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lunedì 16 aprile 2018

"Libretto di transito" di Franca Mancinelli

Sembra un omaggio alle origini della collana A27 poesia di Amos Edizioni il titolo numero 4, Libretto di transito di Franca Mancinelli (pp. 72, 12 euro) e ricorderemo tra pochissimo il perché. Il libro di Mancinelli arriva dopo il trittico di inaugurazione di fine 2017 costituito da Varizioni sulla cenere di Fabio Pusterla (il suo libro più debole, mi sembra, anche se già con Argéman si era intravista una perdita di incisività del verso e di aderenza tra lingua e immaginario), da Linoleum di Giulia Rusconi e il convincente Ambienti saturi di Fabio Donalisio, decisamente l'opera più bella e riuscita del terzetto di partenza. Per tornare all'idea del transitare che anima anche il nome, il concetto e il progetto grafico di questa recente iniziativa editoriale (si veda questa intervista fatta al momento del varo), vale la pena ricordare che il prototipo della collana, un volume del 2001 contenente 5 poesie a testa di Igor De Marchi, Sebastiano Gatto e Giovanni Turra, oggi curatori di A27 poesia, portava proprio il titolo di Transiti. Altro discorso è (sarà) capire se questo libro contenuto di Mancinelli intende essere, all'interno del suo percorso autoriale e editoriale, un libretto di transito verso un'opera che l'autrice intende più corposa e magari rischiosa (anche sul rischio ritorneremo, in chiusura). Qui però la capienza della parola "libretto" è da intendersi più nel senso del bagaglio, del viatico del transito, e non tanto della dimensione dell'oggetto.

L'opera attraversa un alone onirico, come effettivamente ricorda la quarta di copertina. Tra l'altro, a proposito di quarte di copertina, va riconosciuto un fatto non scontato: questa collana torna a prendersi la briga di scrivere le quarte di copertina, testi brevi e descrittivi, dalla struttura ricorrente tra i vari titoli, in un panorama dove spesso o si rinuncia a farlo o si pesca una poesia o si riporta uno stralcio di pre/postfazione. Anche attraverso questo espediente passa un tentativo di trovare una collocazione editoriale nuova alla poesia. L'attraversamento perlopiù ferroviario (con l'eccezione della spericolata prosa automobilistica di pagina 38) ha ripercussioni sulla struttura del flusso testuale, che non ricorre a sezioni e procede diritto verso la fine, captando colori e forme in quella fase trasognante eppure di veglia nella quale sembra acutizzarsi una percezione più intensa o meno scontata di ciò che ci accade intorno. A far da sostanza di un testo che scorre sopraelevato, come su rotaie di un ponte, resta in realtà un immaginario geologico e tellurico di faglie e falde, di poltiglia argilla o creta, di sabbia o ghiaia. E se le diverse consistenze di ciò che è a terra hanno importanza, va da sé che anche i piedi abbiano una parte rilevante nell'economia dell'opera, così come scarpe o tacchi, l'indossare e il calzare, la taglia di ciò che aderisce e copre il corpo, finanche il bagaglio qui inteso come "valigia". Il testo iniziale in questo detta il passo quando afferma "Entrare nella taglia esatta della pena [...] Calzando scarpe che non hanno mai premuto la terra, dormiremo nel centro dello sguardo, come neonati". Quanto accadrà e verrà registrato dal Libretto allora risente e si porta dietro questa contraddizione tra una percezione chiara - seppur appunto impastata nel sogno - che si deposita con precisione nelle prose poetiche e il desiderio espresso proprio alla fine del testo d'avvio, nel quale si affaccia un intento di tabula rasa, di cancellazione di tracce mnestiche, quasi una pulsione di retrocessione o strana rinuncia dello sguardo e dell'esperienza. E se il transito raccontato diventa anche una ricognizione dell'inconscio o di terreni assai prossimi a questo, sappiamo che quest'ultimo non è riducibile totalmente al linguaggio e la cura o terapia non è mai solo linguistica.

La palette dei colori di Libretto di transito resta scura. Il "bianco" è hapax che vale solamente per i denti che chiamano le ossa sommerse. "Terra" e "acqua" parlano in nero, così come il fiume "così nero che avremmo potuto calpestarlo". La percezione è da ubriachi, quando ad esempio si legge "L'intera città fluttuava". Le similitudini si rincorrono, come nel caso della medusa e delle reti, quando a distanza di poche righe leggiamo "Se ci avesse sfiorato porteremmo segni sul corpo, sottili e rossi lineamenti come dopo il passaggio di una medusa" e poi "Un colore prima di un altro, e poi diversi, insieme, come in una rete che si muove luminosa". In un altro brano ci troviamo forse a concordare con l'attacco che afferma "Le frasi non compiute restano ruderi". La luce qui è tautologicamente "chiara", per ben due volte nello stesso testo, il solo che desideriamo riportare per intero in questa nota di lettura, anche per evidenziare la riuscita espressione di un sentimento di impossibilità (molto bello il "contenerti mentre nasci"):
Mi porti in salvo come sollevando la parte più fragile di te. Resisti nel tumulto. Ed eccoti al varco, attraversato da scariche di luce chiara. Non hai più viso, sei fuori da ogni contorno. Soltanto luce chiara. Vorrei raccoglierti con le mani, contenerti mentre nasci, ma ti sprigioni: sei la corrente prima che non si può toccare. 
Il palleggiarsi di concavità/convessità, da sempre ricorrente nella scrittura dell'autrice marchigiana, rimane centrale, ma se un tempo il cucchiaio era immagine ricorrente e lampante nella sua concavità/convessità, ora siamo all'"incavo degli occhi" e dello sguardo. La densità della parola "occhi" e di quanto a questi rimanda è da segnalare: "gli occhi chiusi", "i suoi occhi in un punto lontano", "Per questo con gli occhi fissiamo l'orizzonte", il caso fonicamente ricco di "un occhio socchiuso", la deviazione animale de "i piccoli occhi rotondi dei cocoriti in gabbia", "trovano la via degli occhi", "In questo paesaggio posso chiudere gli occhi e dormire", "I tuoi occhi potrebbero essere azzurri o neri", "Resta l’incavo degli occhi" e "Con gli occhi chiusi continui a lottare". Gli occhi e anche il corpo non sono una novità nella lirica, di qualsiasi epoca o latitudine. Il corpo qui continua a essere tutto nominato, come in un appello mattiniero di tutte le sue parti: caviglie, capelli, dita, polsi, tempie, pupilla, petto, collo, fronte, bocca, zigomi, spalle si pongono come un interrogativo frammentato alla presunta (e presuntuosa) pienezza della coscienza. Il libro nuovo però, come alcuni testi della silloge Tasche finte apparsa lo scorso anno in "Poesia contemporanea. Tredicesimo quaderno italiano" di Marcos y Marcos, che non aggiungeva molto a un percorso già noto, abbandona completamente la versificazione, almeno quella grafica, per lasciare la pagina a 33 prose poetiche suddivise solamente da pagine bianche. La rinuncia alla versificazione, oggi come oggi, può indirizzare verso molteplici direzioni. Nel caso di Mancinelli, più che a una rinuncia alla versificazione viene da pensare a una strategia testuale che pone (impone) un passo di lettura dimidiato di un appoggio, come quello di chi salta con una gamba sola nel gioco della campana, attraverso stanze di scrittura conchiuse, che si compenetrano una nell'altra come gli angoli concavi e convessi di un angolo giro.

Anche in questo libro di Mancinelli, come in altre opere di poesia apparse di recente e appartenenti a nomi tutto sommato ben circolati editorialmente, sembra che si stia naturalmente per esaurire un ciclo di scrittura che inizia a invocare silenziosamente un rinnovamento. Nel caso di Mancinelli, la prosecuzione del ciclo, che ormai dura da anni (sicuramente da Pasta madre del 2013), negli ultimi tempi è sfalsata e quasi rallentata dall'introduzione dell'elemento strutturale della prosa, ma l'immaginario e la sostanza che alimenta la pagina hanno una composizione chimica simile e ripetuta. Un testo come quello che ritrae il padre che annaffia qui rivede e accorcia quanto già uscito nel citato "Quaderno" di Marcos y Marcos solamente un anno fa. Questo sta bene, fa parte del bagaglio di un'autrice che come ogni scrittore vive di ossessioni, di riscritture, di revisioni, ma allo stesso tempo ci dice di una sosta prolungata sopra lo stesso nucleo. In questa scrittura resta interessante seguire un dialogare di fantasmi che emerge a ogni giro di frase e si coagula in pagina. Nell'inseguimento di questo dialogare di fantasmi, per stare su persone anagraficamente vicine, i risultati più alti e belli restano però a mio avviso le opere di due autrici poco citate e tornate silenziose, che tuttavia ci auguriamo di tornare a leggere presto. Mi riferisco a Erika Crosara (1977) di Ius e Alessandra Conte (1978) di Breviario di Novembre, alle quali aggiungerei il caso più recente di Carmen Gallo (1983) di Appartamenti o stanze (anche per nominare un'autrice nata negli anni Ottanta, visto che queste suddivisioni a decadi calcistiche piacciono molto ai compilatori di antologie, quaderni, recensioni). Ma il dialogo dei fantasmi è essenziale anche nelle prose poetiche di Mancinelli e non a caso Emily Dickinson, regina dei fantasmi, appare in epigrafe con Simone Weil. La differenza si ravvisa sempre nel come si fa risuonare un fantasma. L'impressione è che un angolo giro sia compiuto e che uno spostamento sia necessario, magari è già in orizzonte. Il transito rappresentato da questo nuovo libro ci dice insomma di una padronanza di stile e scrittura che convoglia le forze verso una robusta costruzione di autorialità. Da lettore posso registrare la riuscita complessiva dell'operazione, augurandomi però anche di poter riscontrare un'oscillazione del senso e delle immagini su superfici meno sicure, meno "date", ma più utili al mio transito di lettore. In altre parole, ci auguriamo che resti sì salda l'asticella della scrittura, dello stile - con tutti i suoi portati biologici - e della qualità editoriale che accoglie l'opera (qui fuori discussione), ma che resti alta anche l'asticella del rischio, con tutto ciò che questa parola implica nelle discussioni che ricadono nell'alveo della poesia. Anche a costo di sbagliare un colpo, anche a costo di sporcare la propria ricerca e portarla più in là, nel tentativo di dire quello che si può ma anche, soprattutto, quello che non si può dire. Il bagaglio, incluso quello teorico-tecnico, da un pezzo è pronto per affrontare questo nuovo transito e l'importante adesso, per fare il verso al bel finale di una di queste prose, è non scordarsi di partire.

martedì 10 ottobre 2017

La nuova collana di poesia A27 di Amos Edizioni. Un'intervista coi curatori Igor De Marchi, Sebastiano Gatto e Giovanni Turra

Di seguito potete leggere una intervista con Igor De Marchi, Sebastiano Gatto e Giovanni Turra, ideatori e curatori della nuova collana di poesia A27 edita da Amos Edizioni. Ringraziandoli per le risposte, ricordo che le collane di poesia A27 e Nervi saranno oggetto di una presentazione congiunta sabato 14 ottobre alle ore 16:00 nell'ambito del festival Carta Carbone a Treviso (Palazzo di Francia, via Roggia 12).

LB: La collana di poesia A27 nasce all'interno di un catalogo di un editore che esiste da molto tempo, Amos Edizioni. Potete dire come è avvenuto l'innesto e quali regole vi siete dati per risiedere all'interno del catalogo di questo editore?
R: Facendo un’eccezione alle sue abitudini, per la collana di poesia a27 Amos edizioni ha scelto di lasciare carta bianca ai tre curatori. Le regole valgono solo per il formato del libro, mentre il resto viene da un rapporto di fiducia che si è costruito in oltre 20 anni di frequentazioni.

Un tratto prealpino della A27
LB: Il nome, una sigla autostradale che idealmente potrebbe abbracciare tutta l'Italia, rinvia a una passata esperienza dei curatori, risalente a diversi anni fa. Con quali intenzioni avete ripescato quella sigla per marchiare questa nuova collana di poesia?
R: È stata la scelta più semplice e naturale: prima di tutto è stata la sigla che ci accomunava, e metteva tutti d’accordo. E poi una sigla non ammicca e non connota, piuttosto “indica”. Quale luogo migliore di un’autostrada, di una via di comunicazione (non a caso), per aprirsi e accogliere esperienze, proposte, passaggi, incursioni e scambi? Ovviamente indica anche un luogo di provenienza, il nostro, ma che non vuole essere sede esclusiva e privilegiata nella selezione dei poeti.

LB: Varate la collana proprio in questi giorni e partite con tre titoli. Quali sono e cosa ci dicono questi tre libri?
R: I primi libri sono: Variazioni sulla cenere di Fabio Pusterla, Linoleum di Giulia Rusconi, Ambienti saturi di Fabio Donalisio. Sono libri molto diversi tra loro, e siamo molto soddisfatti di questa scelta, proprio perché non ci inquadra in una scuola né in un gusto prevedibile. Complessivamente questi libri ci dicono che la poesia è viva, e non è vero che è ormai impossibile intercettare vene poetiche fresche ed autentiche.
Cerchiamo di privilegiare questo aspetto: la scrittura attorno a uno o più temi solidi, più che raccogliere semplicemente testi sparsi finché si arriva a un numero adatto alla stampa.
Variazioni sulla cenere di Fabio Pusterla, ad esempio, è un libro in due sezioni, entrambe riferiscono di esperienze concrete, dove il lirismo si impasta con versi materici e aspri che si interrogano sulla cenere e la luminosità della vita umana.
Linoleum di Giulia Rusconi invece è tutto chiuso dentro le stanze di una casa di riposo, dove i versi asciutti e toccanti aprono al lettore una nuova prospettiva sul legame ambiguo tra cura e sofferenza, tra pazienti e infermieri.
Ambienti saturi di Fabio Donalisio, invece è tutto ripiegato su un Io che non c’è. I versi frammentati e acidi girano straniti negli ambienti per forza minori di un’abitazione cercando ciò che non c’è più, non può più esserci e forse non c’è mai stato.

LB: La scrittura poetica è spesso intesa malamente come uno spazio di libertà assoluta. Forse può esserlo uno spazio di libertà, il punto è che questa libertà emerge anche grazie a dei "divieti" (sulla lingua, sull'immaginario ecc.) che scolpiscono l'estetica, la superficie e poi fin giù il nucleo di una poetica. Oggi si possono individuare posizioni estreme, parimenti "ridicole", da chi continua a perorare la causa della libertà assoluta di movimento a chi mette dei paletti anzitempo, ad esempio sostenendo che parole come "cielo" o "erba" non abbiano più diritto d'asilo nella poesia oggi. Senza scomodare Azzurro o Il ragazzo della via Gluck di Adriano Celentano, a me sembrano posizioni alquanto discutibili: la prima mi sembra molto ingenua e impraticabile, la seconda ricorda un po' i futuristi che volevano uccidere il "chiaro di luna". Voi quale idea avete e eventualmente "applicate" quando vi arrivano dei dattiloscritti da valutare?
R: I gusti di ciascuno influenzano sicuramente la valutazione dei dattiloscritti. Così come l’idea che abbiamo di poetica. Ce lo siamo detto fin dall’inizio, e ci siamo preparati per questo. La sfida è quella di tenere a bada i personalismi per non pregiudicare la lettura di poesia anche molto diversa dalla nostra. La pubblicazione di un libro passa comunque dall’approvazione di tutti e tre i curatori della collana. Quello che è importante è cercare di rispettare e valutare i testi ciascuno nel proprio immaginario e nella propria poetica, cercare di riconoscere le voci autentiche e  tecnicamente consapevoli. Scartare a priori una proposta perché rientra in una delle due posizioni che dici tu, ad esempio, può essere un errore.

LB: Un aspetto che è emerso nelle conversazioni e che mi è parso molto interessante è che lavorate a stretto contatto con gli autori, rimaneggiando anche pesantemente i dattiloscritti che intendete trasformare in libri (tagliando, integrando o riscrivendo). Una domanda cattiva: in futuro varrà per tutti il trattamento, inclusi i nomi più affermati che potrebbero trovare posto nella vostra collana?
R: Sì, certamente. A volte più a volte meno. La “cura” di un libro di poesia può prevedere anche questo “gioco di squadra”. Lo si fa in narrativa, ad esempio, non vediamo perché in poesia sia percepito come un tabù. Ma, giusto per chiarezza, non si tratta di riscrittura (come ipotizzi nella domanda). Si  tratta più che altro di rivedere e ripensare la struttura dei libri proposti, sempre rispettando le peculiarità e le esigenze degli autori, qualora intuiamo che ciò potrebbe rassodare e dare maggior sapore al testo. Non vogliamo ricavarne dei libri “alla A27”, dove traspaiono le nostre personalità.
Ti faremo degli esempi concreti: dei testi di Donalisio ci interessava l’aspetto corrosivo sia dello stile, sia a livello contenutistico. Con lui si è dunque concordato di selezionare quei testi che andassero più in questa direzione. Nel caso di Rusconi il libro era praticamente fatto, ma, visto il tema, le è stato chiesto di inserire elementi di alleggerimento – versi, rime, testi – che spezzassero il ritmo. Con Pusterla, visto che il suo libro è quello che inaugura l’intera collana, abbiamo scelto di invertire l’ordine delle sezioni al fine di partire con testi più diretti e di avvicinarsi gradualmente a quelli più cupi della seconda parte.
Crediamo che un ragionamento di gruppo, di un gruppo di persone che insieme all’autore ragionano sull’opera, può portare a vedere alcuni aspetti in maniera diversa, sorprendente e interessante; è un lavoro che facciamo innanzitutto per il bene del libro, per aiutare l’autore quando ha delle incertezze (un ordine, ad esempio, un titolo, un taglio).

LB: Il progetto grafico ora. Gli esterni sono visibili nelle copertine qui a lato, ma si sa che il progetto grafico non riguarda solo la veste esterna del libro. Potete parlare di questo, illustrando le scelte fatte per interni e esterni?
R: Volevamo preservare la tradizionale pulizia di Amos Edizioni aggiungendo un ritmo più energico e dinamico. È stata una scelta coerente con lo stesso nome scelto per la collana: una sigla, di per sé apparentemente poco poetica. Per l’interno abbiamo cercato di privilegiare la leggibilità, per questo, se guardi bene, il formato e i caratteri usati, la carta, l’impaginazione, sono le stesse dei libri classici di Amos Edizioni, gli aggiustamenti in tal senso sono stati minimi. Non è stato necessario cambiare, perché era buono ed efficiente così com’era. Il lavoro si è concentrato maggiormente sull’esterno. Anche perché la sfida attuale è differenziarsi e spiccare sul banco della libreria. La suggestione di partenza è nata dal ricordo di vecchie copertine della Feltrinelli, e poi da certe collane inglesi come quella di poesia di Faber & Faber. Ci piaceva l’idea di una griglia grafica in cui inserire di volta in volta il nome dell’autore e i titoli, adeguando la grandezza del carattere e creare in questo modo un movimento (si percepisce meno nei primi tre libri perché i nomi sono di lunghezza simile, non potevamo certo selezionare gli autori in base a quest’esigenza!). La grandezza “massiccia” del titolo e del nome invita la poesia a non essere timida, a non nascondersi in mezzo agli altri libri.
Una particolarità dei libri è l’inserimento, accanto alle note biografiche, di foto “rivisitate” di cartine topografiche legate al territorio di provenienza degli autori. Queste elaborazioni grafiche, che assomigliano a una sezione del sistema arterioso di un corpo umano, non servono a isolare una zona, ma a mostrare come faccia parte di una pianta, di un organismo più grande.

LB: Facebook fa bene o male alla poesia, ai poeti e agli editori in Italia? Lo so che è una domanda campata un po' per aria e che quel Social è uno strumento quindi, in sé, potrebbe essere abbastanza "neutrale". Ma la vostra idea (e bilancio) qual è all'altezza del 2017, alla luce dell'uso che ne viene fatto, soprattutto in ottica promozionale?
R: Premesso che nessuno di noi ne fa grande uso (Igor non ha nemmeno un profilo personale), e ammesso che come strumento di minima promozione Facebook è sicuramente efficace, la domanda piuttosto si può rovesciare. Se, come noti nella domanda, è uno strumento e un luogo Social, dato e consacrato per lo scopo e ormai inevitabile, allora ci verrebbe da rovesciare e chiedere: la poesia fa bene o male a Facebook? Da questo punto di vista crediamo si possa affermare con sicurezza che faccia bene; ci sono migliaia di profili e migliaia di post quotidiani che riguardano la poesia. Facebook ringrazia.
Ciò detto, il tema dei social è affrontato da decine di sociologi, massmediologi e via dicendo, come a dire che non si può affrontare nello spazio di poche righe. Se ti accontenti ti daremo uno spunto: riteniamo che la poesia, per sua stessa natura, per la presenza di quegli spazi bianchi, abbia a che fare col tempo, abbia bisogno di tempo e non di obsolescenza programmata. Forse facebook va in direzione contraria.

LB: Andrea Zanzotto scrisse un interessante contributo intitolato Poesia e televisione. Se foste alle prese con un palinsesto che concede la presenza di un programma di poesia in TV, come vorreste strutturarlo? (E quali spot vi immaginate più gettonati durante le interruzioni pubblicitarie?)
R: L’intervento di Zanzotto al quale fai riferimento è ancora interessante seppur datato. Anche lui però, come molti altri, alla fine elude la questione, non prospettando alcuna valida soluzione di conciliazione tra poesia e televisione. Il problema non è quello di capire se la poesia in televisione debba/possa diventare spettacolo o momento pedagogico. La difficoltà è tutta formale: come è possibile conciliare la necessità del montaggio televisivo (in cui un’inquadratura non rimane ormai fissa per più di pochi secondi, e le telecamera è sempre in movimento per la paura del vuoto e del silenzio) con la forma della poesia, che, pur restando ferma in una lettura “sfugge da tutte le parti” come dice Zanzotto? I due ritmi sono forse inconciliabili.
Potremmo immaginare uno schermo nero, anzi la ripresa di una stanza buia, e una o più luci pulsanti anche colorate, se ti piace, a sottolineare il flusso elettrico e sanguigno della lettura. Non mancherebbero ovviamente gli spot; vedremmo bene le pubblicità di cosmetici, di fasce dimagranti, di macchine avanzatissime e lussuose, di siti che comparano condizioni economiche di banche e assicurazioni per farti incredibilmente risparmiare, insomma, tutte cose che sono lontane dall’uomo e detestano l’uomo così com’è, e lo vorrebbero trasformato, così che la poesia, che invece l’uomo lo ama e detesta così com’è, avrebbe la sua voce.

mercoledì 5 ottobre 2016

"Ritornerai a Región" di Juan Benet. La postfazione di Elide Pittarello al libro pubblicato da Amos Edizioni

Lo scorso anno, uno dei "casi" più strani e belli, proprio nel senso dell'avventura dell'impresa editoriale di proporlo, credo sia stato Ritornerai a Región di Juan Benet (Amos Edizioni, pp. 480, euro 20, traduzione di Sebastiano Gatto con la collaborazione di Piero Dal Bon, postfazione di Elide Pittarello). Mi fa piacere trovare un modo inedito per continuare a parlarne a distanza di molti mesi dalla pubblicazione (uscì in estate), perché quasi mai l'attualità libraria è un fenomeno simpatico, anzi, direi che proprio non lo è. Quindi ben venga anche lo scoppio ritardato. Pare che ogni Novecento nazionale abbia avuto il suo "ingegnere" e Benet fa il portabandiera per la letteratura spagnola, visto che spesso troverete riferimenti a lui in questo senso. Il solo altro titolo che trovate oggi disponibile in italiano si trova nel catalogo Adelphi (Nella penombra, romanzo del 1989 pubblicato da noi nel 1991). Volverás a Región comparve nel 1967 e abbastanza presto si trovò a sconvolgere le aspettative "medie" sul romanzo sociale di quel paese neutrale in due conflitti mondiali eppure così frantumato, prima dalla Guerra Civile e poi dal franchismo. Libro complesso, di lettura (e traduzione) non facile, per non dire estremamente ardua, Ritornerai a Región è meglio introdotto dalle parole di Elide Pittarello, docente di Letteratura spagnola a Ca' Foscari di Venezia, autrice della postfazione del verde libro ritratto qui sopra. Ringrazio lei e Michele Toniolo per questa concessione. 

(Pubblico nel post la prima parte del testo e il saggio intero come file *.pdf disponibile per il download a questo link.)


Juan Benet (Madrid 1927 - Madrid 1993)
Juan Benet: «Scrivo perché non so esporre le cose»
di Elide Pittarello


Dalla storia al romanzo

Poco noto al pubblico italiano, Juan Benet (Madrid, 1927-1993) rappresenta un caso unico nel panorama letterario del ’900 spagnolo. Senza precursori né epigoni, questo autore dominava due tipi di saperi contrapposti. Come ingegnere civile costruì importanti opere pubbliche e come umanista coltivò intensamente sia la scrittura creativa che quella saggistica. Amava molto la musica, che considerava la più perfetta delle arti, e si dilettava di pittura.
Radicale antifranchista, nel campo dell’estetica Juan Benet non ebbe alcuna indulgenza verso le buone intenzioni dei suoi amici marxisti. Disdegnava le avanguardie, ma detestava soprattutto il realismo, di qualsiasi epoca e specie. E tuttavia la sua narrativa affronta un tema storico per eccellenza: la guerra civile che nel XX secolo segnò tragicamente il destino del suo paese e la sua stessa vita. A pochi giorni dal 18 luglio del 1936, suo padre venne ucciso, ma per volontà della madre Juan Benet ne venne informato solo a guerra finita. Sempre evasivo quando si trattava della sua biografia, l’autore rilasciava in proposito scarne dichiarazioni, del tipo:
«Vissi la guerra fra i 9 e i 12 anni, epoca molto significativa, molto plastica, in cui si impara molto: entra tutto dagli occhi e resta in forma definitiva. Mi toccò vivere in tutti e due i bandi a causa di vicissitudini familiari...»1.

Centinaia di migliaia di morti e di esiliati, quasi quarant’anni di dittatura: oltre alle conseguenze individuali, queste le conseguenze collettive di un evento che è il referente di vari racconti e di tutti i romanzi di Juan Benet, ad eccezione dell’ultimo2. Ma a nessuno verrebbe in mente di definirli romanzi storici, nemmeno da un punto di vista postmoderno. Non solo manca l’intenzione di innestare, in modo più o meno verosimile, parti immaginarie in uno spaccato di realtà nota, ma quasi non si nominano i protagonisti politici, le bat-taglie significative, le date cruciali. Sporadico anche il rovello meta-discorsivo che, nel ’900, ha caratterizzato in modo plateale tante polemiche riscritture della storia in chiave romanzesca3.
Juan Benet preferisce invece polverizzare le corrispondenze fra res gestae e historia rerum gestarum, assemblando voci incon-gruenti che, contro ogni effetto di verosimiglianza mimetica, signifi-cano anche per ciò che non dicono4. Tale bricolage enunciativo comporta squarci referenziali e lacerazioni epistemologiche che turbano profondamente il significato del racconto letterario, tanto più se questo è basato sulla storia, che è già una costruzione discorsiva del passato. Ma era proprio quanto Juan Benet si proponeva di ottenere, combinando strategie narrative diverse per disgregare senza alcuna intenzione di ricostruire5. Tutte insieme mirano infatti a rappresentare campionature di incompetenza diegetica. È un difetto che l’autore empirico attribuisce di proposito non solo ai personaggi dei suoi romanzi, ma anche ai narratori onniscienti laddove esi-stano, e perfino a se stesso. Disse un giorno in una intervista con-cessa con l’abituale atteggiamento provocatorio: «Perché diavolo il narratore deve sapere tutto ciò che narra?»6.
Per essere libero da ogni positivismo, l’autore si inventò anche un proprio territorio, topograficamente marginale, in cui contrappose due minuscoli centri urbani: Región, schierato dalla parte legittima dei repubblicani, e Macerta, allineato con la parte ribelle dei nazionalisti. Una guerra civile – che ha per obiettivo la conquista dello Stato – si combatte, infatti, laddove ci sia una città da conquistare7. Con una localizzazione che non ammette verifiche né falsificazioni, l’intero conflitto fratricida che per tre anni coinvolse tutta la Spagna e molti paesi dell’Occidente viene dunque ridotto a qualche scontro sporadico, in un’aspra e remota zona montuosa. Una simile a quella che, nella realtà, Juan Benet modificava con successo, grazie ai suoi interventi di ingegnere. Ma questa, frutto della sua immaginazione, ha invece una natura così ostile e possente da far fallire ogni tentativo di modernizzazione tecnologica. Chi vi abita è solo un superstite. Miniere abbandonate, campi rinsecchiti, villaggi in gran parte deserti, due cittadine fantasma: i guasti della civiltà in declino finiscono per somigliare alle rozzezze di un insediamento primordiale. Nella cronologia si insinua una dimensione temporale estranea agli affanni di chi altrove insegue il progresso.
In un luogo tanto arcaico perché fortemente decaduto, anche l’azione bellica si sviluppa secondo un calendario anacronistico, con prospettive e aspettative molto diverse da quelle che tutti conosco-no. Il minuscolo conflitto raccontato da Juan Benet non è sospeso in quello strato vaporoso che, secondo Nietzsche, fa germinare vitalisticamente la storia futura8; piuttosto esso giace «dormiente nella fo-resta del non-événementiel»9. I fatti che lo riguardano non sono eventi, poiché esulano da intrecci referenziali già documentati e concettualizzati10. Una oscura relazione fra obiettivi spuri e mezzi improvvisati rende la guerra civile di Región trascurabile e inefficace.


Cosa resta alla letteratura

Tale scelta da parte dell’autore è consapevolmente legata allo stato del sapere contemporaneo. Una volta riconosciute le funzioni egemoni del pensiero scientifico nelle sue varie e sempre più estese applicazioni tecnologico-scientifiche, Juan Benet era convinto che alla letteratura rimanesse un campo più ristretto che in passato, ma anche più inventivo. Tramontata l’idea di una filosofia generale della storia, ridotta la verità a prodotto condiviso della volontà di potenza, assimilata la teoria della conoscenza alla teoria dell’azione, per Juan Benet anche la macchina tradizionale della diegesi doveva essere archiviata. Il romanziere del ’900 non sarebbe più stato un demiurgo. E dunque, a partire da questo rifiuto del ruolo di agente o motore supremo dell’opera d’arte da inventare come un tutto compiuto, Juan Benet decide di rendere le proprie creazioni inspiegabili. Disattende il principio di causalità e occulta ogni intenzione teleologica11, nel rispetto di quello che egli stesso definì un imperativo cartesiano, e cioè che «la letteratura non sarà mai scienza. Non deve essere informativa»12.
Ne dette prova applicando il suo piano decostruttivo a una ma-teria di cui in Spagna tutti erano a conoscenza e che segnò il falli-mento della politica, ma non solo. La guerra civile, che Platone de-finì «la più dura di tutte le guerre»13, è stata un evento storico di una violenza così radicale da far precipitare i valori e le categorie di giudizio di un secolo che si era già aperto all’insegna della crisi14. Non a caso, delle innumerevoli interpretazioni che si sono accavallate dalla fine del conflitto a oggi, nessuna è apparsa soddisfacente e meno che mai esaustiva. Anzi, scriveva l’autore:

«Aveva ragione il generale Duval, la guerra civile tende a diventare inintelligibile. La hegeliana marcia dello spirito e della ragione lungo il corso della storia è dimostrabile solo quando è la ragione – e una ragione palmare e scritta – ciò che muove i muscoli del maratoneta. Quando li muovono impulsi occulti – come l’avarizia, l’incompetenza, l’ambizione, la mancanza di coraggio – tende a diventare inintelligibile e dunque investigabile. Si potrebbe dire, tardivamente e inutilmente investigabile»15.

Nel suo insieme, quel conflitto già molto verbalizzato sembra irriducibile a un tipo di discorso univoco, perché ha sconvolto tutta la gerarchia delle relazioni che fondano la conoscenza e orientano la condotta degli uomini: dai principi dello Stato ai legami personali più elementari. Come ricordava Juan Benet per esperienza diretta, la guerra civile spagnola aveva reso nemici non solo i cittadini dello stesso paese, ma spesso anche i membri di una stessa famiglia. Una follia incontenibile che dette avvio a brutali forme di abiura, sconfessione e tradimento.
Oltrepassata ogni legge o misura che distingue la civiltà dal suo contrario, nello scenario insensato della guerra civile la morte irrompe allora come crudeltà incomprensibile e irreparabile. È questa la materia del tragico per eccellenza e lo scrittore spagnolo ne fece il tema ricorrente della sua narrativa, con la precisa intenzione di non spiegare e di non generalizzare. Da romanziere voleva dire proprio ciò che è interdetto a qualunque scienza, perché tracciò nel fenomeno inconoscibile della morte lo spartiacque fra la letteratura e tutto il resto del sapere nato con il logos. La ragione che, con la se-lezione operata dai suoi quadri concettuali, pone in anticipo ciò che finge di domandare, è inadatta a operare su ciò che esula, per principio, dal campo delle sue applicazioni. Mentre il discorso della scienza si preoccupa di trasmettere la memoria dell’uomo attraverso idee durature e comuni, per Juan Benet il discorso della letteratura deve invece guardare agli aspetti effimeri e accessori della vita:

«Ciò che è trasmissibile e comune conta poco per lei e il suo tema preferito è tutto quello che muore con il soggetto specifico della sua narrazione e che, di conseguenza, non si ripeterà più. Non solo trae il massimo vantaggio dalla morte, ma senza la condizione della finitezza il soggetto sarebbe così poco interessante da lasciarla senza oggetto, priva della funzione memorialistica. Così dunque la morte è la frontiera che separa la letteratura dal pensiero; una frontiera e una valvola»16.

Prendendo come termine di confronto e di esclusione tutto ciò che forma l’organizzazione concettuale della doxa, la letteratura seziona altrimenti il continuum dell’esperienza, inventando un racconto figurato, impreciso e reticente. Ne risultano testi fatti di scarti e ritagli che, per la loro costitutiva ambiguità, danno il colpo di grazia alla tradizione epica occidentale, con il suo corollario di norme esemplari che tanta importanza hanno avuto nella formazione del romanzo. Il congedo dalla ragione, infatti, comporta anche il naufragio della morale. Al contrario di Hegel che ricavava dall’azione rappresentata artisticamente l’identità dell’eroe, sempre legata a un ideale socialmente utile, Juan Benet volge lo sguardo al mondo del-la materia, riservando alla letteratura il compito di narrare ciò che di ogni individuo si perde per il solo fatto di essere vivo:

«Dell’eroe preferisce segnalare gli occhi grigi, i modi delicati, la nostalgia di un’esistenza più innocente. Forse i fatti che fondarono la sua gloria sono ciò che meno interessa. Indubbiamente tali fatti – registrati da una memoria immortale – sono sorti in seguito a certe circostanze e a certe condizioni che, marchiate dall’effimero, nessuno salvo il poeta si preoccuperà di rendere eterne. Per questo il suo è uno sforzo supplementare, una selezione di ciò che non si è notato, un interesse per l’accessorio, un’attenzione verso oggetti diversi da quelli della storia e – soprattutto – l’artificio con cui l’uomo più consapevole, incapace di sottrarsi al mondo dell’errore e della finitezza, elude la tentazione della verità mediante la sottomissione a ciò che muore»17.

Spazzata via la questione della verità, perfino nell’accezione pragmatica del nostro tempo, si scolora anche la volontà di potenza indispensabile ad abitare la terra. A Juan Benet interessa non la vita attiva, ma la contemplazione oltremondana, perché il suo orizzonte metafisico è determinato dall’enigma del transito. Accelerato e anticipato dalla catastrofe della guerra civile, il fenomeno della morte, di fronte alla quale non ci sono che vinti, segna l’angosciosa congiunzione/disgiunzione fra ciò che appare e ciò che non ha evidenza. Nasce qui, ai confini del sacro che è fondamentalmente silenzio, il suo testo letterario: presso la frontiera dell’essere che si definisce in quanto limite o carenza18 e di cui non si può dire che attraverso af-fabulazioni senza fondamento.
Se già la storia, osservava Paul Veyne, «può permettersi di essere lacunosa de jure. La verità è che essa non è un tessuto, e non ha ordito alcuno»19, non sorprende che la narrativa di Juan Benet, che parte dalla storia solo come evidenza oggettiva di avvenimenti da smontare, appaia una sorta di vanitas sfilacciata e imprevedibile. Aggiungeva l’autore che «l’arte letteraria non pretende in nessun momento di separarsi dal destino dell’uomo; non pretende di conoscerlo, nel senso scientifico»20. Solidale con una natura che tragicamente non cessa di fare e disfare, la parola letteraria narra le derive para-dossali della creatura abbandonata21.

Per questo i suoi romanzi, pieni di viaggiatori che subiscono ogni genere di scacchi, non si svolgono in maniera lineare. La letteratura, diceva l’autore con malizia etimologica, è «diversión», vale a dire un divertimento, un diversivo, ma anche – aggiungiamo, ricordando le accezioni latine di «divertere» e «devertere» – un volgersi altrove. Dal verso o «senso» della ragione si esce divagando.


(Potete scaricare l'intero saggio di Elide Pittarello come *.pdf a questo link.)

giovedì 14 maggio 2015

Qua si toccano i Nervi.
Fabio Donalisio, Marco Scarpa e Francesco Targhetta illustrano il progetto Nervi edizioni, libri di poesia fatti a mano

Librobreve intervista #54

Nervi Edizioni è ormai prossima al varo. Anzi, si può dire che è già varata poiché da qualche giorno sul sito è acquistabile tramite PayPal Primo lustro di Andrea Longega, primo libro piegato con dita e nervi e riportante in realtà in copertina il numero 03. Lascio subito spazio ai tre nervosi editori, vale a dire Fabio Donalisio, Marco Scarpa e Francesco Targhetta. Prima però vi ricordo che una presentazione del progetto avrà luogo a Treviso, a Ca' dei Ricchi, il prossimo 18 giugno e che per essere aggiornati su questa e altre iniziative la cosa migliore è seguirli su Twitter e/o Facebook (più avanti nel testo troverete anche l'indirizzo email e il sito).

LB: Chi di voi si prende la briga di cominciare ab ovo, consapevole che il racconto diventerà un giorno il mito fondativo?
R: Le cose succedono agli incroci. La poesia è un'esigenza vitale. E sticazzi per tutti i cavilli patetici che si possono ricamare attorno a questa espressione. O almeno lo è per noi. La cerchiamo, la necessitiamo. Pensiamo che la realtà la necessiti per essere un po' più lucida e forse anche un po' meno ingrata. Giocoforza ne abbiamo elaborato un'estetica. Una critica. Che per militare deve passare da potenza ad atto. Quindi, a parte farla, si può fare in modo che diventi libro quella degli altri. Non una parola qui sull'esplicita non volontà – o forse anti-volontà – di fare editoria di poesia in questo paese da tanti anni. Intendo farla davvero. Uno si mette a fare le cose quando non le trova già fatte. Quando non trovi i libri che vorresti leggere, e quando non sono fatti come ti piacerebbe tenerli in mano. Il mezzo è il messaggio, anche, del resto. Il racconto, deo gratias, è molto breve. Si vuole una cosa, e poi la si fa. E in mezzo un mare di problemi e di esaltazioni che sarebbe ridicolo voler raccontare. Non tutto è destinato al tritacarne dello storytelling. Ah, e soprattutto ci sono le persone. La vera differenza – e anche questo è irraccontabile – la fanno sempre loro. Quelle che ci sono state e quelle che ci sono ancora. Perché la vera parte fondativa, e mitica, è che fare queste cose è tanto necessario quanto assolutamente divertente. Se volete uno sfondo per il racconto silenzioso, immaginateci in un bar con orario di chiusura infinitamente procrastinato. E leggete i libretti. È già tutto lì.


LB: Chi fra voi vuole spiegare perché avete deciso di fare proprio così i libri di Nervi?
R: Sono vari gli stimoli che ci hanno smosso e spinto a rispondere concretamente a quanto ci pareva naufragare nel mondo della poesia.
Innanzitutto, oltre che appassionati di poesia, siamo degli entusiasti del libro, delle sue forme, delle sue carte, della sua estetica. E proprio l'aspetto di alcune pubblicazioni degli ultimi anni ci rattristava: alcune poesie bellissime, di autori magari poco noti, dentro involucri posticci, approssimativi, scialbi. E magari nemmeno a prezzi così economici. Dunque è scattata l'idea di tornare a fare libri partendo da scelte semplici ma consapevoli: una carta più che degna, un'impaginazione elegante, la scelta di un carattere ben leggibile e piacevole alla vista, un formato adatto e una cura nell'assemblare tutto questo. Ecco, direi che prendersi cura è concetto fondante. Sono libri pensati, poi visti crescere e infine ben presentati. Le poesie di queste sillogi sono, a nostro modo di vedere, ottime e ci piace pensare che siano in buone mani con noi e che abbiano trovato un’onorevole casa in cui dimorare.
Altro aspetto fondamentale è la logica imperante dietro molti compromessi tra autore e casa editrice. Noi non chiediamo un soldo all'autore e investiamo totalmente i nostri risparmi in sillogi in cui crediamo fortemente. Facciamo 100 copie di ogni libro e cinque le regaliamo all'autore. Non c'è nessun obbligo contrattuale tra autore e noi. Noi ci occuperemo di presentazioni e vendita dei libri perché crediamo molto in questo progetto e vogliamo metterci la faccia, le mani, le idee e la passione.
Forse tutto questo non avrebbe trovato ulteriore spinta se non avessimo conosciuto quel magico luogo che è la Tipoteca, il museo del Carattere a Cornuda, in provincia di Treviso, e incontrato Sandro Berra, che al suo interno lavora e anima questo luogo. Chi ama i libri e la scrittura trova un senso di pace e di gioia per gli occhi quando ci entra. Caratteri e torchi sono in bella vista.
E c'è una frase riportata su un manifesto: "Tutti i libri, fino al secolo XVIII-XIX, che si ammirano in musei e biblioteche, decorati di xilografie e di acqueforti, composti con caratteri armoniosi, ampi margini, perfetti di registro e stampati su carte preziose, sono uscite da un torchio a mano" (Franco Riva, umanista e tipografo veronese).


LB: Chi di voi vuole addentrarsi invece nella peculiarità produttiva di questi libri, da un punto di  vista anche molto tecnico?
R: Parlando di caratteristiche tecniche, ma senza addentrarsi troppo nello specifico, le carte scelte sono Hahmuhle da 150 grammi e il testo è stato composto in carattere Monotype Baskerville 12 PT.
La rilegatura è fatta a mano con filo di cotone e ogni autore ha un colore corrispondente che viene richiamato dal filo della rilegatura, dal titolo della raccolta e dall'involucro che contiene il libro. L’involucro anch’esso è una piccola opera di carta, di grammatura variabile tra i 120 e i 140 grammi, che non usa colle, graffette o adesivi per chiudersi ma, ben piegata, si richiude (a incastro) su se stessa.
 


LB:  Un altro potrebbe raccontare come scegliete chi (ma in fondo anche che cosa) pubblicare?
R: Quello che ci colpisce, e subito. Per ovvie ragioni, pubblichiamo plaquette molto brevi: 10-12 poesie. Quindi cerchiamo testi che possano incidere e dare un pugno allo stomaco, senza fronzoli. L’unico criterio è che i testi devono piacere a tutti tre. Se uno solo pone il veto, si passa ad altro. Non ci sono preclusioni o idiosincrasie pregiudiziali. Tutti tre scriviamo e leggiamo, ma cose piuttosto diverse, quindi è sempre imprevedibile immaginare dove possiamo incontrarci. Per questi primi tre libretti, abbiamo letto 20-30 autori, tra quelli che conoscevamo, ma non solo. Vorremmo trovare anche voci nuove. Abbiamo le antenne drizzate. Semmai: nerviedizioni@gmail.com.


LB: A questo punto, uno di voi potrebbe illustrare le prime uscite?
R:  Per questa prima tornata, abbiamo scelto tre autori che hanno già qualche pubblicazione alle spalle, anche importante. Si parte con Primo lustro di Andrea Longega, un poeta dialettale veneziano, che ci ha proposto una silloge disadorna ma di un’intensità disarmante: ce ne siamo innamorati subito. Seguiranno Un bestiario di Mariagiorgia Ulbar, una collana di poesie incentrate sugli animali che mostra tutto il talento della sua voce, più simbolica ma sempre appesa con asprezza alla materia, e Strada lavoro di Sebastiano Gatto, un autore che taceva come poeta da qualche anno (in cui aveva scelto la prosa) ma che nella misura di questi testi sospesi tra Mestre e Černobyl’ ritrova una potenza dolce e cruda assieme.


LB: Colui che ha risposto a una sola domanda sinora potrebbe dire quali mosse caratterizzeranno il modo in cui veicolerete questa iniziativa?
R: Le mosse classiche, con qualche sponda informatica in più: presentazioni collettive, letture, sia in ambiti “poet-friendly” sia in contesti per bibliofili, ma, insomma, un po’ ovunque, interazioni dai social vari, possibilità di comprare online (sul sito nerviedizioni.it si può fare già, tramite paypal). Vorremmo che un’iniziativa simile potesse avvicinare i bibliofili alla poesia ma anche sensibilizzare gli appassionati di versi sulla necessità di non abdicare quando si tratta di scegliere il supporto fisico. Le belle poesie dentro un brutto libro perdono potenza. Ecco, contiamo di far toccare con mano a più persone possibili, ma proprio con mano, invitandoli ad accarezzare la carta, osservare i caratteri, spacchettare l’involucro, annusare le pagine, il piacere di avere belle poesie dentro un bel libro.


LB: Ah, Nervi?
R: Nervi sono quelle cose che prendono le sensazioni e le spostano da una parte all'altra del corpo fino a giungere nel centro di elaborazione, che poi le risputa fuori modificate e modificanti. Sono quelle cose tramite cui ti rendi conto di provare dolore, o piacere. La metafora è sia forma che sostanza. Superfluo sottolineare le assonanze con la nostra missione. Con la E finale. I nervi, poi, sono anche cose che nelle rilegature fatte per bene fanno in modo che le pagine rimangano al loro posto. Dare un ordine, anche fisico, alle parole; disordinare chi le legge. Nulla più e nulla meno.

martedì 19 febbraio 2013

"La poesia del giovedì" all'Osteria da Filo: Sebastiano Gatto

ATTENZIONE!
Incontro posticipato di una settimana, a giovedì 28 febbraio, 
sempre alle ore 19:00.

Riprende la rassegna "La poesia del Giovedì" a cura di Maddalena Lotter e Giulia Rusconi. Il calendario prevedeva un'interruzione in corrispondenza del Carnevale veneziano, che quest'anno è coinciso con il bianco raro della neve su calli e natanti della laguna e con l'acqua alta che ha toccato i 143 cm sopra lo zero mareografico a Punta della Salute...


Giovedì 28 febbraio 2013
Osteria da Filo, Venezia, h. 19:00
Presentazione e reading di Sebastiano Gatto
Alla chitarra: Roberto Scala
info: portalepoesie@gmail.com


Sebastiano Gatto è nato a Mestre nel 1975 e vive a Venezia. È poeta e traduttore. Ha pubblicato i libri di poesia Padre Vostro (Campanotto, 2000) e Horse Category (Il Ponte del sale, 2009). Per Amos Edizioni ha curato e tradotto Memoria della neve e Poesie complete di Julio Llamazares e Abel Sánchez di Miguel de Unamuno. Per Il Ponte del sale, assieme a Ianus Pravo, Peter Pan non è che un nome di Leopoldo María Panero. Nel 2012 per Amos Edizioni ha pubblicato il romanzo breve Le sette biciclette di César (recensito qui).














Ecco un paio di poesie dell'autore tratte da Horse Category (Il ponte del sale, 2009)


Di nuovo a portarci via il fiato,
a prendere atto di noi,
di quanto ci manca, il fianco
esibito più che scoperto.
Ancora a capire che atto sia questo,
su quale parquet moduliamo
la voce, se rumoreggia la sala
o le zanzare tra i muri di casa.
Sempre a ferirci per darci soccorso,
l'uno il gobbo dell'altro,
il cruccio che siede di fronte
ad ogni pasto.

Gennaio 2007


CASA BAGNATA


T'inviterei in questa casa bagnata,
che il peso dei muri non tiene,
né i passi che calco sulle piastrelle.
Coprono ormai il collo dei piedi
calcinacci e cocci di tegola:
sporcano e strisciano fino a far male.

Potrei staccare gli elettrodomestici
e cogliere in silenzio una preghiera:
che per una volta l'umido ceda
il suo posto al tepore, abbastanza
da farti tornare tra il muschio
e la muffa di questa stanza.


giovedì 22 novembre 2012

"Mac(')ero", l'esordio di Marco Scarpa

C'è un'inquietudine di fondo che lega alcune esperienze di scrittura poetica, soprattutto tra i più giovani? Mi chiedevo semplicemente questo, apprezzando la prova d'esordio del poeta trevigiano Marco Scarpa, intitolata, con un uso inconsueto dei segni tipografici, Mac(')ero (Raffaelli, pp. 100, euro  12). Ci troviamo davanti un titolo che sembra quasi condurre, ironicamente, a quello che è spesso il destino di tutti gli esordi di poesia (il macero) e opporre, avversativamente, quell'istanza di presenza contenuta anche nella chiusura della poesia intitolata Rifiorire: "La prima cosa da fare / è ammettere di essere vivi". Ma in quale paesaggio si colloca questa poesia? La cruna dell'ago necessario, il passaggio obbligato per amare fino in fondo questa poesia, è rappresentato da Eugenio Turri, il grande geografo chiamato in causa un paio di volte nelle epigrafi delle sezioni, con frammenti da quella opera eccezionale tra le altre che fu Il paesaggio e il silenzio. In una di queste epigrafi, Scarpa estrapola una parola che attraversa per intero l'asse della sua scrittura: "Di giorno in giorno tutto si consuma, anche le cose costruite hanno il giorno dopo il segno di un'usura, un'usura del visibile, il primo annuncio del loro diventare detriti, deiezioni della storia".

Poesia e deiezione. Ecco i due punti sui quali scorre un asse portante di questo libro. La deiezione in Turri (e in Scarpa) sembra porsi in equilibrio difficile tra le sue valenze multiple in ambito medico, geologico e filosofico. E se in poesia non mancano grandi esponenti per ciascuna di queste singole valenze, poche volte si è provata una sintesi che non sia facilona e cascante. Questo poeta, per tentare l'impresa, sembra aver assorbito il succo migliore dei dettati di Grünbein e della sua bravissima traduttrice italiana, Anna Maria Carpi, e che sia andato oltre le case e i muri di Umberto Fiori

Farci scala e salendo, corpo
che muta, si estende, eretto
si danna, nulla più di una piana
priva d’acqua nel ritorno distesa
nulla più di sgranare la fame
                            per troppo cibo.

Se Grünbein – lo abbiamo scritto – ha lasciato un segno, il corpo diventa orientamento, la nostra unica arca per trarre in salvo gli spazi dall’alluvione disordinata dei tempi

Tengo le caviglie distanti da terra
le mani sudate per sfoghi accennati
mentre il groviglio si cuce a sussurri
la voglia ardente di calpestare
la vita, l’ambire alla presa, vibrare
e mai dome le dita, strozzare quel poco
che so e che uso per stare a galla.
Questo io vivo ed è come il salto
in alto con l’asta, solo che atterro
male e rimango disteso a lungo.

Alcune poesie sono caratterizzate da un movimento in due tempi, scandito anche tipograficamente con allineamenti diversi, con una seconda parte posta tra virgolette. Questa intelaiatura appare una mossa indovinata, un insolito convincente filtro tra reale e irreale, come in questa

L’altra ragione, quella che rimane muta
muta il piccolo che s’insinua nelle fessure
quelle mancate, sfuggite alle correzioni
vaghe ed imprecise, casuali.

“Controllo le linee verticali, gli stimoli
le cime degli istinti ma le linee stese
sgusciano tra i piedi, perdono la pelle
fanno scivolare i miei problemi a valle
tra i sassi dove alle dita non basta lo spazio
lo scanso, dove la spinta è impedita”.


Non è facile vivere, provare a vivere all’altezza del proprio tempo e dei propri tempi. Questo Marco Scarpa lo sa bene e lo sa dire bene, soprattutto in una sezione come Masserizie, apostrofata da una bella citazione da Sanguineti (“Bisogna averci un po’ di voglia di morire, / per aderirci, al vivere.”). Tale consapevolezza è limpida in poesie come questa

La beffa alle mani, lo smacco alla presa
mancata all’incastro, scivolata
tra le forme squadrate delle pareti,
ai margini spinte le pene, le frasche
scostate senza peso, i bordi allungati,
periferie che del centro
                            nutrono l’ingorgo.

Ritorno per un istante a Turri. Il paesaggio di queste poesie è una presenza potente, pur in una discrezione che non diventa banale sfondo o background predisposto allo show di fotogrammi detritici, dei crolli, della malattia. In questo paesaggio pare sia già tutto accaduto, eppure vige un principio di attesa che rilancia, tra la resa e la disfatta che non escono allo scoperto ma che stanno rintanate “[…] tra le pietre più basse, quelle / su cui frana tutto e da lì non si spostano”.  

Sebastiano Gatto, nella sua bella e utile prefazione (non è scontato che una prefazione a un libro di poesia sia utile!), parla del “libro delle cose rimaste, delle cose salvate e delle fondamenta (tanto in senso metaforico, quanto in senso letterale) su cui ricostruire. Ma perché l’esito sia tale, perché davvero le macerie possano trasformarsi in fondamenta, c’è bisogno di esperire fino in fondo un tempo e uno spazio dolorosi e incerti, il tempo e lo spazio necessari a scoprire se tra le rovine si annidi qualcosa da cui ripartire.” Non è scontato nemmeno che qualcosa da cui ripartire esista per forza, ma è a questo punto che si pone in tutta la sua importanza la deiezione, in tutte le sue valenze, quel binomio riuscito di questo esordio in cui riusciamo già a intravedere molto e altri importanti passi della scrittura di Marco Scarpa (sia detto in chiusura, un binomio lacerante, a suo modo doloroso, come guidare un'auto al mattino dopo aver letto e fatto proprie le pagine di Turri, dal suo paesaggio al suo silenzio).

sabato 9 giugno 2012

Sebastiano Gatto conta "Le sette biciclette di César"

Quel frequente rapporto di fascinazione, innamoramento tra un uomo più grande e una ragazza più giovane (ne ho parlato anche nella recensione a La suora giovane di Giovanni Arpino) ha molti esempi in letteratura. Così come l’agnizione è un espediente fondamentale di tutta la storia del narrare, pensate soltanto al teatro antico. Il racconto lungo di Sebastiano Gatto intitolato Le sette biciclette di César (Amos Edizioni, pp. 84, euro 9) riesce a fondere questi due luoghi importanti del narrare in una forma tutta nuova, finanche a sfiorare soltanto quell’altrettanto teatrale motivo dell’incesto.

Il protagonista conduce una vita sufficientemente normale, è impiegato in un ospedale dell’area veneziana (leggete questo racconto come una nuova efficace mappatura della Venice area, da Favaro a Mestre, da Venezia agli argini del Brenta). Vive e ha vissuto nei libri, tra i libri e la musica. Nel più banale dei momenti di una giornata lavorativa, la pausa-caffè alle macchinette, si scatena la vicenda che lo porterà all’agnizione finale. Qui incontra una ragazza di molti anni più giovane, in età universitaria. Ne descrive alla perfezione l’abbigliamento. Da questo momento in avanti per lui inizia una breve serie di incontri apparentemente casuali con lei. In realtà questi incontri casuali non sono, visto che sono architettati e favoriti dalla compagna (non solo di appartamento) di questa ragazza.

Per rispetto dei lettori non posso rivelare l’identità della ragazza incontrata alle macchinette del caffè, la quale giunge a scombussolare la vita di questo quarantenne che Tiziano Scarpa, nella quarta di copertina, vede “sospeso in una permanente transitorietà, come se le cose non fossero mai cominciate davvero. La verità è che era lui a non essersene mai accorto”. Ecco, mi avvalgo delle parole dello scrittore veneziano per lasciarvi intuire lo sconquasso al momento dell’agnizione (anche se abilmente Gatto non ce lo descrive, visto che conclude l’opera con la lunga lettera della giovane ragazza che porta a galla tutto il male della verità).

Forse avrete già intuito in quale relazione stanno il quarantenne e la giovane protagonista del racconto in piena età universitaria. Non è difficile. Quel che conta è portare alla luce il movente profondo di questa scrittura, un narrare che si salda, come dicevo in apertura, con una consolidata tradizione (non solo italiana), inserendo ottimi spunti di innovazione. Ad esempio, quel fin troppo didascalico uso della virgola che, da lettore, iniziava ad infastidirmi verso la metà del racconto, si salda alla perfezione con quell’inutile accuratezza formale che a volte alberga nelle nostre esistenze. Procedendo nella lettura, ho compreso che quelle virgole fin troppo scolastiche, fin troppo calibrate nella sua prosa, lì vicine ai pronomi relativi, in coppie a spezzare una subordinata, erano lo specchio migliore del finto ordine esistenziale e vitale che oggi ci sembra di tenere assieme, alla stregua del nostro protagonista (Scarpa parla di "viali delle sue frasi accurate"). Allora non bastano più ben calibrate virgole per tenere testa alle sempre più frequenti insubordinazioni della nostra identità e della nostra storia. Forse non basta più nemmeno la scrittura. Forse serve riscoprire una lettera, come quella che chiude il libro. Le lettere.

Per finire una nota sull'autore, che è nato a Mestre 37 anni fa. Oltre a essere traduttore dallo spagnolo (Julio Llamazares, Miguel de Unamuno) è anche poeta. Potete procurarvi il recente Horse Category, per il Ponte del Sale, e, se vi capita, non farvi sfuggire Padre vostro uscito da Campanotto nel 2000, uno dei più bei esordi poetici di quegli anni.