuseppe Berto con Anonimo veneziano, inizialmente film del 1970 diretto da Enrico Maria Salerno per il quale Berto scrisse la sceneggiatura e i dialoghi. Di lì a poco, nel 1971, il testo uscì anche come "Testo drammatico in due atti". Solo nel 1976, direttamente nella collana BUR, e curiosamente sollecitato dal lavoro della traduttrice inglese Valerie Southorn che ne aveva ingegnosamente trasformato le didascalie teatrali in qualcosa di più vicino a un romanzo, il testo approdò alla versione di romanzo breve o racconto lungo che dir si voglia. Possiamo leggerla nuovamente oggi, nell'anno del quarantennale della morte dello scrittore, anche in questa nuova edizione di Neri Pozza (pp. 112, euro 15, con introduzione di Cesare De Michelis e con la prefazione dell'autore all'edizione del 1976). In questo libro Berto consegna una Venezia "anonima" e inedita, come ha ricordato Diego Valeri. I giochi metaletterari con Thomas Mann de La morte a Venezia o con John Ruskin de Le pietre di Venezia sono sostanza della descrizione che interessa la città della laguna, colta già nel suo cancro conclamato. Ma vi sono i giochi interni e i fraseggi musicali con il compositore Alessandro Marcello, fratello meno fortunato di Benedetto, eppure autore di quel capolavoro di concerto del 1717 che diventa colonna sonora della parte finale e della scena conclusiva del libro. Del resto la storia, abbastanza nota ormai dopo quarant'anni di buon successo cinematografico e librario, ci mostra all'inizio un genio un po' sgualcito "che non ha avuto molta fortuna" - proprio come Alessandro Marcello - mentre aspetta l'ex moglie in arrivo col rapido da Milano a Venezia Santa Lucia.

L'inizio vero in realtà è una breve descrizione di una Venezia brulicante, dove la gente fa le cose di ogni altra gente, ma con parvenza di commedia, quasi "un invito affinché la morte facesse più in fretta". I ratti, spesso nominati nel testo, vanno moltiplicandosi in attesa sotto i ponti. Gli avvallamenti delle pietre si sentono sotto i piedi. Il protagonista ringrazia l'ex moglie per essere venuta, anche se lei non conosce il motivo della chiamata. Non sanno bene dove andare. E così, lasciando la stazione dei treni, s'incamminano per qualcosa che è poco più di mezza giornata da trascorrere assieme, con l'orario dei treni per il ritorno a Milano a far da orizzonte, quasi una ghigliottina variabile e visibile che incombe sullo sviluppo della vicenda. Si può dire altro, e in fondo non c'è tanto da "spoilerare" in una storia ormai abbastanza nota che all'epoca fece scalpore anche per le assonanze con il film Love Story. I due hanno avuto un figlio e da otto anni non si vedono. Lei ha scelto di sposare un uomo ricco e di vivere a Milano. Da quest'uomo ha avuto una figlia. Prendono un vaporetto, vanno a consumare assieme un pasto in una trattoria che offre loro un piatto scadente. Tornano a camminare, lui ogni tanto le scosta i capelli e sente il bisogno di sfiorarla, litigano e parlano ancora, alternano freddezza a slanci dove sembrano capirsi. Infine si dirigono verso la casa di lui e alle prove finali per la registrazione del concerto di Alessandro Marcello nel quale lui ha la parte prominente dell'oboe. Pensando alla registrazione del concerto lui pensa al figlio. 

Sui dialoghi si dovrebbe spendere una frase in più, anzi, leggendo questo libro è utile prestare attenzione proprio allo spazio tra i dialoghi. Perché se è vero che quest'opera nasce per il cinema e quindi si concentra primariamente sui dialoghi e sulla sceneggiatura, la grandezza di Berto nella stesura del romanzo breve del 1976 è stata invece quella di inserirsi e lavorare nello spazio che sta tra i dialoghi. Mi capita di riscontrare - ma potrei essere solo in questo rilevamento - che i dialoghi di tanta prosa contemporanea rendono spesso un personaggio un po' più o un po' meno di quello che è, lo incalcano e deformano. Insomma, la massima mimesi della parola in presa diretta, in narrativa, rischia di diventare il massimo imbroglio (pensiamo poi anche al gigantesco problema affrontato dal cinema e dai doppiaggi). Quello che ha saputo fare Giuseppe Berto in Anonimo Veneziano del 1976 e ciò che costituisce la grandezza di quest'opera è lo sforzo di scrittura che l'autore ha messo tra un dialogo e un altro, tra una battuta e l'altra. Lo ha fatto ora per correggere un tiro, ora per depistare, ora per farci dubitare, ora per plasmare scultoreamente le poche ore di vita assieme di questa ex coppia che ritorna appunto coppia per qualche istante. Farlo senza portarsi dietro le prime destinazioni d'uso del testo è il prodigio contenuto in questo libro breve.

A indagare meglio scopriamo che il protagonista, malato di cancro e prossimo alla morte, ha chiesto all'ex moglie di raggiungerlo a Venezia proprio per parlare. In un passo, che tra l'altro ricorda così bene il frammento di Gaber, si legge:
«[...] C'è un canale con tutte gondole ai lati, messe a riposo per l'inverno. E case modeste, come di campagna, e campielli con biancheria ad asciugare, e bambini che giocano al pallone. Passeremo di qui, mi dicevo, guarderemo tutte queste cose e parleremo. Non abbiamo mai veramente parlato, noi due. Abbiamo sempre fatto l'amore o litigato. Questa volta mi sarebbe piaciuto parlare di cose qualsiasi, le più stupide possibile per non trovar da discutere, e tu avresti capito, dopo. Dopo avresti capito, ma senza soffrire molto, e magari me ne saresti stata grata, mi avresti ammirato. Invece ci siamo messi a litigare come il solito, e poi, al primo momento buono, t'ho spiattellato: guarda che sto morendo. Non sono cambiato. Autocompassione, narcisismo, insicurezza, le piccole astuzie di tutti i bambini che vogliono attenzione e simpatia. Non ce l'ho fatta a crescere, io.»
Amore e morte, ancora una volta. L'ennesima. Morte e dialogo: l'ennesimo dialogo con la morte. Anni prima della legge sul divorzio Giuseppe Berto ha intercettato alcune linee di forza essenziali sul discorso che riguarda la coppia, duratura o effimera che sia, sulla sua necessità o meno. Lo ha fatto trasformando una storia di un film in un libro che si conclude davvero in musica, dove la finalità irrimediabile di ogni parola da scegliere è diventata per l'autore un "piacere tormentoso" e lungo. Il finale, soprattutto per quell'avverbio abbastanza sul quale è posta la parola FINE, merita anch'esso di essere riportato. Lei ha appena abbandonato le prove per tornare a Milano, dopo aver rinunciato a rimanere con l'ex marito morente. L'orchestra può quindi rimettersi a suonare, dopo aver sbagliato una prova (il corsivo è mio):
Di nuovo sono lì, immobili nella breve ed interminabile attesa, e più facile è la concentrazione, dato che l'estranea è andata via. Al suo cenno gli archi cominciano, dapprima appena percettibili, poi più sicuri nei lenti accordi d'attesa. E lui attacca, la nota ferma, seguita con necessità e precisione dalle altre, nell'antico concerto che dice la rassegnata disperazione per la morte di un uomo, e forse d'una città, e forse anche di tutto ciò che è già vissuto abbastanza.



Alessandro Marcello, Oboe Concerto in D minor
Heinz Holliger, oboe
I Musici
Registrato nel luglio 1986 
a La Chaux-de-Fonds, Svizzera

mercoledì 18 aprile 2018

"Le vite potenziali" di Francesco Targhetta (o dell'infinito debutto)

Nel 1892 Italo Svevo dava alle stampe per l'editore triestino Vram un libro dal titolo semplice quanto disarmante: Una vita. Non ce ne accorgiamo mai a sufficienza, ma questa che viviamo è appunto una vita e potrebbe essere (verosimilmente?) la sola che abbiamo avuto e avremo. Il primo lavoro in prosa del poeta nonché cultore e curatore di poeti crepuscolari Francesco Targhetta si intitola invece Le vite potenziali (Mondadori, pp. 252, euro 19). Al di là dell'imbeccata sveviana, che potrebbe tornare utile ma che lasceremo parzialmente in ombra, questo pensiero serviva per parlare di una titolazione bifronte che allude sia alle vite possibili a cui potrebbe aspirare una singola persona, sia alle vite potenziali di un gruppo di persone riprese in un dato contesto storico, secondo una comunanza di spazio e tempo o per meglio dire di lavoro (il lavoro come spazio-tempo, anche). Nelle pagine de Le vite potenziali leggiamo di un manipolo di programmatori itineranti e gravitanti attorno a un'azienda informatica di Marghera, luogo-membrana e ectoplasma urbano-industriale di cui proprio nel 2017 si è ricordato il centenario (da rileggere, anche per capire Marghera - e da rileggere senza forse - è lo scritto Venezia, forse di Andrea Zanzotto). Non occorre aver studiato filosofia per intuire che l'altra metà del "potenziale" evocata dal titolo riguarda l'atto, parola che fa pericolosamente rima con fatto: una domanda che potrebbe porsi il lettore a libro ultimato è allora la seguente: come si era "in potenza" quello che siamo diventati poi, in "atto"? O se vogliamo, più circostanziatamente, come erano in potenza i protagonisti di questo libro prima di essere come li vediamo e ascoltiamo dialogare tra le pagine? La domanda è rivolta a noi, ma chiaramente è da intendersi calata nella scelta dei contenuti e dei personaggi che muove questo testo, il quale indugia su un loro presente comune ma non dimentica di affondare a più riprese nei loro passati, incistati in quel momento in cui il mondo ha imposto accelerazioni impressionanti a tutto e tutti, mettendo drammaticamente in crisi anche le capacità di scelta, azione e reazione dell'uomo. Anche attorno a questi nuclei di riflessioni credo si potrà parlare del libro di Francesco Targhetta tra qualche tempo.

Passando alla storia potremmo rilevare questo: se una delle critiche più facili e immediate che viene spesso mossa al battaglione dei poeti che provano la strada della prosa e del romanzo è quella di parlare di sé stessi, su questo specifico rischio Targhetta è stato molto accorto, persino furbo, oppure callido verrebbe da dire usando una parola dal sapore dell'epica letta in classe. Ci parla di una realtà che non è la sua (per chi non lo conosce - e non è il mio caso - lo possiamo comunque apprendere dalle varie note biografiche: è insegnante) e per giunta plasma la propria vicenda senza flettere verso un vero protagonista, ma lasciando singolarmente a una triangolazione di co-protagonisti l'incombenza di muovere la propria trama e la propria narrazione verso un finale, potenziale anche quello. Si tratta dunque di una scrittura che si pone con un piglio esplorativo e sperimentale, etnometodologico, di osservazione partecipante, ma nella quale assai spesso fiora una temperatura linguistica e un'auscultazione lessicale che è propria della poesia. E se con il precedente romanzo in versi Perciò veniamo bene nelle fotografie (Isbn, 2012) Targhetta aveva prestato la penna al tema caldo del precariato, ora si cimenta con un romanzo pienamente incentrato sulla sfera della quotidianità operativa di un'azienda (di un intero settore, a ben vedere) tralasciando quel tema, così facile e lesto a trasformarsi in pericolosa etichetta. In questo caso il lavoro non manca e non traballa forte, e la lente si adagia sostanzialmente sul mondo dei nerd informatici che, senza essere protagonisti del mondo, pare abbiano comunque pian piano mutato questo mondo in cui quotidianamente ci muoviamo, acquistiamo, ci informiamo, cerchiamo appunto di espandere le nostre potenzialità all'infinito, in un'illusione di vita multipla che si gonfia velocemente come una bolla di sapone.

Per i motivi detti sopra, inclusa l'auscultazione massima, accade che in un libro così progettato la prosa messa in pagina sia spesso uno slalom tra corsivi che marcano il linguaggio specialistico, o il gergo che caratterizza la parlata aziendale o la scrittura dei contratti (con l'ironia ad esempio sul linguaggio giuridico del "foro di competenza" o su quello pubblicitario con "il Clementoni dei miei coglioni"). Risaltano quindi tutti i corpi di quei corsivi con cui si vestono parole che sono ormai comuni, quali "outfit", "trekker", "downgrade", "competitor", "escalation", "task", "pattern", "worldwide", "template", "work-life balance" (ma anche la voce dotta "hybris" o il calco dall'inglese della parola "customizzandolo"). Sono tutti fatti linguistici abbastanza noti a chiunque lavori in un'azienda, non necessariamente informatica, e persino nelle aziende dove si parla ancora prevalentemente il dialetto (lo "Snack bar Al canton" di Zanzotto, tanto per stare in tema, ma il bar in Targhetta si chiama "Incrocio" perché sta ad un incrocio). Questa facilità al corsivo, che inizialmente crea nel lettore uno strano effetto di pausa e ralenti, a momenti sovraccaricato, proviene dalla chiara volontà di evidenziare l'impatto del mutamento sul corpo della lingua ma soprattutto dice, specialmente alla rilettura del testo, di una distanza, innanzitutto linguistica, che il narratore instaura e rimarca con la materia intercettata. Questa presa di distanza linguistica dalla materia trattata, alternata a passaggi dove invece l'intimità tra pensiero e lingua è massima, mi è parsa una caratteristica saliente di questo lavoro, ciò che ne ha garantito anche un ritmo efficace. E così, nel giro di qualche pagina, e comunque assai spesso in questa storia, si avvicendano passaggi come questo
Il viaggio in aereo fu particolarmente tormentato: mentre sfogliava le carte sulle possibili proposte da presentare alla Messi (realizzazione e-commerce B2C su piattaforma SAP per la vendita diretta worldwide dei prodotti per il motociclismo. Personalizzazione template pagine prodotto. Sviluppo metodo importazione prodotti, immagini, listini. Tecnologie: Java, HTML5), pensava all’opportunità di applicare già il metodo Mariotto, e quindi di proporre ai francesi una collaborazione con una nuova azienda, più dinamica e sana della Albecom.
a brani che attaccano in questo modo e nei quali il nome di marca "Velux" appare lessicalizzato, quindi scritto in tondo e con la minuscola, per poi diventare il "lucernario"
Fuori l’oscurità era ormai totale. Ottobre si annunciava, soffiando dentro le case l’aria delle campagne appena violate dalle ultime vendemmie, un’aria succosa e rancida, che portava l’autunno traboccando, per un eccesso di stagionatura. GDL si abbassò, chiuse il velux e guardò negli occhi Veronica: «Scendo cinque minuti. Chiamo Mariotto. Mi aspetti qua?». E così lei salì in mansarda, si stese sul tappeto e si mise a guardare attraverso il lucernario la sagoma offuscata della luna.
Nel 2000, in un libro di racconti intitolato Un dolore riconoscente divenuto presto introvabile, Gian Mario Villalta scriveva che la "vita che ci aspetta è piena di tutto, è come vivere dappertutto, è troppo grande per riuscire a pensarla. La vita che ci aspetta è veloce, dovrà per forza sorprenderci continuamente". Con il libro di Francesco Targhetta siamo già ampiamente in "questa vita che ci aspetta", data dall'esasperazione del paradigma dell'accelerazione sociale, economica e individuale, nella vita piena di tutto: le mille possibilità, dai sentimenti al consumo, rimbalzano sulle esistenze affossando la pelle e i muscoli (per contro un tema solo sfiorato per contrasto da questo romanzo è quello gigante del vuoto). In questo libro le mille possibilità rimbalzano negli exempla che seguiamo quali fili principali della trama: il fondatore di Albecom, Alberto, ottimista, predestinato e problematico, il giovane rampante Giorgio (abbreviato GDL, il fondamentale presales dell'azienda) che ricorda Yuppies di Luca Barbarossa con i "giovani rampanti intraprendenti fanno passi da giganti nei debutti in società" e infine Luciano, figura timida e apparentemente inetta (qui il discorso potrebbe saldarsi a Svevo), esclusa soprattutto dalla vita dei sentimenti e legato al fondatore dell'azienda da molti anni. A un certo punto potrebbe diventare semplice per il lettore familiarizzare soprattutto con quest'ultimo, nel quale appare più immediata la risonanza tra la materia narrativa e la precedente materia poetica scritta da Targhetta. E se tanti, dopo Proust, si sono trovati a ricercare il tempo perduto, il caso di Luciano è un singolare esempio di persona che quasi non deve pensare a ricercare alcun tempo perduto, semplicemente perché a lui il tempo non è stato concesso, non l'ha avuto. Probabilmente Luciano, informatico atipico tra gli altri, al tempo ha concesso troppa e troppo piena fiducia che ora non ritorna indietro in nessuna forma (amore, soddisfazione, pienezza o gioia dell'abitare un pensiero). Gli è sfuggita, però, anche la divaricante verità dell'attimo. Luciano è un personaggio tra altri di quest'opera, è quello che porta da mangiare lo stracchino ai gatti, tuttavia è anche quello che più si sforza per non farsi "torturare" da un narratore che insegue, come in tutti i romanzi, i propri caratteri. Per questo motivo risulta anche più sfuggente, così come le donne, spesso umbratili in questo lavoro. Ma non ci sono solo nerd informatici timidi rampanti o ottimisti, ci sono anche i gruisti di Marghera in queste pagine nuove e, come si diceva una volta per certi film, la parte del gruista e le scene e le viste "potenziali" su e da Marghera valgono, anche da sole, il prezzo del biglietto.

lunedì 16 aprile 2018

"Libretto di transito" di Franca Mancinelli

Sembra un omaggio alle origini della collana A27 poesia di Amos Edizioni il titolo numero 4, Libretto di transito di Franca Mancinelli (pp. 72, 12 euro) e ricorderemo tra pochissimo il perché. Il libro di Mancinelli arriva dopo il trittico di inaugurazione di fine 2017 costituito da Varizioni sulla cenere di Fabio Pusterla (il suo libro più debole, mi sembra, anche se già con Argéman si era intravista una perdita di incisività del verso e di aderenza tra lingua e immaginario), da Linoleum di Giulia Rusconi e il convincente Ambienti saturi di Fabio Donalisio, decisamente l'opera più bella e riuscita del terzetto di partenza. Per tornare all'idea del transitare che anima anche il nome, il concetto e il progetto grafico di questa recente iniziativa editoriale (si veda questa intervista fatta al momento del varo), vale la pena ricordare che il prototipo della collana, un volume del 2001 contenente 5 poesie a testa di Igor De Marchi, Sebastiano Gatto e Giovanni Turra, oggi curatori di A27 poesia, portava proprio il titolo di Transiti. Altro discorso è (sarà) capire se questo libro contenuto di Mancinelli intende essere, all'interno del suo percorso autoriale e editoriale, un libretto di transito verso un'opera che l'autrice intende più corposa e magari rischiosa (anche sul rischio ritorneremo, in chiusura). Qui però la capienza della parola "libretto" è da intendersi più nel senso del bagaglio, del viatico del transito, e non tanto della dimensione dell'oggetto.

L'opera attraversa un alone onirico, come effettivamente ricorda la quarta di copertina. Tra l'altro, a proposito di quarte di copertina, va riconosciuto un fatto non scontato: questa collana torna a prendersi la briga di scrivere le quarte di copertina, testi brevi e descrittivi, dalla struttura ricorrente tra i vari titoli, in un panorama dove spesso o si rinuncia a farlo o si pesca una poesia o si riporta uno stralcio di pre/postfazione. Anche attraverso questo espediente passa un tentativo di trovare una collocazione editoriale nuova alla poesia. L'attraversamento perlopiù ferroviario (con l'eccezione della spericolata prosa automobilistica di pagina 38) ha ripercussioni sulla struttura del flusso testuale, che non ricorre a sezioni e procede diritto verso la fine, captando colori e forme in quella fase trasognante eppure di veglia nella quale sembra acutizzarsi una percezione più intensa o meno scontata di ciò che ci accade intorno. A far da sostanza di un testo che scorre sopraelevato, come su rotaie di un ponte, resta in realtà un immaginario geologico e tellurico di faglie e falde, di poltiglia argilla o creta, di sabbia o ghiaia. E se le diverse consistenze di ciò che è a terra hanno importanza, va da sé che anche i piedi abbiano una parte rilevante nell'economia dell'opera, così come scarpe o tacchi, l'indossare e il calzare, la taglia di ciò che aderisce e copre il corpo, finanche il bagaglio qui inteso come "valigia". Il testo iniziale in questo detta il passo quando afferma "Entrare nella taglia esatta della pena [...] Calzando scarpe che non hanno mai premuto la terra, dormiremo nel centro dello sguardo, come neonati". Quanto accadrà e verrà registrato dal Libretto allora risente e si porta dietro questa contraddizione tra una percezione chiara - seppur appunto impastata nel sogno - che si deposita con precisione nelle prose poetiche e il desiderio espresso proprio alla fine del testo d'avvio, nel quale si affaccia un intento di tabula rasa, di cancellazione di tracce mnestiche, quasi una pulsione di retrocessione o strana rinuncia dello sguardo e dell'esperienza. E se il transito raccontato diventa anche una ricognizione dell'inconscio o di terreni assai prossimi a questo, sappiamo che quest'ultimo non è riducibile totalmente al linguaggio e la cura o terapia non è mai solo linguistica.

La palette dei colori di Libretto di transito resta scura. Il "bianco" è hapax che vale solamente per i denti che chiamano le ossa sommerse. "Terra" e "acqua" parlano in nero, così come il fiume "così nero che avremmo potuto calpestarlo". La percezione è da ubriachi, quando ad esempio si legge "L'intera città fluttuava". Le similitudini si rincorrono, come nel caso della medusa e delle reti, quando a distanza di poche righe leggiamo "Se ci avesse sfiorato porteremmo segni sul corpo, sottili e rossi lineamenti come dopo il passaggio di una medusa" e poi "Un colore prima di un altro, e poi diversi, insieme, come in una rete che si muove luminosa". In un altro brano ci troviamo forse a concordare con l'attacco che afferma "Le frasi non compiute restano ruderi". La luce qui è tautologicamente "chiara", per ben due volte nello stesso testo, il solo che desideriamo riportare per intero in questa nota di lettura, anche per evidenziare la riuscita espressione di un sentimento di impossibilità (molto bello il "contenerti mentre nasci"):
Mi porti in salvo come sollevando la parte più fragile di te. Resisti nel tumulto. Ed eccoti al varco, attraversato da scariche di luce chiara. Non hai più viso, sei fuori da ogni contorno. Soltanto luce chiara. Vorrei raccoglierti con le mani, contenerti mentre nasci, ma ti sprigioni: sei la corrente prima che non si può toccare. 
Il palleggiarsi di concavità/convessità, da sempre ricorrente nella scrittura dell'autrice marchigiana, rimane centrale, ma se un tempo il cucchiaio era immagine ricorrente e lampante nella sua concavità/convessità, ora siamo all'"incavo degli occhi" e dello sguardo. La densità della parola "occhi" e di quanto a questi rimanda è da segnalare: "gli occhi chiusi", "i suoi occhi in un punto lontano", "Per questo con gli occhi fissiamo l'orizzonte", il caso fonicamente ricco di "un occhio socchiuso", la deviazione animale de "i piccoli occhi rotondi dei cocoriti in gabbia", "trovano la via degli occhi", "In questo paesaggio posso chiudere gli occhi e dormire", "I tuoi occhi potrebbero essere azzurri o neri", "Resta l’incavo degli occhi" e "Con gli occhi chiusi continui a lottare". Gli occhi e anche il corpo non sono una novità nella lirica, di qualsiasi epoca o latitudine. Il corpo qui continua a essere tutto nominato, come in un appello mattiniero di tutte le sue parti: caviglie, capelli, dita, polsi, tempie, pupilla, petto, collo, fronte, bocca, zigomi, spalle si pongono come un interrogativo frammentato alla presunta (e presuntuosa) pienezza della coscienza. Il libro nuovo però, come alcuni testi della silloge Tasche finte apparsa lo scorso anno in "Poesia contemporanea. Tredicesimo quaderno italiano" di Marcos y Marcos, che non aggiungeva molto a un percorso già noto, abbandona completamente la versificazione, almeno quella grafica, per lasciare la pagina a 33 prose poetiche suddivise solamente da pagine bianche. La rinuncia alla versificazione, oggi come oggi, può indirizzare verso molteplici direzioni. Nel caso di Mancinelli, più che a una rinuncia alla versificazione viene da pensare a una strategia testuale che pone (impone) un passo di lettura dimidiato di un appoggio, come quello di chi salta con una gamba sola nel gioco della campana, attraverso stanze di scrittura conchiuse, che si compenetrano una nell'altra come gli angoli concavi e convessi di un angolo giro.

Anche in questo libro di Mancinelli, come in altre opere di poesia apparse di recente e appartenenti a nomi tutto sommato ben circolati editorialmente, sembra che si stia naturalmente per esaurire un ciclo di scrittura che inizia a invocare silenziosamente un rinnovamento. Nel caso di Mancinelli, la prosecuzione del ciclo, che ormai dura da anni (sicuramente da Pasta madre del 2013), negli ultimi tempi è sfalsata e quasi rallentata dall'introduzione dell'elemento strutturale della prosa, ma l'immaginario e la sostanza che alimenta la pagina hanno una composizione chimica simile e ripetuta. Un testo come quello che ritrae il padre che annaffia qui rivede e accorcia quanto già uscito nel citato "Quaderno" di Marcos y Marcos solamente un anno fa. Questo sta bene, fa parte del bagaglio di un'autrice che come ogni scrittore vive di ossessioni, di riscritture, di revisioni, ma allo stesso tempo ci dice di una sosta prolungata sopra lo stesso nucleo. In questa scrittura resta interessante seguire un dialogare di fantasmi che emerge a ogni giro di frase e si coagula in pagina. Nell'inseguimento di questo dialogare di fantasmi, per stare su persone anagraficamente vicine, i risultati più alti e belli restano però a mio avviso le opere di due autrici poco citate e tornate silenziose, che tuttavia ci auguriamo di tornare a leggere presto. Mi riferisco a Erika Crosara (1977) di Ius e Alessandra Conte (1978) di Breviario di Novembre, alle quali aggiungerei il caso più recente di Carmen Gallo (1983) di Appartamenti o stanze (anche per nominare un'autrice nata negli anni Ottanta, visto che queste suddivisioni a decadi calcistiche piacciono molto ai compilatori di antologie, quaderni, recensioni). Ma il dialogo dei fantasmi è essenziale anche nelle prose poetiche di Mancinelli e non a caso Emily Dickinson, regina dei fantasmi, appare in epigrafe con Simone Weil. La differenza si ravvisa sempre nel come si fa risuonare un fantasma. L'impressione è che un angolo giro sia compiuto e che uno spostamento sia necessario, magari è già in orizzonte. Il transito rappresentato da questo nuovo libro ci dice insomma di una padronanza di stile e scrittura che convoglia le forze verso una robusta costruzione di autorialità. Da lettore posso registrare la riuscita complessiva dell'operazione, augurandomi però anche di poter riscontrare un'oscillazione del senso e delle immagini su superfici meno sicure, meno "date", ma più utili al mio transito di lettore. In altre parole, ci auguriamo che resti sì salda l'asticella della scrittura, dello stile - con tutti i suoi portati biologici - e della qualità editoriale che accoglie l'opera (qui fuori discussione), ma che resti alta anche l'asticella del rischio, con tutto ciò che questa parola implica nelle discussioni che ricadono nell'alveo della poesia. Anche a costo di sbagliare un colpo, anche a costo di sporcare la propria ricerca e portarla più in là, nel tentativo di dire quello che si può ma anche, soprattutto, quello che non si può dire. Il bagaglio, incluso quello teorico-tecnico, da un pezzo è pronto per affrontare questo nuovo transito e l'importante adesso, per fare il verso al bel finale di una di queste prose, è non scordarsi di partire.

sabato 14 aprile 2018

"Miniature. Frammenti di letterature dal Nord" di Bruno Berni. Lo scritto su Stig Dagerman

Interessante il progetto del marchio editoriale «Aguaplano-Officina del libro», nato 9 anni fa a Passignano sul Trasimeno come casa editrice di saggistica e di classici, di volumi di poesia e di libri d’arte. Come si legge nel sito, quest'editore vuole regolarsi su una produzione editoriale "di pochi titoli, ben distribuiti sul territorio nazionale (attraverso una rete di librerie e altri punti vendita pensata ad hoc per ogni volume) e proposti all’attenzione dei lettori attraverso un’intensa attività di seminari, presentazioni ed eventi a tema". Tra questi mi è capitato in mano Miniature. Frammenti di letterature dal Nord di Bruno Berni, gran traghettatore di letterature del Nord in italiano, con un'assidua attività traduttoria. Il volume contiene un bell'insieme di "schede" e scritti, tutti abbastanza brevi, su autori delle letterature del Nord d'Europa. Si parte abbastanza vicino con Goethe e si giunge a Yahya Hassan, apolide palestinese che vive in Danimarca, classe 1995, autore della raccolta di poesie più venduta di tutti i tempi nel suo paese (in Italia pubblicato da Rizzoli e tradotto proprio da Berni). In mezzo ai due estremi si colloca un gran novero di scrittori, da von Chamisso a Andersen, da Strindberg a Perutz, da Strunge a Nooteboom solo per citarne una manciata. Grazie alla collaborazione con l'ufficio stampa dell'editore e Davide W. Pairone in particolar modo, pubblichiamo di seguito il capitolo dedicato a Stig Dagerman.


Stig Dagerman (1923 - 1954)
Il viaggiatore
di Bruno Berni

Vi sono scrittori che in un periodo limitato della loro vita, quasi una breve parentesi, sanno produrre opere sufficienti a consegnarli al mito. Ciò avviene spesso in momenti nei quali la storia costringe a una maturazione forzata, esalta le impressioni fino ad accentuare la sensibilità nei confronti del mondo. È questo il caso di Stig Dagerman, lo scrittore svedese che in pochi anni, dal 1945 al 1949, visse una parabola veloce quanto bruciante per poi perdere via via, negli anni successivi, la capacità di scrivere, fino al suicidio avvenuto nel 1954, a soli trentuno anni. Dopo aver iniziato la sua carriera come scrittore impegnato, Dagerman raggiunse rapidamente la notorietà, scrisse opere teatrali, romanzi, articoli, ma il successo, le lodi della critica, l’approvazione del pubblico, ottennero l’unico effetto di limitare la sua capacità espressiva. L’impegno politico degli inizi non si accordava più con la sua nuova posizione di promessa del mondo letterario svedese e la scrittura, in un carattere ipersensibile come quello di Dagerman, si bloccò fino a portarlo all’autodistruzione. La necessità – se non l’obbligo – di vivere la sofferenza all’interno, e più ancora l’incomunicabilità, descritta nei suoi romanzi, fra gli esseri umani e fra lo scrittore e il mondo, nel suo caso costruirono un muro fra lo scrittore e se stesso, e di fronte a una realtà che non era più quella dell’ambiente che lo aveva formato la capacità descrittiva scomparve, come nel racconto A casa della nonna, uno degli ultimi, in cui il bambino – e con lui forse Dagerman stesso – prega ad alta voce: «Dio, Dio, fa’ che io senta come prima». 

L’esperienza della povertà, della politica, della guerra, seppure vissuta in un paese neutrale, avevano affinato una sensibilità di scrittore che, apparentemente rivolta ai problemi sociali – come dimostrano la militanza anarchica e gran parte della sua produzione giornalistica – era in realtà attratta da aspetti più interiori della vita umana. Dagerman aveva la capacità di osservare e vivere la sofferenza, la tragedia nascosta nella vita altrui, catalizzava su se stesso e viveva a fondo l’esperienza più terribile che una tragedia possa patire: quella del dramma ignorato, dell’incomunicabilità dovuta alla disparità di sensazioni e di sensibilità. Sofferenza nascosta, di poco conto per l’umanità, e proprio per questo universale perché in agguato nella vita di ognuno. «Le grandi tragedie» afferma in uno dei racconti di questo volume, «sono già tutte accadute da molto tempo.  Ai nostri giorni accadono soltanto tragedie minori»: piccoli drammi sfumati dal grigiore della vita quotidiana, drammi che non interessano la storia, come non la interessano i personaggi che li vivono quotidianamente e cui spesso, della tragedia, è negato anche un vago tono di importanza, magra consolazione che rende ancor più amaro il ritorno alla normalità. 

La scrittura di Dagerman è dunque introspettiva, descrive gli effetti della realtà cristallizzati nell’animo dei personaggi feriti dall’indifferenza del mondo. E molto spesso i personaggi sono bambini, adolescenti, nei quali l’esperienza tragica, come ha notato Goffredo Fofi, assume un aspetto più acuto, non smussato «dalla consuetudine alla vita». Lo scrittore è stato considerato vicino a Strindberg, a Camus, figlio di Kafka, ma tranne accenni a quest’ultimo è difficile trovare nella sua opera delle influenze letterarie: la sua ispirazione veniva dal profondo, dalla percezione della vita propria e più spesso altrui. Né Dagerman era un gran lettore. Aveva invece una straordinaria passione per il cinema, forse perché nel cinema poteva vedere lo sviluppo delle storie, dei drammi che il suo spirito assorbiva dal mondo, forse perché nel cinema riusciva a vivere appieno la catarsi che lo portava ad attirare su di sé le atmosfere che lo circondavano, le sofferenze che altri non vedono, e che portò a un punto di non ritorno la sua disperazione di uomo tradito – da se stesso – nella sua fede negli ideali. E forse al cinema possono esser fatti risalire alcuni aspetti della sua prosa, come quel «montaggio alternato» di cui ha parlato Fofi, che nel racconto Uccidere un bambino riesce così bene a rendere l’angoscia di chi – Dio o regista – conosce l’esatta sequenza e i risultati della scena, di chi sa che «la vita è così spietata con colui che ha ucciso un bambino che dopo è troppo tardi per qualsiasi cosa». Ed è tipico della capacità di immedesimazione di Dagerman il fermare l’attenzione sulla coscienza di chi ha ucciso, di chi resta e continuerà a vivere nel rimorso. È tipico della sua scrittura almeno finché, giunto anche lui alla fine della strada, privato della capacità o piuttosto della spontaneità espressiva, decise di metter fine nella maniera peggiore alla catarsi del dramma – o forse di portarla alle sue estreme conseguenze – e lasciare per sempre agli altri, a chi resta, il duro compito di continuare a vivere.  

giovedì 12 aprile 2018

"La via della seta. La fisica da Enrico Fermi alla Cina" di Lucia Votano

Tempo fa in queste pagine si era scritto di un libro di Lucia Votano pubblicato da Carocci e intitolato Il fantasma dell'universo. Che cos'è il neutrino. Recentemente la scienziata italiana è tornata ad affacciarsi nel panorama delle pubblicazioni librarie con un libro altrettanto interessante, anche se di natura ben diversa dal precedente. Parliamo de La via della seta. La fisica da Enrico Fermi alla Cina (Di Renzo, pp. 130, euro 12,50). I due termini del sottotitolo dicono molto, anche perché il nome di Enrico Fermi, come sappiamo, non ci riporta a una vicenda determinante con esclusiva ricaduta in Italia. E da molti secoli, ben prima del Novecento e della Big Science, la conoscenza scientifica è un fatto che supera i confini. E se ogni giornale cinese è oggi pieno di discorsi su "The Belt and Road Initiative" (acronimo BRI, ma potreste trovare anche OBOR da "One Belt One Road"), ovvero l'idea della nuova Via della Seta in chiave logistica e di interconnessioni globali, la traccia durevole della cosiddetta Via della Seta si stende anche negli itinerari dell'attuale fisica delle particelle. Come si era potuto leggere proprio nel libro sui neutrini, materia nella quale Votano è un'autorità internazionale, oggi tutto quell'interessantissimo capitolo della fisica astroparticellare, di cui Enrico Fermi è stato indubbiamente il grande iniziatore, sta migrando effettivamente e geopoliticamente nei paesi d'Oriente (Cina Giappone e Corea del Sud in primis). L'autrice, scienziata che ha svolto attività al CERN, nei Laboratori Nazionali di Frascati e del Gran Sasso e al DESY di Amburgo, detiene inoltre un primato: è stata la prima donna a cui è stata affidata la direzione dei Laboratori Nazionali del Gran Sasso, vero cuore sotterraneo della ricerca sui neutrini e sulla materia oscura (sul tema ricordo anche questa recensione al libro di Andrea Cimatti). La vita l'ha condotta ora nella Cina meridionale, come partecipante del progetto JUNO, che partirà dal 2020. 

Il libro pubblicato da Di Renzo, editore che ormai conta oltre trent'anni di pubblicazioni scientifiche, ha il sapore dell'avventura, in senso etimologico, perché guarda al futuro della scienza astroparticellare. Si snoda per capitoli brevi e scorrevoli, che toccano di volta in volta temi centrali, in un riuscito equilibrio tra narrazione del passato e visioni future. E come sappiamo l'esercizio di immaginazione del futuro della scienza è da sempre motore di questa. Ma ad un certo punto il futuro, inseguito da budget stellari, è già qui e opera nello sforzo operoso del presente. Eccoci allora catapultati nella realtà di un investimento cinese colossale, una chiara indicazione di direzione di quella che viene comunemente chiamata "ricerca di base", il cui valore resta purtroppo a volte così difficile da spiegare (di qui la rilevanza di una divulgazione efficace, come ricorda Votano e com'è quella che Votano fa). Ecco allora che questo libro non dimentica - come sarebbe possibile, del resto? - il passato del dopoguerra, anzi, proprio da qui prende avvio, narrando la nascita del CERN e di una ricerca "unitaria", l'esperienza fondamentale nel ventre del Gran Sasso e anche le disfatte tremende dell'innovazione e della ricerca italiana. Il nostro paese sa esprimere ancora centri eccellenti e ricercatori di valore, ma la cornice istituzionale e politica in cui queste eccellenze si ritrovano è semplicemente più desolante ogni anno che passa. Di passaggio sia detto che si tratta di disfatte che sempre più sembrano insinuarsi anche alla base, nel tessuto della scuola, per un'azione sciagurata di più governi di ogni tempo e colore, un susseguirsi di azioni (e disinteresse, soprattutto) che messe in fila una dietro l'altra, col senno del poi, sembrano persino adombrare la storia con il tremendo dubbio di una premeditazione della distruzione dell'istruzione a scopi politici. Tuttavia, alla premeditazione andrebbe riconosciuta almeno una sorta di capacità organizzativa ai vari governi che hanno gestito istruzione, università e ricerca e davvero, in tanti casi, non ci sentiamo di riconoscere nemmeno questa, ma semplicemente una sciatteria devastante, che aggrava e rende arduo il compito di determinate categorie del pubblico impiego (si badi che è la stessa sciatteria che possiamo avere come elettori della classe politica per la quale non ci dovremmo più di tanto lamentare). E il passaggio digressivo che ci siamo concessi c'entra con il libro, perché la preoccupazione di Lucia Votano è costante, come quella di tutti i suoi colleghi di scienza. Non a caso il suo libro si chiude con un capitolo intitolato "Messaggio per i giovani". Ed è singolare che siano (solamente?) gli scienziati a preoccuparsi dei giovani. Di certo non ci pensano gli uomini di arte e cultura di estrazione prevalentemente "umanistica", di certo non ci pensano le raffazzonate e annaspanti mosse della politica e a volte viene da pensare che non ci pensino nemmeno le famiglie di provenienza delle persone giovani. C'è da anni un problema effettivo di speranza che è da leggere soprattutto in relazione alle generazioni più giovani, c'è un problema enorme di egoismo che a tratti, nell'impresa scientifica - anche quella di cui racconta appassionatamente Lucia Votano - sembra miracolosamente venire meno e abbandonare gli uomini ai loro traffici nefandi. Forse questa è solo idealizzazione di fronte a un entusiasmo della ricerca che si riconosce ancora come genuino. Forse è solo illusione che aspetta la sua nuova strage, ma il problema della speranza resta la chiave per affrontare i discorsi che ci aspettano e quei temi che non ci lasceranno prepararci più con largo anticipo, ma che ci terranno gli agguati meno graditi nei giorni a venire.



martedì 10 aprile 2018

"Il sipario era alzato. Uno sguardo sul teatro" di Charles Baudelaire

Prima ancora di addentrarci in questo libro che raccoglie scritti di Charles Baudelaire sul teatro e per il teatro, vale la pena spendere qualche parola sul contenitore abbastanza recente che lo ospita. Lemma Press è una casa editrice internazionale di Bergamo, fondata nel 2015 da Nicola Baudo, nipote del poeta francese Jean Tardieu. Uno sguardo al sito potrà introdurre meglio di tante parole un catalogo che in meno di tre anni si è popolato di pubblicazioni rilevanti come L'ombra di Huma di Ivan Bunin o Disegni e calligrafia di Fëdor Dostoevskij di Konstantin Baršt. Il libro dedicato a Baudelaire e intitolato Il sipario era alzato. Uno sguardo sul teatro (pp. 352, 27,50 euro) è curato da Federica Locatelli e contiene i contributi di Federica Locatelli stessa, di Chiara Nifosi e di Marina Spreafico. Appartiene a una collana che si chiama "Arsenale" la quale, in modo del tutto necessario, pone sotto la lente di ingrandimento non solo i problemi della traduzione letteraria, ma in particolar modo i problemi della traduzione dei testi legati al teatro. Se tutti sappiamo che le traduzioni invecchiano, sappiamo anche che quelle per il teatro rischiano di invecchiare prima di tutte le altre traduzioni: il palco in questo è implacabile, poiché sancisce in maniera inesorabile e immediata la decadenza e inaccettabilità di una traduzione oppure il suo valore e tenuta. La collana ha anche l'ambizione di esportare la tradizione italiana e importare altre letterature. Peculiarmente si pone anche la pubblicazione di testi nati sulla scena, invertendo l'ordine canonico e passando quindi a una parola che sia prima detta e poi scritta. Marina Spreafico, curatrice di collana assieme a Federica Locatelli, è direttrice del Teatro Arsenale (così capiamo da dove viene il nome di questa serie di titoli che ci auguriamo di poter osservare allungarsi negli anni a venire).

A 150 anni dalla scomparsa di Baudelaire (il libro è uscito nel 2017), il volume offre un avvicinamento inedito all'opera del poeta del cuore messo a nudo. Non mancano certo sue traduzioni italiane, ma ma mancavano traduzioni così pensate. La sua attenzione costante per il teatro, ravvisabile in tanti testi poetici e critici o nelle lettere, è qui radunata in un libro specifico che si rifà alla centralità del teatro, all'uso del testo che si può fare in teatro. E se è vero che l'immaginario teatrale ha popolato l'immaginario poetico di Baudelaire saldamente, è anche vero che davvero molti scritti paralleli alla poesia risentono di un pensiero costante che riguarda le arti sceniche. Qui il discorso si salda anche con la necessità della nuova traduzione offerta in queste pagine. Per addentrarci meglio nel volume è utile leggere la nota della traduttrice Federica Locatelli, docente di letteratura francese all'Università Cattolica di Milano. Dopo alcune considerazioni su metrica, ritmo, rima, oscillazioni sintattiche, si legge quanto segue:
La nostra traduzione ha un intento diverso e per questo volge uno sguardo al teatro. Riteniamo che la poesia debba essere letta o recitata a voce alta, affinché essa risuoni con tutto il suo trasporto e venga compresa, giungendo direttamente al cuore di chi l'ascolta. Abbiamo dunque voluto optare per una lingua scorrevole nella pronuncia, il più possibile musicale, dotata di sonorità riconoscibili siano queste rime, allitterazioni, richiami sonori, e che fornisse una resa immediata e semplice delle immagini baudelairiane. Allo spettatore di teatro, parole immagini giungono una volta soltanto, senza che possa né soffermarsi né indietreggiare come nella solitudine della lettura. Questa è stata la prospettiva che ha diretto le nostre scelte.
E quali sono dunque queste scelte? Si parte con "Al lettore", componimento liminare de I fiori del male, quindi si ritrova una cospicua selezione da Spleen e Ideale, da I Quadri parigini, da Il vino, da I fiori del male, da La Rivolta e da La morte. Si procede con la poesia "Il coperchio", databile all'altezza del 1861 e aggiunta alla terza edizione de I fiori del male del 1868 ("Le Ciel! couvercle noir de la grande marmite / Où bout l'imperceptible et vaste Humanité"), con i versi ritrovati di "A una giovane acrobata" e diversi brani da Lo Spleen di Parigi. Il cuore teorico del volume s'attesta all'altezza della pubblicazione, sempre con testo a fronte, di Dell'essenza del riso e generalmente del comico nelle arti plastiche e si conclude insospettabilmente con la pubblicazione di una lunga lettera a Hippolyte Tisserant, attore drammatico, protagonista del teatro Odéon di cui fu anche direttore. Nella lettera si fa riferimento a Ivrogne ("Ubriacone"), pièce baudelairiana che pone al centro la figura di un operaio di segheria. Quest'opera che per Georges Bataille rappresenta una vetta del pensiero del poeta mai vide la luce.

domenica 8 aprile 2018

"Chicago Poems" di Carl Sandburg. Una recensione di Massimo Bacigalupo


La recensione seguente di Massimo Bacigalupo a Chicago Poems di Carl Sandburg è apparsa con qualche variante ne "L'indice dei libri del mese". La recensione si riferisce all'edizione italiana di Chicago Poems pubblicata da Sedizioni (a cura di Franco Lonati, premessa di Francesco Rognoni, pp. 375, 29,99 euro). La prima edizione dell'opera di Sandburg è del 1916. Ringrazio Massimo Bacigalupo per la cortese collaborazione.

Carl Sandburg, un poeta per tutti, origine svedese, cantore di Chicago, città violenta che però ride gagliarda e robusta.... A un secolo dalla pubblicazione, i Chicago Poems arrivano in Italia in una edizione integrale il cui formato sontuoso spero non scoraggerà i lettori dalla (ri)scoperta di una voce poetica imperdibile. Socialista, populista, Sandburg era stato pubblicato in Italia dalle Edizioni Avanti! nel 1961 in un bel libretto antologico, e la sola sezione eponima di questa raccolta è stata riproposta dall’editore Ladolfi nel 2012. Ma ora possiamo leggere tutte le 145 poesie del volume che diede nel 1916 la fama al trentottenne Sandburg, che da allora diventerà un poeta della nazione quanto se non più del più ombroso (e oggi ammirato) Robert Frost. Le poesie di Sandburg sono brevi e dirette, parlano in una lingua comune, evitano cadenze tradizionali, hanno un andamento che accenna alla ballata, spesso aprendosi e chiudendosi con versi analoghi. Protagonista è il popolo e il paesaggio americano, soprattutto quello di Chicago con i suoi grattacieli, il porto, il lago, le periferie, e le vite che vi si consumano: immigrati italiani ed ebrei, commesse, lavandaie, prostitute, capitalisti. Il mondo delle illusioni perdute che però in Sandburg non è mai depresso, le persone parlano della loro condizione, e il poeta ha un suo umorismo rattenuto e una franca disponibilità all’invettiva. Celebre l’attacco a un predicatore evangelico che si arricchisce berciando sermoni sull’Inferno (Billy Sunday, come avverte Lonati in nota): “Tu dici alla gente che vive nelle baracche che Gesù metterà tutto a posto dando loro ville nei cieli dopo che saranno morti e i vermi se li saranno mangiati ...”. Sandburg fu censurato per questa poesia, ma conservò la sua equanimità. Il suo risentimento non va a scapito dell’intelligenza e del controllo. Così nella breve sezione dedicata alle prostitute, Ombre, leggiamo Colomba sporca: “Diciamoci la verità; questa signora non era una puttana finché non sposò un avvocato d’impresa che la pescò fra le ballerine di Ziegfield.  / Prima di allora non aveva mai preso soldi da nessuno...”. Ma il testo va letto tutto per gustarne il ritratto e le sue implicazioni. Viene spontaneo il paragone con la Spoon River Anthology, dove troviamo storie analoghe, ragazze che lasciano la provincia in cerca di fortuna e finiscono se va bene sposate a uno spiantato nobile genovese. Di Masters è l’elogio riportato addirittura sulla copertina della prima edizione dei Chicago Poems, e Francesco Rognoni lo cita nella sua vivace premessa: “È con potenti esplosivi che Carl Sandburg fa deflagrare dalla massa vitale di Chicago queste figure e maschere autoctone della modernità. La sua poesia preannuncia l’America Industriale, l’America degli Affari, e le sue conquiste...”. Rognoni riporta il commento di Robert Frost alla “sbrodolata” di Masters: “È sufficiente a dimostrare quello che ho sempre sospettato, non che Masters è proprio morto, ma che non è mai stato granché vivo”. Questo è un po’ vero di Masters, con i suoi temi e la sua metrica ripetitivi, ma non del primo Sandburg, che si rinnova di poesia in poesia nella forma e nella serie di immagini. Infatti egli non è insensibile all’imagismo che pochi anni prima era stato divulgato da Pound sulle stesse colonne di “Poetry” dove nel marzo 1914 appare la poesia Chicago insieme con altre che confluiranno nella raccolta: Jan Kubelik (un noto violinista boemo), Sperduto (“Desolato e solo / Tutta la notte sul lago...”) e l’assai curiosa Momus, dove emerge (del resto come in Masters) una interrogazione simbolista: “Una ronzante monotonia dolce come il riso del mare si libra dalla tua bronzea benevolenza, / Tu mi concedi l’umano sollievo di una vetta di montagna”. Sandburg parla in prima persona, forse con un senso scandinavo di accettazione impassibile dei travagli del mare, ma anche fa parlare i suoi uomini comuni. Come nella celebre Mag. “Volesse Dio che non t’avessi mai veduta, Mag”, dice un operaio alla donna con cui condivide una vita di stenti: “Vorrei che tu vivessi in qualche luogo lontano da qui / E che io fossi un barbone”. E di altri barboni Sandburg parla, e di quando passò una notte con loro in galera. Infatti Sandburg piacque a Bob Dylan come menestrello delle praterie suo predecessore e girava cantando e recitando come quel terzo straordinario poeta di Chicago che fu Vachel Lindsay. Chicago Poems è di pagina in pagina un libro ricco, scontato e misterioso, epico ed imagista. Merita sicuramente di essere letto almeno quanto il suo fratello cimiteriale, Spoon River, e ora ciò è possibile grazie a questa prima edizione notevolmente (dati i tempi) coraggiosa. E tempestiva,  visto che di populismo americano si dovrebbe parlare a proposito dei poeti di Chicago come di Donald Trump, beninteso con accezioni ben diverse.

Massimo Bacigalupo

(Di Massimo Bacigalupo ricordo questa passata intervista apparsa in "Librobreve" e dedicata al Meridiano Mondadori di Wallace Stevens da lui curato.)

mercoledì 4 aprile 2018

Rilke, Lovecraft e gli altri "pacchetti" de L'Orma editore

Storie di collane micro #14

Talvolta si sente dire che l'editoria è un settore nel quale è difficile innovare. Bisognerebbe intendersi bene su tante cose prima di emettere conclusioni affrettate, ad esempio intendersi su che cosa vuol dire per noi un "settore maturo" (se abbiamo studiato un po' di economia ne abbiamo una vaga idea) o "innovazione" (anche qui potremmo avere una vaga idea). Nessun settore economico è mai pienamente maturo e a volte una nuova pratica può spostare il momento della maturità, ringiovanire una categoria merceologica. Sul fronte contenutistico mi pare che l'editoria non sia ferma, ma naturalmente non è neanche pensabile di affrontare qui questo aspetto. Se ci soffermiamo invece sull'oggetto-libro quale prodotto industriale e sulla sua esteriorità potremmo ad esempio riconoscere che, tranne nei casi dei libri di prestigio venduti in confezioni protettive, raramente si ricorre al packaging come leva promozionale e trainante, fondativa addirittura di una nuova collana. Così succede ne "I pacchetti" de L'Orma edizioni, collana di libri brevi ed epistolari che, come spiega la nota di presentazione, sono da "chiudere, affrancare (con un francobollo da 1,50) e imbucare in una qualsiasi cassetta postale (infrangendo il tabù di scrivere sui libri, ma niente paura, è solo la sovraccoperta…)." In questo caso il packaging non funziona da venditore nascosto o subliminale come al banco degli yogurt. Il progetto grafico, qui necessariamente largamente inteso (interni, copertina, sovraccoperta che presta il concept alla collana), è affidato a IFIX di Maurizio Ceccato e prevede anche il ricorso a un ben congegnato apparato iconografico interno. I nomi degli autori precipitati in collana sono disparati e i ritratti di questi sono stampati a un colore dentro il contorno di un francobollo, che richiama sia l'intento della collana sia le lettere. Si tratta di autori che contano molte edizioni anche in altri cataloghi editoriali e che tuttavia, proposti in quest'abito, guadagnano uno spunto ulteriore per essere avvicinati.

Un altro discorso che si potrebbe fare è il seguente: quasi mai agli epistolari si riserva una più fruibile trattazione tematica o antologica, e più spesso si ricorre alla pubblicazione in toto di un intero epistolario o di un determinato carteggio. Con i libri di questa collana invece il genere epistolare è affrontato con piglio innovativo e la selezione di alcune lettere, dettata da ovvi motivi di spazio, diventa uno sprone per i diversi curatori, che così isolano missive di singolare intensità. Nella collana "i Pacchetti" si sono sin qui avvicendati Baudelaire, Gramsci, Leopardi, Nietzsche, quel gran scrittore di lettere che fu Giuseppe Verdi, Rimbaud, Dickinson, Stendhal, Kafka, Poe, Pirandello, Svevo, Artusi, Pessoa, Woolf, Shelley, Curie, Campana, Apollinaire, Cervantes, Shakespeare, Brontë, Kuliscioff, Austen e Hugo. Si sono citati appositamente tanti nomi per dare l'idea di una collana popolata da classici (e praticamente tutti fuori diritti), rivivificati dalla forza del formato di collana. Le ultime due proposte confezionano alcune lettere di Rainer Maria Rilke quasi tutte inedite in italiano (La vita comincia ogni giorno. Lettere di saggezza e commozione, pp. 64, efficacemente curato da Marco Federici Solari) e di Howard Phillips Lovecraft (L'età adulta è l'inferno. Lettere di un orribile romantico, pp. 62, a cura di Marco Peano).

Nel caso di Rilke, che si tratti di un fatto di cronaca di un padre che brucia il cadavere di un figlio, di una corrispondenza con un'amica, con la gelosa principessa Marie von Thurn und Taxis oppure di una digressione puntualissima e memorabile sulle distinzioni tra gioia e felicità, non possiamo fare altro che registrare ancora una volta il valore di un epistolario che presenta forti corrispondenze con l'intera opera rilkiana e anche con I quaderni di Malte Laurids Briggeunico "romanzo" di un poeta che fu troppo occupato a curare la vita interiore per preoccuparsi di averne anche una esteriore. La felicità, per il Rilke delle lettere, è debole, perché lascia tempo per pensare alla sua durata e per preoccuparci. La gioia invece "è un momento, senza obblighi, fin dal principio senza tempo che non si può trattenere ma non la si può più neppure perdere, perché sotto l'effetto di quella commozione il nostro essere per così dire muta chimicamente". La gioia è il momento in cui rivive l'atto e il gesto della creazione. Per stare alle due uscite più recenti, passiamo dal verde asparago di Rilke alla carta da zucchero di Lovecraft. La scelta di lettere dallo sterminato epistolario di HPL curata da Marco Peano ha lo scopo preciso di puntellare alcuni tratti salienti del grafomane, misantropo, misogino, disordinato onnivoro bibliofilo sprezzante della realtà, nonché straordinario innovatore horror celebrato tra gli altri anche da Houellebecq. In quest'anno, in cui ricordiamo anche la riproposta per Il Saggiatore de Le montagne della follia nella traduzione di Andrea Morstabilini, vale la pena chiederci perché un autore in fondo così amato dai lettori, poroso e irsuto, non serva da scossa contro le tante pulsioni piallatrici e levigatrici della brulicante ragioneria di stato del "romanzo". Uno spunto di riflessione questo, a patto che valga qualcosa. Un pensiero dubbioso che impacchettiamo, come questi libretti doppiamente epistolari, colorati e carichi di sorprese.