mercoledì 28 gennaio 2015

Cento capolavori della letteratura cinese secondo Edoarda Masi

Lo scorso anno - è già trascorso qualche mese - Quodlibet ha reso disponibile nella collana "Quodlibet Bis" un testo già pubblicato nel 2009. Si intitola Cento capolavori della letteratura cinese (pp. 464, euro 18) ed uno dei molti lasciti intellettuali della studiosa Edoarda Masi, docente di lingua e letteratura cinese a Napoli e di lingua italiana a Shanghai, scomparsa nel 2011 a Milano. Come avete letto non si tratta di un vero libro breve, tuttavia, per come è stato progettato dall'autrice, si può davvero leggere come un libro a puntate, lasciarlo stare per un po', riprenderlo, metterlo a decantare, lasciarsi guidare dal fascino inquieto dell'apertura casuale di pagina. Le quattro o cinque pagine che Masi dedica di media a ogni capolavoro non sono propriamente "schede" di lettura, bensì tuffi dentro mondi lontanissimi, calibrati e preparati secondo un coefficiente di difficoltà sostenibile solo da chi ha dimostrato una preparazione e attaccamento indefesso alla propria materia. Così si mostra Edoarda Masi, la quale fu donna di studio ma anche dirigente delle biblioteche nazionali di Roma, Firenze e Milano.

Chi ha pensato questo libro si è mosso tra le insicurezze e l'abbandono che solo un viaggio vero può riservare. Ha capito le illusioni ottiche che la distanza sempre crea, ha eroso certezze o pregiudizi costruendo questo principio di puzzle con cento pezzi, mettendo in evidenza anche i pezzi fondamentali mancanti. Raccontare, o per meglio dire evocare questo corpo di testi scritti in una lingua che non fu quella parlata e provenienti da letterati che ricoprivano un vero ruolo istituzionale nelle civiltà di cui fecero parte, significa già provare un senso di grande straniamento. La dimensione del ruolo di quel letterato rischia di risultare per noi incomprensibile, per di più se raffrontata a situazioni a noi più familiari. Oggi poi il dubbio che viene è se la letteratura sia solo una branca (neanche tanto redditizia) del grande affare dell'entertainment. Significa poi comprendere il ruolo centrale che ebbe la storiografia come letteratura, o quello altrettanto imprescindibile dei testi teorici o politici, la comparsa tardiva del teatro e della narrativa, la sostanziale mancanza di una dimensione epica in queste opere. E lo si avverte come uno straniamento che forse si placa un poco almeno nel genere poetico, del quale l'Occidente si è accorto prima, seguendolo - pur tra mille impedimenti, linguistici in primis - con maggiore costanza e frequenti innamoramenti (inviterei davvero a rileggere quanto scriveva Montale nella prefazione al volume Lirici cinesi curato da Giorgia Valensin, pubblicato da Einaudi nel 1952).

Questo libro allora tiene nel palmo di 2500 anni cento opere tracciandone sempre il contesto di apparizione, la trama, le principali traduzioni e non risparmia giudizi sulla Cina dell'ultimo secolo. In effetti il grande interrogativo, appena appena adombrato, sta proprio lì: quale letteratura ha prodotto il "gigante" di questi ultimi decenni? Insomma, ricollocando in un giusto alveo di vero mistero e fascino l'oggetto del suo studio, Edoarda Masi è arrivata a porci delle domande oblique che in ultima battuta riguardano la letteratura e lei soltanto: che cosa (ce ne) facciamo della letteratura oggi? Parafrasando Hölderlin, diventa questa più un intendere il silenzio dell'Etere o le parole (e ideogrammi) dell'uomo? Forse queste sono domande mal poste, oppure domande che ci si pone quando non si viaggia affatto, quando si è in sosta, o quando il viaggio risulta solo un simbolo isterilito delle nostre invocazioni ripetute a quella semi-divinità che chiamiamo letteratura.

lunedì 26 gennaio 2015

"Uomini in guerra" di Andreas Latzko

Leggere una grande guerra #11

"Leggere una grande guerra" intende essere il breve spazio in cui segnalo dei libri sulla Prima guerra mondiale. Il quinquennio 2014-18 coincide con un lungo periodo di celebrazioni, commemorazioni ed eventi a livello internazionale. Segnalare semplicemente dei titoli di libri, brevi o meno brevi, passati o attuali, reperibili o non reperibili, italiani o stranieri, può essere un buon antidoto contro le fanfare e i tromboni che stanno pericolosamente giungendo un po' da ogni parte. Le segnalazioni saranno sintetiche, poco più di una scheda bibliografica. (In coordinamento con World War I Bridges).

Finalmente nel gran marasma di libri "stampati" per l'anniversario della Prima guerra mondiale arriva anche qualcosa di interessante ed è la traduzione di Menschen im Krieg di Andreas Latzko, scrittore-simbolo dell'impero asburgico se vogliamo, di padre ungherese e madre della capitale, combattente sul fronte isontino e travagliato da diversi problemi, sia fisici che mentali. Il libro è una raccolta di sei vivide, atroci e schiette testimonianze di vita al fronte. Esempio di letteratura anti-bellica che ebbe circolazione immediata già durante gli anni del conflitto, il titolo fu poi protagonista di una fuoriuscita dal solco dei libri always on quando si parla o scrive di letteratura nata nelle trincee. Ora Uomini in guerra è un libro nel catalogo della roveretana Keller (pp. 160, euro 14,50, traduzione di Melissa Maggioni) e rimette a disposizione dei lettori un altro testo scomparso, benché letto e tradotto sin dal suo primo apparire e acclamato da Karl Kraus (rimando a una recensione più estesa pubblicata nel sito World War I Bridges che potete trovare a questo link). A quando una nuova traduzione italiana dei Tre soldati di John Dos Passos?

giovedì 22 gennaio 2015

"L'ultimo degli ingiusti" di Claude Lanzmann. Il testo del documentario per Skira

©overtures #7

L'ultimo degli ingiusti contiene il testo del documentario Le dernier des injustes che il regista del gigantesco Shoah, Claude Lanzmann, ha dedicato al rabbino Benjamin Murmelstein. Lo pubblica in anteprima mondiale Skira (pp. 144, euro 15). La copertina mostra la parte posteriore del collo, la nuca, dei capelli pettinati e bagnati, le orecchie, una stanghetta d'occhiale e un pezzo di giacca di Murmelstein. Chi era Murmelstein? Parliamo del giovane dirigente della comunità ebraica viennese dall'anno dell'Anschluss al 1941, in seguito rabbino del ghetto di Theresienstadt negli anni cruciali dal 1943 al 1945. Fu processato dai cecoslovacchi a guerra finita e quindi assolto nel 1946. Impossibilitato a mettere piede in Israele, finì con la famiglia a Roma e fu impegnato in tutt'altre attività, nel commercio. Il regista di Shoah lo intervistò nel 1975 e quell'incontro romano fu la molla di questo documentario presentato a Cannes soltanto nel 2013. 

Sono assai note le situazioni che hanno visto protagonista il ghetto boemo da lui diretto, le accuse di collaborazionismo coi nazisti, le vicende tragiche che riguardarono anche quel ghetto, persino il sostegno al film di propaganda nazista sulle "invidiabili" condizioni del ghetto, Theresienstadt. Ein Dokumentarfilm aus dem jüdischen Siedlungsgebiet, reso poi celebre anche dall'Austerlitz di Sebald. Il documentario di Lanzmann e, insieme, questo testo riportano in primo piano il dibattito sui rabbini e gli anziani di tanti ghetti in quegli anni, sulla loro condotta controversa e su quel singolare e in fondo depotenziato, annichilito esercizio del potere che si trovarono a condurre. Sappiamo che furono tutti questi temi discussi da Primo Levi e compresi icasticamente nella celebre metafora della "zona grigia" de I sommersi e i salvati. E sappiamo che molto spesso la discussione rischia di assottigliarsi soltanto su interrogativi simili a quelli che troviamo in un film come Schindler's List: questi rabbini salvarono le vite che potevano salvare, grazie a qualche loro astuzia collaborativa? Potevano non collaborare? E il loro operato mise i bastoni tra gli ingranaggi della macchina di morte nazista? Salvarono il salvabile? Come potete capire, è un grumo di interrogativi che più lo si guarda più si avvita in sé stesso e sono domande che sbattono da più parti e che è bene stare ad osservare senza troppa serenità in questo loro sbattere da flipper, tanto più in questi giorni in cui la parte editorial-scolastica della Giornata della memoria - forse quella più inutile, se non nociva - rischia sempre di sopraffarci e, con il suo intento di essere memoria, rischia alla fine di far dimenticare o, quasi peggio, semplificare.

E la nostra copertina di Skira da cui siamo partiti? C'è un volto, ma non si vede. Possiamo solo immaginarlo. Il tentativo di Lanzmann di riabilitare la memoria di Murmelstein passa anche dal punto di ripresa di questa copertina, da tergo. Gli occhi sono di là. Nei tribunali, tra imputato e giudice, il rapporto è faccia a faccia. Qui non può esserci un vero tribunale, allora un giudice - se c'è - può giudicare solo da dietro e l'imputato - se c'è - può parlare, ma nella direzione opposta. A chi? E chi accusa chi?

lunedì 19 gennaio 2015

Poesie inedite di Simone Maria Bonin


"al cor gentil ratto s'apprende" è il titolo dello spazio che Librobreve dedica alle poesie inedite. Qui si ospitano testi che probabilmente andranno a costruire nuovi libri di poesia. Si propone come rubrica di solo testo, priva di foto glamour degli autori. L'unica immagine rimarrà quella del ratto qui sopra, identificativa di ogni post, un portafortuna che dedico agli ospiti. La pubblicazione avviene su invito e pertanto non ha senso inviare i propri testi all'autore del blog se non vi è stato prima un dialogo e accordo tra Alberto e chi ha scritto le poesie. Non ho previsto commenti o preamboli ai testi. I lettori invece possono commentare.


Poesie inedite di Simone Maria Bonin (Mestre, 1993) da Come funziona un corpo




L’inconscio non pone alcun problema di senso,
ma unicamente problemi di utilizzo.
Gilles Deleuze, Félix Guattari, L’Anti- Edipo



Distanziare le sillabe e distenderne il corpo
così che il suono diastolico moduli
al ritmo del cuore il flettersi del discorso
e le pause siano lacerazioni del senso
                   perdite del concetto
che è rigoroso il codice ma instabile
                                     come vedi
l’espandersi di me stesso

dobbiamo consumarci con rigore
           fare del nostro corpo
                                     esoscheletro
d’espropriazione: un esercito apolide
di vocaboli e sintagma smarrito
di una proposizione

***

“certo non usi lo sguardo 

nel modo giusto 
se in ogni momento
collassi, distratto, in un punto”

***

Da neurone a neurone
corre un filo elettrogeno
di fame

colpiscimi
se puoi, fammi male
prega altro dolore

un colpo di esistenza
tra le vertebre delle parole  

venerdì 16 gennaio 2015

La collana “Богатыри“ di Damocle edizioni dedicata ai classici e contemporanei della letteratura russa

Storie di collane micro #12

Di Damocle Edizioni ho già parlato in un paio di occasioni. La casa editrice veneziana è specializzata nella pubblicazione di tascabili in doppia lingua e libri d’artista, saggistica, poesia e teatro (è presente nel centro storico di Venezia con una propria libreria dove è possibile trovare una raccolta di libri in italiano, inglese, francese, tedesco, russo, lettone, portoghese e spagnolo, di cui molti cuciti a mano e in tiratura limitata).

La nuova collana “Богатыри“, a cura di Chiara Munerato, è dedicata ai classici e contemporanei della letteratura russa. Ogni libro è cucito a mano e presenta il testo a fronte russo-italiano. Riporto qui sotto alcune informazioni che ho ricevuto da Pierpaolo Pregnolato, che ringrazio.

La prima uscita è un testo inedito per l’Italia di Michail Bulgakov. 
Era maggio (Был май) è un racconto scritto nel 1934, ma pubblicato solo nel 1978. Il protagonista, cui non viene mai dato un nome, incontra casualmente un drammaturgo, Polievkt Eduardovič, che in modo un po’ scontroso gli dà delle dritte su una sua pièce. Tale incontro avviene in una Mosca primaverile, nel mese di maggio, appunto, e a fare da sfondo alla storia è il caos che in questa città regna sovrano. Il testo si focalizza sui sentimenti e le sensazioni del protagonista, che dalle memorie della moglie di Bulgakov scopriamo essere l’autore stesso. Il racconto è stato tradotto da Chiara Munerato e l’illustrazione in copertina è di Margarita Fjodorova.

"И исчез май. И потом был июнь, июль. А потом наступила осень. И все дожди поливали этот переулок, и, беспокоя сердце своим гулом, поворачивался круг на сцене, и ежедневно я умирал, и потом опять настал май."
"E maggio scomparve. Ci fu poi giugno, luglio. Quindi arrivò l’autunno. E tutte le piogge annaffiavano quel vicolo, il ciclo si chiudeva sulla scena, angustiando il cuore con il suo brusio, ed ogni giorno io morivo, e poi ancora venne maggio."

La seconda uscita è un testo di Fëdor Dostoevskij. Due suicidi (Два самоубийства) è un estratto dal Diario di uno scrittore, un compendio di memorie e riflessioni personali, redatto dall’autore a partire dal 1873. Due suicidi fu scritto nel mese di ottobre del 1876. Anche in questo caso la traduzione è di Chiara Munerato e l'illustrazione in copertina è di Margarita Fjodorova.

"...никогда нам не исчерпать всего явления, не добраться до конца п начала его. Нам знакомо одно лишь насущное видимо-текущее, да и то понаглядке, а концы и начала — это всё еще пока для человека фантастическое."
"...non ci sarà mai dato di esaurire un fenomeno nella sua interezza, di raggiungerne l’inizio e la fine. Conosciamo solo ciò che è presente, reale ed evidente, e per di più solo poco per volta, mentre la fine e l’inizio restano per l’uomo ancora qualcosa di fantastico."

martedì 13 gennaio 2015

Pensieri sull'arte di Umberto Boccioni: "La gran madre"

Quote #7

"To repeat or copy the words of another, usually with acknowledgment of the source." Questo il verbo "to quote". Ma in italiano "quote" è il plurale di quota, parola che mi interessa soprattutto nel senso della misura di un'altezza o di un lato. Citando e contestualizzando minimamente passi importanti, cerco un modo assai svelto di dar notizia di libri significativi, possibilmente brevi. Stando breve, pure io.

Per chi scrive il pensiero e l'opera di Umberto Boccioni sono i più duraturi fra quelli espressi dal Futurismo italiano. Resta quello un movimento controverso, anche in questi anni in cui continua a rimanere al centro di attenzioni in tante parti del mondo e ad accendere sempre un forse non disinteressato interesse verso quanto accadeva nella nostra penisola in quel tempo. Innegabilmente ebbe un ruolo nell'apertura delle finestre che l'Italia intratteneva con i giardini e gli orti esterni. Sussiste un elemento assai incoraggiante nell'avvicinarsi all'opera di Boccioni, la quale travalica grandemente il movimento di appartenenza. Una piccola antologia di qualche anno di pensieri e delle riproduzioni di opere trovano posto nelle pagine scelte e curate da Fabrizio Zollo e pubblicate in questo curioso volume delle edizioni Via del Vento di Pistoia (La gran madre. Pensieri sull'arte, pp. 36, euro 4). Nel 2016 ricorrerà il centenario della morte di questo artista, ucciso da una caduta del tutto accidentale da cavallo, nei pressi di Verona, in piena guerra, dopo un richiamo al fronte per quelli della sua classe (1882). Un anno di conflitto gli era bastato per rivedere il giudizio sulla "sola igiene del mondo". Boccioni, che fu tra i pochi a esprimere riserve persino sul nome incontrastato di Picasso, in queste annotazioni dimostra tutta l'irrequietezza del vivere, pensare e agire, concentrata soprattutto in quel lustro di tempo compreso fra il 1907 e il 1912. Emerge nitidissima la stima incrollabile per Gaetano Previati, ma anche la noia o l'eccitazione successiva alla partecipazione a una corsa al Circuito di Brescia. Insomma, nella manciata di pagine selezionate da Fabrizio Zollo c'è la possibilità di spaziare tra le date di questi pensieri e allora il modo migliore per congedarsi è trascriverne un paio.


Mi si sviluppa sempre più la capacità alla solitudine; la compagnia e il passeggio mi tediano. O lavorare o leggere. Ma quando ho lavorato mi è impossibile non continuare l'idillio con gli utensili e gli oggetti della mia Arte adorata. Preferisco al leggere stare in mezzo ai miei arnesi pulire, raschiare, ordinare, preparare... Affilare le armi!!... E poi cosa sarà? Riuscirò? Sarò e farò qualcosa. Il perché di tutto questo?/ È un buon segno l'indifferenza assoluta che s'impossessa di me verso la donna salvo in dati periodi in cui il maschio di 24 anni si fa sentire?/ È buono ch'io non senta in me né il desiderio né la facoltà di amare?/ È buono che non senta nel mondo nessun legame nessun affetto assolutamente, salvo molto (il massimo ch'io possa) per mia Madre e mia Sorella?/ È buono il desiderio di restar solo? Sono abbastanza profondo per viver solo e ho paura della forza degli altri? Perché fuggo gli artisti e gli altri che sembra lottino come me? (26.7.1907)

Sono impressionato perché disposto a crederci. Oggi la mia cartolaia, una vecchia signora polacca, appena entrato mi ha detto in modo strano: lei diventerà un grande artista. (23.9.1907)

venerdì 9 gennaio 2015

La poetica della musica di Igor Stravinsky

Musicali pretesti #3

Di tanto in tanto, una notizia su un libro e un brano da ascoltare, al libro collegato.
 
Le Edizioni Curci, specializzate in pubblicazioni musicali anche a sfondo didattico, hanno reso disponibile per il lettore italiano il ciclo di conferenze che Stravinsky tenne a Harvard fra il 1939 e il 1940. Il libro, Poetica della musica (pp. 126, euro 13, traduzione di Lino Curci), è la versione italiana di Poetics of Music in the Form of Six Lessons e racchiude le "Norton Lectures" del compositore sepolto nel cimitero veneziano di San Michele, noti cicli di conferenze ai quali hanno preso parte personalità delle humanities ben note in tutto il mondo e che assai spesso hanno ospitato dei musicisti. Per l'Italia c'è stato Luciano Berio ed il suo Un ricordo al futuro è un libro che andrebbe letto da ogni persona che dice di "amare la musica" ed è proprio dello scorso anno, fra le altre cose, la partecipazione di Herbie Hancock con il suo The Ethics of Jazz. Il libro di oggi rappresenta un'occasione rara per assistere al momento speculativo e riflessivo del compositore della Sagra di primavera. Si passa da esposizioni più a carattere generale contenenti riflessioni sulla propria opera a lezioni più serrate su fenomeno, composizione e tipologia musicale, e non manca uno studio più circoscritto all'ambito russo, per chiudere infine con pagine chiare in cui la musica, "ciò che unifica" nel pensiero di Seu-ma-Tsien, è studiata nell'atto di esecuzione.

lunedì 5 gennaio 2015

Sade letto da Guillaume Apollinaire

Chi legge Sade oggi? La vicenda del "divin marchese" è abbastanza nota, perlomeno a grandi linee: ha prestato parole (e parole composte) al nostro dizionario, è entrato nell'immaginario, eppure per tutto l'Ottocento non se l'è filato sostanzialmente nessuno, ad eccezione di Baudelaire e Rimbaud in patria e Swinburne nell'Inghilterra vittoriana. D'accordo, non sono nomi da poco, ma non sono bastati a portare in primo piano la sua opera e così il vero risveglio d'interesse (e anche l'effettiva reperibilità delle opere) si è verificata soltanto nel Novecento, grazie allo sdoganamento via psicologia/psicoanalisi ma anche grazie a generazioni di scrittori che hanno finalmente letto le sue opere e ne hanno efficacemente scritto. Ricordo allora il capitolo che gli dedica Georges Bataille ne La Littérature et le Mal (che noi possiamo leggere nella traduzione di Zanzotto), Pierre Klossowski che scrisse Sade prossimo mio, ma anche Barthes o Blanchot. Non da ultimo il poeta Apollinaire autore di L'Œuvre du Marquis de Sade nel 1909 e di cui Elliot propone una edizione nella collana "Maestri" diretta da Antonio Debenedetti (Sade, pp. 96, euro 10, introduzione di Giuseppe Scaraffia e traduzione di Giovanna Rui).

L'anno che si è appena concluso è stato editorialmente abbastanza ricco, complici i duecento anni dalla morte del nostro autore, avvenuta nell'ospizio per malati mentali di Charenton e quindi ora non vi è che l'imbarazzo della scelta, visto che molte sono state le nuove traduzioni e le riproposizioni per avvicinarsi a un autore il cui nome si lega ai temi fondamentali della perversione, del male e del vizio/virtù. Apollinaire ci mostra per gradi come Donatien-Alphonse-François abbia dalla sua teorie, idee e stile senza pari, una sorta di "divina spregiudicatezza". In questa manciata di pagine Apollinaire, con un incredibile piglio d'ordine e senso d'urgenza, getta sull'arena una propria personalissima lettura dell'opera e della vicenda del marchese. Pur non essendo una biografia, lo scritto di Apollinaire è una passeggiata avventurosa attraverso quasi tutti gli anni di Sade, le vicende politiche e civili che lo coinvolsero, la prigionia, le lettere. Le pagine del poeta diventano monito contro tutte le strumentalizzazioni dell'opera sadiana sempre in agguato. Alla fine ci accorgiamo che il portato intellettuale di figure come quella di Sade è un detonatore attivo sulle crepe e sulle cerniere tra le epoche che spesso amiamo individuare e marcare. E ai nostri occhi, ma anche già a quelli di Apollinaire, Sade allora appare come una sorta di contraltare o specchio infranto della ragione dell'Illuminismo, un passo falso e necessario di un'intera epoca che forse credeva di non essere destinata a fare la conoscenza delle sabbie mobili del pensiero e della condizione umana e che invece in queste sabbie vi è precipitata, pesantemente, a piè pari.