Interessante il progetto del marchio editoriale «Aguaplano-Officina del libro», nato 9 anni fa a Passignano sul Trasimeno come casa editrice di saggistica e di classici, di volumi di poesia e di libri d’arte. Come si legge nel sito, quest'editore vuole regolarsi su una produzione editoriale "di pochi titoli, ben distribuiti sul territorio nazionale (attraverso una rete di librerie e altri punti vendita pensata ad hoc per ogni volume) e proposti all’attenzione dei lettori attraverso un’intensa attività di seminari, presentazioni ed eventi a tema". Tra questi mi è capitato in mano Miniature. Frammenti di letterature dal Nord di Bruno Berni, gran traghettatore di letterature del Nord in italiano, con un'assidua attività traduttoria. Il volume contiene un bell'insieme di "schede" e scritti, tutti abbastanza brevi, su autori delle letterature del Nord d'Europa. Si parte abbastanza vicino con Goethe e si giunge a Yahya Hassan, apolide palestinese che vive in Danimarca, classe 1995, autore della raccolta di poesie più venduta di tutti i tempi nel suo paese (in Italia pubblicato da Rizzoli e tradotto proprio da Berni). In mezzo ai due estremi si colloca un gran novero di scrittori, da von Chamisso a Andersen, da Strindberg a Perutz, da Strunge a Nooteboom solo per citarne una manciata. Grazie alla collaborazione con l'ufficio stampa dell'editore e Davide W. Pairone in particolar modo, pubblichiamo di seguito il capitolo dedicato a Stig Dagerman.
Stig Dagerman (1923 - 1954)
Il viaggiatore
di Bruno Berni
Vi sono scrittori che in un periodo limitato della loro vita, quasi una breve parentesi, sanno produrre opere sufficienti a consegnarli al mito. Ciò avviene spesso in momenti nei quali la storia costringe a una maturazione forzata, esalta le impressioni fino ad accentuare la sensibilità nei confronti del mondo. È questo il caso di Stig Dagerman, lo scrittore svedese che in pochi anni, dal 1945 al 1949, visse una parabola veloce quanto bruciante per poi perdere via via, negli anni successivi, la capacità di scrivere, fino al suicidio avvenuto nel 1954, a soli trentuno anni. Dopo aver iniziato la sua carriera come scrittore impegnato, Dagerman raggiunse rapidamente la notorietà, scrisse opere teatrali, romanzi, articoli, ma il successo, le lodi della critica, l’approvazione del pubblico, ottennero l’unico effetto di limitare la sua capacità espressiva. L’impegno politico degli inizi non si accordava più con la sua nuova posizione di promessa del mondo letterario svedese e la scrittura, in un carattere ipersensibile come quello di Dagerman, si bloccò fino a portarlo all’autodistruzione. La necessità – se non l’obbligo – di vivere la sofferenza all’interno, e più ancora l’incomunicabilità, descritta nei suoi romanzi, fra gli esseri umani e fra lo scrittore e il mondo, nel suo caso costruirono un muro fra lo scrittore e se stesso, e di fronte a una realtà che non era più quella dell’ambiente che lo aveva formato la capacità descrittiva scomparve, come nel racconto A casa della nonna, uno degli ultimi, in cui il bambino – e con lui forse Dagerman stesso – prega ad alta voce: «Dio, Dio, fa’ che io senta come prima».
L’esperienza della povertà, della politica, della guerra, seppure vissuta in un paese neutrale, avevano affinato una sensibilità di scrittore che, apparentemente rivolta ai problemi sociali – come dimostrano la militanza anarchica e gran parte della sua produzione giornalistica – era in realtà attratta da aspetti più interiori della vita umana. Dagerman aveva la capacità di osservare e vivere la sofferenza, la tragedia nascosta nella vita altrui, catalizzava su se stesso e viveva a fondo l’esperienza più terribile che una tragedia possa patire: quella del dramma ignorato, dell’incomunicabilità dovuta alla disparità di sensazioni e di sensibilità. Sofferenza nascosta, di poco conto per l’umanità, e proprio per questo universale perché in agguato nella vita di ognuno. «Le grandi tragedie» afferma in uno dei racconti di questo volume, «sono già tutte accadute da molto tempo. Ai nostri giorni accadono soltanto tragedie minori»: piccoli drammi sfumati dal grigiore della vita quotidiana, drammi che non interessano la storia, come non la interessano i personaggi che li vivono quotidianamente e cui spesso, della tragedia, è negato anche un vago tono di importanza, magra consolazione che rende ancor più amaro il ritorno alla normalità.
La scrittura di Dagerman è dunque introspettiva, descrive gli effetti della realtà cristallizzati nell’animo dei personaggi feriti dall’indifferenza del mondo. E molto spesso i personaggi sono bambini, adolescenti, nei quali l’esperienza tragica, come ha notato Goffredo Fofi, assume un aspetto più acuto, non smussato «dalla consuetudine alla vita». Lo scrittore è stato considerato vicino a Strindberg, a Camus, figlio di Kafka, ma tranne accenni a quest’ultimo è difficile trovare nella sua opera delle influenze letterarie: la sua ispirazione veniva dal profondo, dalla percezione della vita propria e più spesso altrui. Né Dagerman era un gran lettore. Aveva invece una straordinaria passione per il cinema, forse perché nel cinema poteva vedere lo sviluppo delle storie, dei drammi che il suo spirito assorbiva dal mondo, forse perché nel cinema riusciva a vivere appieno la catarsi che lo portava ad attirare su di sé le atmosfere che lo circondavano, le sofferenze che altri non vedono, e che portò a un punto di non ritorno la sua disperazione di uomo tradito – da se stesso – nella sua fede negli ideali. E forse al cinema possono esser fatti risalire alcuni aspetti della sua prosa, come quel «montaggio alternato» di cui ha parlato Fofi, che nel racconto Uccidere un bambino riesce così bene a rendere l’angoscia di chi – Dio o regista – conosce l’esatta sequenza e i risultati della scena, di chi sa che «la vita è così spietata con colui che ha ucciso un bambino che dopo è troppo tardi per qualsiasi cosa». Ed è tipico della capacità di immedesimazione di Dagerman il fermare l’attenzione sulla coscienza di chi ha ucciso, di chi resta e continuerà a vivere nel rimorso. È tipico della sua scrittura almeno finché, giunto anche lui alla fine della strada, privato della capacità o piuttosto della spontaneità espressiva, decise di metter fine nella maniera peggiore alla catarsi del dramma – o forse di portarla alle sue estreme conseguenze – e lasciare per sempre agli altri, a chi resta, il duro compito di continuare a vivere.
Vi sono scrittori che in un periodo limitato della loro vita, quasi una breve parentesi, sanno produrre opere sufficienti a consegnarli al mito. Ciò avviene spesso in momenti nei quali la storia costringe a una maturazione forzata, esalta le impressioni fino ad accentuare la sensibilità nei confronti del mondo. È questo il caso di Stig Dagerman, lo scrittore svedese che in pochi anni, dal 1945 al 1949, visse una parabola veloce quanto bruciante per poi perdere via via, negli anni successivi, la capacità di scrivere, fino al suicidio avvenuto nel 1954, a soli trentuno anni. Dopo aver iniziato la sua carriera come scrittore impegnato, Dagerman raggiunse rapidamente la notorietà, scrisse opere teatrali, romanzi, articoli, ma il successo, le lodi della critica, l’approvazione del pubblico, ottennero l’unico effetto di limitare la sua capacità espressiva. L’impegno politico degli inizi non si accordava più con la sua nuova posizione di promessa del mondo letterario svedese e la scrittura, in un carattere ipersensibile come quello di Dagerman, si bloccò fino a portarlo all’autodistruzione. La necessità – se non l’obbligo – di vivere la sofferenza all’interno, e più ancora l’incomunicabilità, descritta nei suoi romanzi, fra gli esseri umani e fra lo scrittore e il mondo, nel suo caso costruirono un muro fra lo scrittore e se stesso, e di fronte a una realtà che non era più quella dell’ambiente che lo aveva formato la capacità descrittiva scomparve, come nel racconto A casa della nonna, uno degli ultimi, in cui il bambino – e con lui forse Dagerman stesso – prega ad alta voce: «Dio, Dio, fa’ che io senta come prima».
L’esperienza della povertà, della politica, della guerra, seppure vissuta in un paese neutrale, avevano affinato una sensibilità di scrittore che, apparentemente rivolta ai problemi sociali – come dimostrano la militanza anarchica e gran parte della sua produzione giornalistica – era in realtà attratta da aspetti più interiori della vita umana. Dagerman aveva la capacità di osservare e vivere la sofferenza, la tragedia nascosta nella vita altrui, catalizzava su se stesso e viveva a fondo l’esperienza più terribile che una tragedia possa patire: quella del dramma ignorato, dell’incomunicabilità dovuta alla disparità di sensazioni e di sensibilità. Sofferenza nascosta, di poco conto per l’umanità, e proprio per questo universale perché in agguato nella vita di ognuno. «Le grandi tragedie» afferma in uno dei racconti di questo volume, «sono già tutte accadute da molto tempo. Ai nostri giorni accadono soltanto tragedie minori»: piccoli drammi sfumati dal grigiore della vita quotidiana, drammi che non interessano la storia, come non la interessano i personaggi che li vivono quotidianamente e cui spesso, della tragedia, è negato anche un vago tono di importanza, magra consolazione che rende ancor più amaro il ritorno alla normalità.
La scrittura di Dagerman è dunque introspettiva, descrive gli effetti della realtà cristallizzati nell’animo dei personaggi feriti dall’indifferenza del mondo. E molto spesso i personaggi sono bambini, adolescenti, nei quali l’esperienza tragica, come ha notato Goffredo Fofi, assume un aspetto più acuto, non smussato «dalla consuetudine alla vita». Lo scrittore è stato considerato vicino a Strindberg, a Camus, figlio di Kafka, ma tranne accenni a quest’ultimo è difficile trovare nella sua opera delle influenze letterarie: la sua ispirazione veniva dal profondo, dalla percezione della vita propria e più spesso altrui. Né Dagerman era un gran lettore. Aveva invece una straordinaria passione per il cinema, forse perché nel cinema poteva vedere lo sviluppo delle storie, dei drammi che il suo spirito assorbiva dal mondo, forse perché nel cinema riusciva a vivere appieno la catarsi che lo portava ad attirare su di sé le atmosfere che lo circondavano, le sofferenze che altri non vedono, e che portò a un punto di non ritorno la sua disperazione di uomo tradito – da se stesso – nella sua fede negli ideali. E forse al cinema possono esser fatti risalire alcuni aspetti della sua prosa, come quel «montaggio alternato» di cui ha parlato Fofi, che nel racconto Uccidere un bambino riesce così bene a rendere l’angoscia di chi – Dio o regista – conosce l’esatta sequenza e i risultati della scena, di chi sa che «la vita è così spietata con colui che ha ucciso un bambino che dopo è troppo tardi per qualsiasi cosa». Ed è tipico della capacità di immedesimazione di Dagerman il fermare l’attenzione sulla coscienza di chi ha ucciso, di chi resta e continuerà a vivere nel rimorso. È tipico della sua scrittura almeno finché, giunto anche lui alla fine della strada, privato della capacità o piuttosto della spontaneità espressiva, decise di metter fine nella maniera peggiore alla catarsi del dramma – o forse di portarla alle sue estreme conseguenze – e lasciare per sempre agli altri, a chi resta, il duro compito di continuare a vivere.
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