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Juan Benet (Madrid 1927 - Madrid 1993) |
di Elide Pittarello
Dalla
storia al romanzo
Poco noto al pubblico italiano, Juan
Benet (Madrid, 1927-1993) rappresenta un caso unico nel panorama letterario del
’900 spagnolo. Senza precursori né epigoni, questo autore dominava due tipi di
saperi contrapposti. Come ingegnere civile costruì importanti opere pubbliche e
come umanista coltivò intensamente sia la scrittura creativa che quella
saggistica. Amava molto la musica, che considerava la più perfetta delle arti,
e si dilettava di pittura.
Radicale antifranchista, nel campo
dell’estetica Juan Benet non ebbe alcuna indulgenza verso le buone intenzioni
dei suoi amici marxisti. Disdegnava le avanguardie, ma detestava soprattutto il
realismo, di qualsiasi epoca e specie. E tuttavia la sua narrativa affronta un
tema storico per eccellenza: la guerra civile che nel XX
secolo segnò tragicamente il destino del suo paese e la sua stessa vita. A pochi
giorni dal 18 luglio del 1936, suo padre venne ucciso, ma per volontà della
madre Juan Benet ne venne informato solo a guerra finita. Sempre evasivo quando
si trattava della sua biografia, l’autore rilasciava in proposito scarne
dichiarazioni, del tipo:
«Vissi la guerra fra i 9 e i 12 anni,
epoca molto significativa, molto plastica, in cui si impara molto: entra tutto
dagli occhi e resta in forma definitiva. Mi toccò vivere in tutti e due i bandi
a causa di vicissitudini familiari...»1.
Centinaia di migliaia di morti e di
esiliati, quasi quarant’anni di dittatura: oltre alle conseguenze individuali,
queste le conseguenze collettive di un evento che è il referente di vari
racconti e di tutti i romanzi di Juan Benet, ad eccezione dell’ultimo2.
Ma a nessuno verrebbe in mente di definirli romanzi storici, nemmeno da un
punto di vista postmoderno. Non solo manca l’intenzione di innestare, in modo
più o meno verosimile, parti immaginarie in uno spaccato di realtà nota, ma
quasi non si nominano i protagonisti politici, le bat-taglie significative, le
date cruciali. Sporadico anche il rovello meta-discorsivo che, nel ’900, ha
caratterizzato in modo plateale tante polemiche riscritture della storia in
chiave romanzesca3.
Juan Benet preferisce invece
polverizzare le corrispondenze fra res
gestae e historia rerum gestarum, assemblando voci incon-gruenti che,
contro ogni effetto di verosimiglianza mimetica, signifi-cano anche per ciò che
non dicono4. Tale bricolage enunciativo comporta squarci
referenziali e lacerazioni epistemologiche che turbano profondamente il
significato del racconto letterario, tanto più se questo è basato sulla storia,
che è già una costruzione discorsiva del passato. Ma era proprio quanto Juan
Benet si proponeva di ottenere, combinando strategie narrative diverse per
disgregare senza alcuna intenzione di ricostruire5. Tutte insieme
mirano infatti a rappresentare campionature di incompetenza diegetica. È un
difetto che l’autore empirico attribuisce di proposito non solo ai personaggi
dei suoi romanzi, ma anche ai narratori onniscienti laddove esi-stano, e
perfino a se stesso. Disse un giorno in una intervista con-cessa con l’abituale
atteggiamento provocatorio: «Perché diavolo il narratore deve sapere tutto ciò
che narra?»6.
Per essere libero da ogni positivismo,
l’autore si inventò anche un proprio territorio, topograficamente marginale, in
cui contrappose due minuscoli centri urbani: Región, schierato dalla parte
legittima dei repubblicani, e Macerta, allineato con la parte ribelle dei
nazionalisti. Una guerra civile – che ha per obiettivo la conquista dello
Stato – si combatte, infatti, laddove ci sia una città da conquistare7.
Con una localizzazione che non ammette verifiche né falsificazioni, l’intero
conflitto fratricida che per tre anni coinvolse tutta la Spagna e molti paesi
dell’Occidente viene dunque ridotto a qualche scontro sporadico, in un’aspra e
remota zona montuosa. Una simile a quella che, nella realtà, Juan Benet modificava
con successo, grazie ai suoi interventi di ingegnere. Ma questa, frutto della
sua immaginazione, ha invece una natura così ostile e possente da far fallire
ogni tentativo di modernizzazione tecnologica. Chi vi abita è solo un
superstite. Miniere abbandonate, campi rinsecchiti, villaggi in gran parte
deserti, due cittadine fantasma: i guasti della civiltà in declino finiscono
per somigliare alle rozzezze di un insediamento primordiale. Nella cronologia
si insinua una dimensione temporale estranea agli affanni di chi altrove
insegue il progresso.
In un luogo tanto arcaico perché
fortemente decaduto, anche l’azione bellica si sviluppa secondo un calendario
anacronistico, con prospettive e aspettative molto diverse da quelle che tutti
conosco-no. Il minuscolo conflitto raccontato da Juan Benet non è sospeso in
quello strato vaporoso che, secondo Nietzsche, fa germinare vitalisticamente la
storia futura8; piuttosto esso giace «dormiente nella fo-resta del non-événementiel»9. I fatti che lo
riguardano non sono eventi, poiché esulano da intrecci referenziali già
documentati e concettualizzati10. Una oscura relazione fra obiettivi
spuri e mezzi improvvisati rende la guerra civile di Región trascurabile e
inefficace.
Cosa
resta alla letteratura
Tale scelta da parte dell’autore è
consapevolmente legata allo stato del sapere contemporaneo. Una volta
riconosciute le funzioni egemoni del pensiero scientifico nelle sue varie e
sempre più estese applicazioni tecnologico-scientifiche, Juan Benet era convinto
che alla letteratura rimanesse un campo più ristretto che in passato, ma anche
più inventivo. Tramontata l’idea di una filosofia generale della storia,
ridotta la verità a prodotto condiviso della volontà di potenza, assimilata la
teoria della conoscenza alla teoria dell’azione, per Juan Benet anche la
macchina tradizionale della diegesi doveva essere archiviata. Il romanziere
del ’900 non sarebbe più stato un demiurgo. E dunque, a partire da questo
rifiuto del ruolo di agente o motore supremo dell’opera d’arte da inventare
come un tutto compiuto, Juan Benet decide di rendere le proprie creazioni
inspiegabili. Disattende il principio di causalità e occulta ogni intenzione
teleologica11, nel rispetto di quello che egli stesso definì un
imperativo cartesiano, e cioè che «la letteratura non sarà mai scienza. Non
deve essere informativa»12.
Ne dette prova applicando il suo piano
decostruttivo a una ma-teria di cui in Spagna tutti erano a conoscenza e che
segnò il falli-mento della politica, ma non solo. La guerra civile, che Platone
de-finì «la più dura di tutte le guerre»13, è stata un evento
storico di una violenza così radicale da far precipitare i valori e le
categorie di giudizio di un secolo che si era già aperto all’insegna della
crisi14. Non a caso, delle innumerevoli interpretazioni che si sono
accavallate dalla fine del conflitto a oggi, nessuna è apparsa soddisfacente e
meno che mai esaustiva. Anzi, scriveva l’autore:
«Aveva ragione il generale Duval, la
guerra civile tende a diventare inintelligibile. La hegeliana marcia dello
spirito e della ragione lungo il corso della storia è dimostrabile solo quando
è la ragione – e una ragione palmare e scritta – ciò che muove i muscoli del
maratoneta. Quando li muovono impulsi occulti – come l’avarizia,
l’incompetenza, l’ambizione, la mancanza di coraggio – tende a diventare
inintelligibile e dunque investigabile. Si potrebbe dire, tardivamente e
inutilmente investigabile»15.
Nel suo insieme, quel conflitto già
molto verbalizzato sembra irriducibile a un tipo di discorso univoco, perché ha
sconvolto tutta la gerarchia delle relazioni che fondano la conoscenza e
orientano la condotta degli uomini: dai principi dello Stato ai legami
personali più elementari. Come ricordava Juan Benet per esperienza diretta, la
guerra civile spagnola aveva reso nemici non solo i cittadini dello stesso
paese, ma spesso anche i membri di una stessa famiglia. Una follia
incontenibile che dette avvio a brutali forme di abiura, sconfessione e
tradimento.
Oltrepassata ogni legge o misura che
distingue la civiltà dal suo contrario, nello scenario insensato della guerra
civile la morte irrompe allora come crudeltà incomprensibile e irreparabile. È
questa la materia del tragico per eccellenza e lo scrittore spagnolo ne fece il
tema ricorrente della sua narrativa, con la precisa intenzione di non spiegare
e di non generalizzare. Da romanziere voleva dire proprio ciò che è interdetto
a qualunque scienza, perché tracciò nel fenomeno inconoscibile della morte lo
spartiacque fra la letteratura e tutto il resto del sapere nato con il logos.
La ragione che, con la se-lezione operata dai suoi quadri concettuali, pone in
anticipo ciò che finge di domandare, è inadatta a operare su ciò che esula, per
principio, dal campo delle sue applicazioni. Mentre il discorso della scienza
si preoccupa di trasmettere la memoria dell’uomo attraverso idee durature e
comuni, per Juan Benet il discorso della letteratura deve invece guardare agli
aspetti effimeri e accessori della vita:
«Ciò che è trasmissibile e comune conta
poco per lei e il suo tema preferito è tutto quello che muore con il soggetto
specifico della sua narrazione e che, di conseguenza, non si ripeterà più. Non
solo trae il massimo vantaggio dalla morte, ma senza la condizione della finitezza
il soggetto sarebbe così poco interessante da lasciarla senza oggetto, priva
della funzione memorialistica. Così dunque la morte è la frontiera che separa
la letteratura dal pensiero; una frontiera e una valvola»16.
Prendendo come termine di confronto e
di esclusione tutto ciò che forma l’organizzazione concettuale della doxa, la letteratura seziona altrimenti il continuum
dell’esperienza, inventando un racconto figurato, impreciso e reticente. Ne
risultano testi fatti di scarti e ritagli che, per la loro costitutiva
ambiguità, danno il colpo di grazia alla tradizione epica occidentale, con il
suo corollario di norme esemplari che tanta importanza hanno avuto nella
formazione del romanzo. Il congedo dalla ragione, infatti, comporta anche il naufragio
della morale. Al contrario di Hegel che ricavava dall’azione rappresentata
artisticamente l’identità dell’eroe, sempre legata a un ideale socialmente
utile, Juan Benet volge lo sguardo al mondo del-la materia, riservando alla
letteratura il compito di narrare ciò che di ogni individuo si perde per il
solo fatto di essere vivo:
«Dell’eroe preferisce segnalare gli
occhi grigi, i modi delicati, la nostalgia di un’esistenza più innocente. Forse
i fatti che fondarono la sua gloria sono ciò che meno interessa. Indubbiamente
tali fatti – registrati da una memoria immortale – sono sorti in seguito a
certe circostanze e a certe condizioni che, marchiate dall’effimero, nessuno
salvo il poeta si preoccuperà di rendere eterne. Per questo il suo è uno sforzo
supplementare, una selezione di ciò che non si è notato, un interesse per
l’accessorio, un’attenzione verso oggetti diversi da quelli della storia e –
soprattutto – l’artificio con cui l’uomo più consapevole, incapace di sottrarsi
al mondo dell’errore e della finitezza, elude la tentazione della verità
mediante la sottomissione a ciò che muore»17.
Spazzata via la questione della verità,
perfino nell’accezione pragmatica del nostro tempo, si scolora anche la volontà
di potenza indispensabile ad abitare la terra. A Juan Benet interessa non la
vita attiva, ma la contemplazione oltremondana, perché il suo orizzonte
metafisico è determinato dall’enigma del transito. Accelerato e anticipato
dalla catastrofe della guerra civile, il fenomeno della morte, di fronte alla
quale non ci sono che vinti, segna l’angosciosa congiunzione/disgiunzione fra
ciò che appare e ciò che non ha evidenza. Nasce qui, ai confini del sacro che
è fondamentalmente silenzio, il suo testo letterario: presso la frontiera
dell’essere che si definisce in quanto limite o carenza18 e di cui
non si può dire che attraverso af-fabulazioni senza fondamento.
Se già la storia, osservava Paul Veyne,
«può permettersi di essere lacunosa de
jure. La verità è che essa non è un
tessuto, e non ha ordito alcuno»19, non sorprende che la narrativa
di Juan Benet, che parte dalla storia solo come evidenza oggettiva di
avvenimenti da smontare, appaia una sorta di vanitas sfilacciata e imprevedibile.
Aggiungeva l’autore che «l’arte letteraria non pretende in nessun momento di
separarsi dal destino dell’uomo; non pretende di conoscerlo, nel senso
scientifico»20. Solidale con una natura che tragicamente non cessa
di fare e disfare, la parola letteraria narra le derive para-dossali della
creatura abbandonata21.
Per questo i suoi romanzi, pieni di
viaggiatori che subiscono ogni genere di scacchi, non si svolgono in maniera
lineare. La letteratura, diceva l’autore con malizia etimologica, è
«diversión», vale a dire un divertimento, un diversivo, ma anche – aggiungiamo,
ricordando le accezioni latine di «divertere» e «devertere» – un volgersi
altrove. Dal verso o «senso» della ragione si esce divagando.
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